Nel dopoguerra molti ragazzi vedono nell’ideologia comunista un progetto di pace: ci sono i sognatori, i fanatici e poi c’è Gabriele, la cui “adesione al comunismo non aveva niente a che vedere con Marx e Lenin”, protagonista dell’ultimo romanzo di Stefano Zecchi, Rose bianche a Fiume, presentato martedì 15 giugno a Palazzo Conventati in occasione de La Controra di Musicultura.
Lo scrittore veneziano racconta le vicende che gli italiani hanno dovuto affrontare dopo la II Guerra Mondiale; soprattutto intende ripercorre in maniera realistica le storie, gli umori, lo sconforto ma anche le speranze di chi è tornato, dopo anni di esilio, a Fiume.
Chi è Gabriele e perché viene più volte soprannominato “il bravo ragazzo”?
Gabriele è una figura utopica. È un giovane che in un certo periodo della nostra storia ha pensato che il comunismo fosse la realizzazione dei sogni romantici di libertà, di progresso, di bene universale. Il “bravo ragazzo” è chi antepone il sogno alla realtà. Gabriele si sveglierà drammaticamente davanti alla visione di un comunismo crudo che vuole realizzare un progetto egemone. Paga un prezzo alto che non è soltanto legato ad un errore, ma ad un’illusione, alla concezione del mondo che lo ha tradito e per questo lo travolge.
Nel suo romanzo si evince una cura dettagliata nella descrizione dei territori. Come mai questa scelta?
Pensavo fosse uno dei modi migliori per far sì che il lettore entrasse nell’atmosfera che si stava vivendo nel dopoguerra. Gli spazi sono vissuti, le case e le strade rappresentano storie. I paesaggi servono a capire quello che è stato, in un momento in cui tante tracce del passato sono state cancellate. Descrivo ambienti credibili e questo viene notato da molti lettori.
Come evolve Fiume agli occhi di Gabriele?
Evolve negativamente e si spersonalizza. Lo si nota negli edifici popolari intesi come grandi casermoni dislocati in paesi satelliti dell’Unione Sovietica. Fiume tratteneva il ricordo di Venezia; era una realtà basata su strette amicizie, si percepiva la vicinanze alla vita dei campi. Gabriele, d’altra parte, non perde il senso di amore per la città di Fiume, per le sue colline, il mare. Osservandola, percepisce le verità di un ambiente distrutto dall’edilizia di stampo sovietico.
Gabriele sfida il passato: è riuscito a capire chi sono i vinti e chi i vincitori?
Io sono convinto che Gabriele abbia capito molto bene chi siano i vinti e chi i vincitori. Dice: “In fondo perché soffrire per colpa di Tito e del suo comunismo? Sì, la mia vita è stata segnata per sempre ma nello stesso tempo ho cercato di oltrepassarla”. Ha fatto i conti con il passato e nello stesso tempo è stato condannato all’esilio come tanti italiani, abbandonando la terra della sua adolescenza e della sua formazione più intensa.
La musica è una forma d’arte molto coraggiosa per raccontare la cultura ed il passato del nostro Paese. C’è una canzone a cui è legato e che le rievoca immagini della nostra storia?
Io sono convinto che ci sono due fasi della canzone popolare italiana: una tipologia musicale termina il 31 dicembre 1969. È la musica degli anni ’60, semplice nella sua capacità di coinvolgimento emotivo; mi riferisco alle canzoni di Gino Paoli, Luigi Tenco, Ornella Vanoni. Successivamente inizia una nuova stagione: si intravede una canzone d’autore più colta e presuntuosa, quella dei cantautori che si dividono, a mio avviso, in grandi artisti come Lucio Battisti, Lucio Dalla, Franco Battiato, Fabrizio De Andrè, e in modesti. Poi c’è la canzone confusa dei nostri giorni, in cui persiste un aspetto melodico.