Mauro Coruzzi, in arte Platinette, è il primo ospite dei tre appuntamenti previsti da La Controra con Le parole che non ti ho detto, un format ideato da Vincenzo Galluzzo, che in Musicultura ha trovato uno dei primi palcoscenici e che già si proietta nel palinsesto televisivo: ogni protagonista scrive una lettera a una persona cara, spinto dall’esigenza di dirle tutto quello che non ha mai avuto il coraggio o il tempo di dire.
Mauro scrive a Platinette una toccante confessione nel corso della quale la ringrazia per averlo aiutato ad uscire da una condizione giovanile difficile e frustrante e la prega ancora: “non mollarmi adesso al mio destino di creatura votata all’infelicità”. Dopo aver ripercorso alcuni dei tanti momenti di questa lunga, a tratti travagliata ma salvifica “convivenza nello stesso corpo”, Mauro condivide con Galluzzo pensieri, aneddoti e indiscrezioni legati a quell’inedita possibilità di essere “due persone in una sola vita”. Anche la redazione di “Sciuscià” riesce a strappargli un’intervista e ad imprimere per i suoi lettori almeno qualche istantanea di un personaggio pubblico ormai familiare da una prospettiva inusuale.
Speaker radiofonico, cantante, scrittore, autore, conduttore televisivo e molto altro: a quale delle sue anime artistiche non potrebbe rinunciare?
Alla radio: è stato il mio primo lavoro per il quale ho interrotto l’università. Feci fino al primo anno e poi mollai di colpo quando nacque la prima radio privata della mia città, io fui pazzo dell’idea e dopo un mese cominciai a fare il pendolare tra Parma e Bologna, dove frequentavo il DAMS . È il lavoro con cui ho iniziato e con cui vorrei finire, per me ha la priorità. Se domani capitasse la possibilità di fare nello stesso momento due cose e fossi obbligato a scegliere, non avrei dubbi.
Quando negli anni Settanta esordì con il collettivo en travesti Le Pumitrozzole, primo gruppo di teatro omosessuale militante in Italia, l’arte era impegno politico e l’autoironia era una lama tagliente e pericolosa. È ancora così? Cosa ricorda di quegli anni? Cos’è e cosa potrebbe essere militanza oggi?
Quella di quegli anni era, almeno per quanto riguardava me e il gruppo del quale facevo parte, una militanza pro forma. Non vorrei scadere nella volgarità nel dirti questo, ma allora – era la Bologna del ’77, negli anni in cui si arrivò a un estremismo tale per cui si verificò anche quel famoso fatto di cronaca che coinvolse il DAM, nel pieno della diffusione delle droghe, negli anni del postpunk – noi partecipavamo alle manifestazioni perché gli operai, in virtù della cosiddetta “pratica dell’amore libero”, non dicevano mai di no, perché era politicamente corretto far così. Noi, certo, eravamo iscritte all’ARCI e quant’altro, ma se l’ARCI ci ingaggiava per una serata e poi non ci pagava, noi andavamo lì a battere le porte per avere quanto ci spettava. Non mi piace la “militanza di regime”, qualunque essa sia e non è vero che gli omosessuali sono tutti di sinistra e votano tutti a sinistra, se fosse così la metà di Cologno Monzese non dovrebbe esistere. Io credo che la vera militanza la si faccia all’interno delle istituzioni. Io non sono mai stato bocciato, ho sempre dato esami col massimo dei voti finché ho studiato, però se c’era un motivo per il quale occupare io lo facevo, poi avevo le mie sospensioni però non mi sono mai fatto cogliere impreparato. La vera militanza non è quella politica, trovo sia molto più significativo dare degli esempi, chiaramente ragionati.
Con il passare degli anni la prospettiva che ognuno ha su se stesso muta e muta il rapporto che ognuno intrattiene con il suo o i suoi “personaggi”. Per lei – che ha dato un corpo, delle lunghe ciglia e una capigliatura biondo platino all’alter ego che la abita – come si è evoluto quel rapporto?
Si è un po’ chiarito adesso; diciamo che ho imparato i pregi di una convivenza non forzata, alla quale un giorno mi ha convinto una persona che io stimavo e tuttora stimo molto, che è Costanzo. Mi ha detto, preso dal suo intuito meraviglioso: “vedo che quella roba che si mette addosso comincia a starle un po’ stretta, e non parlo di taglie, provi a svestirsi un po’ ché ce la fa lo stesso”. Così mi convinsi a fare questa svestizione, andai a “Buona Domenica” in giacca e cravatta e capii che aveva ragione lui. Però non ho mai ucciso quell’altra perché ormai la convivenza è datata. Poi quando hai la possibilità di fare due vite in una sola – se vuoi essere cretina col botto lo sei fino in fondo, se vuoi far notare al mondo intero che hai studiato un po’, che parli decentemente la lingua, che sai chi sono Moravia e Calvino, a proposito di esami di maturità, e li hai anche letti – perché rinunciarvi?
Nel corso della sua carriera ha calcato innumerevoli palcoscenici, lavorato con decine di artisti e personaggi dello spettacolo: qual è il momento che ricorda con maggiore piacere e c’è invece qualcosa che recrimina e cambierebbe del suo passato?
Non recrimino nulla perché sono tutte scelte che ho fatto e le esperienze sono importanti e vanno vissute. L’esperienza più strana che ho fatto, non tanto per me, quanto per come la hanno giudicata gli altri, risale agli inizi del 2000, quando ho diretto con Irene Pivetti, che arrivava dalla lega, “Bisturi”. Era un programma in prima serata sulla chirurgia plastica, di cui non abbiamo fatto uso né io né lei visibilmente. E risultò talmente scioccante. Non tanto per noi italiani, ma, ad esempio, per gli americani. Ricordo con stupore che arrivò il “New York Times” ad inondarci di foto e servizi. Per l’America è impensabile che quella che era stata la seconda carica istituzionale del Paese facesse un programma con un travestito. Più recente e di tutt’altro genere è l’esperienza del cinema. Ho interpretato una parte in un film di Ozpetek, “Magnifica presenza” e ho capito che mi piace molto, o almeno mi piacerebbe molto provare ad imparare.
Se non avesse scelto di scrivere al suo alter ego la “lettera impossibile” de Le parole che non ti ho detto, il progetto ideato da Vincenzo Galluzzo e presentato qui a Musicultura, a chi altro l’avrebbe indirizzata?
Se vuoi una risposta personale, di Mauro, l’avrei scritta a mia madre, anche se sarebbe un po’ troppo ovvio, nel senso che è molto facile che gli omosessuali anziani pensino alla madre. Se l’avessi invece dovuta scrivere a una persona che ho avuto l’onore di incontrare e di frequentare, ma alla quale non ho mai detto tutto perché non abbiamo mai parlato di musica, l’avrei indirizzata a Mina. Reputo un regalo dell’esistenza averla sentita cantare dal vivo per due volte, aver mangiato a casa sua e le scriverei quello che non sono mai riuscita a dirle, perché quando ce l’hai davanti, resti lì impalato, come un cretino.