Molti lo ricorderanno come membro della PFM (Premiata Forneria Marconi), ma Franco Mussida oltre a essere un musicista dalle numerose collaborazioni, è anche scultore, scrittore e amico di vecchia data di Musicultura. Tra gli ospiti che hanno inaugurato la settimana di incontri culturali e musicali che formano la Controra, ieri pomeriggio ha fatto da apri fila alla serie di incontri che animeranno il cortile di Palazzo Conventati fino a domenica 22 giugno.
Il celebre musicista ha presentato nell’arco dell’incontro il suo ultimo libro dal titolo La musica ignorata, frutto di trentacinque anni di ricerca artistica e scientifica sul potere evocativo della musica. Nel volume sono presenti 41 tavole a colori che riprendono sculture, modelli e quadri legati al suo lavoro visuale sui poteri del suono e dell’intervallo musicale, in cui il suono si associa all’immagine. «In un mondo in cui l’importante è comunicare ma non importa come e perché – ha dichiarato -, la musica fa fatica a parlare di sé e si perde sempre di più la natura stessa della comunicazione musicale». A fine incontro, ha parlato di musica e del suo libro anche con la redazione di “Sciuscià”. Ecco la nostra chiacchierata.
Parla del potere evocativo della musica che crea immagini. Cosa pensa di chi compone musica per delle immagini già esistenti, come per esempio gli autori di colonne sonore per il cinema?
Il lavoro del musicista che si misura con le immagini è un lavoro molto particolare, perché deve poter mettere insieme il modo in cui le persone percepiscono determinate musiche e e determinati suoni con i luoghi. Morricone è stato bravissimo nell’associare musiche, che sono diventate delle icone, a dei luoghi precisi. Nei suoi spaghetti western i suoni andini dei flauti e delle chitarre non davano semplicemente la dimensione della tensione del momento, ma avevano anche il compito di far vivere i luoghi i cui era ambientata l’azione. L’opera del musicista che lavora per immagini ha questo duplice aspetto: deve legarsi alle emozioni o alla tensione che vuole suggerire all’ascoltatore e nello stesso tempo tenere conto dei luoghi.
Lei distingue tra “musica immaginativa” e “musica tappezzeria”, ossia la musica di oggi che viene commercializzata e che non è fatta per essere ascoltata. Ma secondo lei in quali ambienti oggi si fa ancora vera sperimentazione musicale e ciò che viene prodotto è fatto per essere ascoltato?
Tutto il mondo della musica strumentale, dal punto di vista dei musicisti che la fanno e che la producono, ha l’unico scopo di essere ascoltata. Quello che viene a mancare in questo momento è l’educazione dell’ascoltatore, perché non gli è stato spiegato che ascoltare un CD significa anche entrare in una dimensione fatta di ricordi. Dedicare del tempo all’ascolto di una musica che non si è mai sentita prima, e attivare così un meccanismo di ricordi individuali, è qualcosa di importante che dà valore, energia, forza. Ma tale lavoro va fatto con coscienza, bisogna dedicargli il tempo necessario. Sto portando avanti tale idea attraverso il progetto “CO2” in 4 carceri italiane provviste di audioteche, in cui si trovano centinaia e centinaia di brani strumentali divisi in base agli stati d’animo che si vogliono suscitare. È un progetto sperimentale dal quale usciranno anche indicazioni per il pubblico in modo che si ritorni ad avere del tempo da dedicare solo all’ascolto della musica.
Una stessa musica può suscitare emozioni e pareri diversi in chi l’ascolta; l’esempio più classico è il rock degli anni ‘70. Perché accade questo secondo lei? Perché una stessa musica può essere amata da una generazione e odiata da un’altra?
Nel produrre musica ogni generazione mette delle forme e associa degli aspetti sociali che la caratterizzano; la cosa negativa è che il mondo della musica popolare contemporanea oggi fa fatica a sedimentare memoria. Ogni generazione diventa proprietaria della sua musica e non si riconosce in quella degli altri. In realtà vi è tutto un susseguirsi di opportunità e di strade laterali, la musica è come un fiume dal quale vengono fuori tanti affluenti. Se si tagliasse a monte il fiume originario, tutte le altre cose che si trovano a monte morirebbero; così non esiste che il punk sia solo punk, che il rock sia solo rock, che il funky sia solo funky. Sono delle derivazioni di questo grande fiume naturale che è la musica a cui le generazioni non guardano, perché troppe impegnate a concentrarsi su quello che hanno. É un problema di educazione: fino a che la musica popolare contemporanea non verrà considerata più solo un fenomeno sociale, ma anche artistico e umano, le generazioni continueranno a consumarsi nel tempo senza riferirsi a una memoria più larga.
Lei è un grande amico di Musicultura; visto che si parla di potere evocativo della musica che cosa le evoca la musica proposta qui?
Musicultura è un festival che bada alla qualità, mi piace vedere lo sforzo di una città che vuole fare la differenza sulla qualità. Faccio dunque i miei complimenti al festival, che continui a lavorare in questa direzione perché in questa confusione generale, in cui tutti quanti sono assatanati di comunicazione, si perdono un po’ di vista il senso e il significato della qualità.