Ezio Guaitamacchi, giornalista e critico musicale, a La Controra ha abbandonato la penna e preso la chitarra: accompagnato dalla potentissima voce di Brunella Boschetti, ha condotto il pubblico degli Antichi Forni in un viaggio negli anni Sessanta e Settanta. Servendosi di Bob Dylan come del Virgilio dantesco, Guaitamacchi ha attraversato l’inferno e il paradiso di un decennio in cui i grandi miti del rock, quelli che ancora oggi la radio continua a passare, hanno messo le radici nella terra della musica.
“Dylan & The Beats” è un progetto che, attraverso la commistione di musica e parole, vuole raccontare le vite dei grandi miti del rock che hanno fatto la storia. Come è nata l’idea e come si è creata la collaborazione artistica con Brunella Boscheti?
Non mi ricordo esattamente l’anno! Da dodici anni sono direttore di un Master in Giornalismo e Critica musicale, ma già precedentemente tenevo dei corsi sulla storia del rock in una scuola: entrai in aula per la lezione e trovai Brunella che cantava al pianoforte; dopo poco tempo, mi portò una sua cassetta: la ascoltai e, a dir la verità, la giudicai piuttosto deludente. Nel frattempo, avevo iniziato a lavorare ad un libro che mi sarebbe piaciuto promuovere con una modalità di presentazione diversa dal solito, attraverso la rivisitazione di grandi classici del rock in un’altra chiave di lettura: presi le mie chitarre e mi accorsi che avevo bisogno di una voce femminile. Dopo un paio d’anni Brunella è diventata mia partner artistica e continua ancora ad esserlo, ormai da molto tempo.
Quale crede che sia, se c’è, la differenza fondamentale tra i ragazzi di oggi e coloro che invece sono stati giovani nel decennio Sessanta-Settanta?
Sì, c’è una differenza che forse in pochi sottolineano: la young generation di oggi è molto “comoda”, nel senso che, essendoci molto più benessere, si è di conseguenza spostata più in là l’età critica in cui ognuno deve iniziare a cavarsela da solo. È questa la vera differenza. Poi, ovviamente, anche tutto il resto è cambiato, a partire dal contesto storico : per quanto riguarda il mondo dell’arte e della musica, gli anni dei Sessanta e Settanta rimangono irripetibili, ma coloro che li hanno vissuti non se ne rendevano conto. Io, ad esempio, ho vissuto i cosiddetti “anni di piombo”: frequentavo la Bocconi e mi ricordo delle bombe molotov, delle gambizzazioni, dell’esercito in strada; tutta l’ideologizzazione che aveva caratterizzato il decennio precedente si tramutò in qualcosa di difficile da vivere. Rimpiango quegli anni per la mia giovinezza, ma non per quello che ho vissuto. Spostando il discorso sulla musica, gli artisti di quarant’anni fa avevano molte meno possibilità rispetto a quelli di oggi. Oggi, ognuno di noi potrebbe scaricarsi un programma sul proprio pc ed iniziare a fare musica; i social network, in questo senso, giocano un ruolo fondamentale, perché permettono a chiunque di esprimersi liberamente. Negli anni Sessanta, produrre un album costava, e costava molto; ora tutto è stato reso più facile, con il risultato che si è persa la percezione di quello che è la professionalità, anche in campo artistico.
Se dovesse sceglierne solo uno, quale sarebbe il disco da cui, secondo lei, nessun buon ascoltatore di rock dovrebbe prescindere?
Parlare di un solo disco mi sembra troppo riduttivo. È come se mi chiedessero di scegliere un quadro in tutto il Rinascimento: impossibile. Comunque, è convinzione di molti che Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles sia il disco più importante della storia del rock.
A questo punto, allora, le chiedo: Beatles o Rolling Stones?
Questo dualismo fu creato dal manager dei Rolling Stones, ed io risponderei citando Gianni Morandi: amo sia i Beatles che i Rolling Stones, perché sono le due facce della stessa medaglia. Artisticamente parlando, sono cose molto diverse tra loro: i Beatles sono stati un caso più unico che raro, i Rolling Stones hanno fatto della commistione tra blues e rock la loro specializzazione; i primi sono universali, i secondi eccitano.
Da critico musicale e musicista, qual è il giudizio che dà a Musicultura?
Musicultura è un piccolo miracolo, ma dovrebbe essere un esempio da imitare per tutto il mondo della musica e dell’arte. È uno spazio non per i talenti effimeri, ma per chi fa della musica un’arte a prescindere dall’aspetto commerciale. Dovrebbero esistere dieci, cento, mille Musicultura.