Cantante con alle spalle quasi vent’anni di carriera, interprete di brani di grandissimi della musica italiana, madre e artista dalle mille sfaccettature, ma soprattutto una donna con una forza, un’energia e uno straordinario amore per la musica che non possono non arrivare a chiunque ascolti la sua voce e le sue parole. Si parla di Syria, nome d’arte di Cecilia Cipressi, anche lei ospite della XXVI edizione di Musicultura.
In Piazza Cesare Battisti, in occasione di uno degli eventi de La Controra, la cantante romana ha intrattenuto il pubblico maceratese con i suoi racconti e la sua musica. Presentata e intervistata da Michela Pallonari, ha parlato del suo percorso artistico, dei suoi progetti, della sua vita di madre e donna innamorata del suo mestiere e ha regalato agli spettatori emozionanti momenti di musica, cantando “Momenti” – testo di Sergio Endrigo donatole dalla figlia Claudia e musicato da Cesare Malfatti – e “Vacanze romane”. La Durante la serata, la sua esibizione sul palco dello Sferisterio dal quale ha allietato la platea dell’Arena con la sua voce, prima da sola e poi duettando con Amara in una splendida ed emozionante interpretazione di “C’è tempo”, mostrando a tutti quanto nella musica sia importante e fondamentale condividere.
Nella tua carriera di cantante figurano collaborazioni con molti artisti della musica italiana e i brani dei tuoi dischi portano firme di autori importanti, solo per citarne alcuni: Mattone, Antonacci, Jovanotti, Nannini, Ferro, Giorgia, Pezzali. Guardando la tua esperienza retrospettivamente potresti raccontarci un evento o un rapporto artistico in particolare fondamentale per te e la tua carriera, una figura, un modello di riferimento imprescindibile senza cui non saresti la Syria di adesso?
Te ne nomino uno solo: Lorenzo Jovanotti. L’incontro con lui ha ribaltato le cose, mi ha scritto delle canzoni così belle, così pop, così radiofoniche che chiaramente hanno contribuito a una svolta. Dal punto di vista artistico e sul piano umano ho conosciuto un maestro, un amico, una persona che ha creduto in me e che mi ha spronata ad avere una visione magari meno melodica della musica – comunque i miei esordi sono quelli – e ad affrontare le cose con più coraggio e sperimentazione. Quindi lui ha dato il via a una serie di cose, poi nella mia vita in questi vent’anni ci sono stati vari incontri ed esperienze che mi hanno fatto venire voglia di diventare ancora più curiosa di quello che ero.
Il 2 marzo di quest’anno insieme alla chitarra di Tony Canto e ai testi di Luca De Gennaro hai debuttato con Bellissime nel Teatro Comunale Garibaldi di Enna. Il progetto, mediante cui restituisci alla vita le voci di «interpreti femminili che hanno reso immortali delicate melodie», permette agli spettatori di compiere un viaggio nella storia della musica italiana al femminile dagli anni ’40 ad oggi. Ma come e quando nasce l’idea di Bellissime?
Io nasco come interprete quindi ho sempre amato accogliere le parole scritte da altri autori, mi è sempre piaciuta l’idea di farle mie ed è come se in qualche modo si recitasse una storia. Riflettendo sul panorama femminile della musica italiana e su quello che le donne hanno fatto con le canzoni ho sentito la necessità di sentirmi come un tramite rispetto a storie e brani che hanno lasciato il segno. Mi è venuta voglia di rivisitarle e di viverle a modo mio, non per esaltare le mie doti vocali, ma semplicemente per raccontare quello che in fondo è successo anche a me: grazie alle canzoni scritte da grandi autori per grandi donne avere il piacere, la voglia di accostarsi a certe realtà. Quindi l’idea di fare questo progetto scaturisce dall’amore profondo che ho per artiste come Ornella Vanoni, Gabriella Ferri, Dalida, Mina, Rita Pavone: tutte quelle donne che un po’ mi hanno condizionato e che mi hanno permesso di crescere. Questo mestiere è splendido ma ci sono delle basi fondamentali che bisogna conoscere, approfondire la storia di alcune personalità femminili. L’idea di Bellissime nasce sotto un ulivo in Puglia insieme al mio caro amico Luca De Gennaro – che poi ha scritto i testi di questo spettacolo – e nasce dalla voglia semplicemente di divulgare certe storie, certi racconti di donne. Donne che sono anche amiche, perché si parte da Nilla Pizzi ma si arriva anche a Malika Ayane. È così, è un racconto. Dopo tutti questi anni credo che sia bello fare un disco, pensare a me, ma onestamente mi piace anche mettermi dall’altra parte e osservare, scrutare, imparare. Ho semplicemente il desiderio di sedermi su uno sgabello e di raccontare cosa ho scoperto, come l’ho scoperto e chi c’è dietro una canzone, insomma studiare assieme al pubblico.
Nel 2009 esce Vivo amo esco un EP prodotto in collaborazione con gli Hot Gossip e che comprende anche Io ho te cover della Rettore in cui hai duettato con i Club Dogo. Syria si trasforma in Airys e la canzoni rispecchiano questa metamorfosi. Da che tipo di impulso deriva questo bisogno di cambiamento? Credi che sia fondamentale per un artista approcciarsi a diversi stili e cercare sempre nuovi stimoli durante il suo percorso musicale?
Io penso che sia soggettivo per ognuno. Ci sono cantautori che hanno la fortuna e la possibilità di saper scrivere e magari di dare al proprio mondo musicale un senso già dall’inizio, cantautori che raccontandosi attraverso i loro dischi, seguono una coerenza di fondo dettata da uno stile, un’attitudine. Poi ci sono quelli come me, gli interpreti che si mettono al servizio della musica che accolgono le canzoni degli autori che scrivono per loro e che quindi sono abbastanza coinvolti, di progetto in progetto, in qualcosa di diverso. Se si interpretano brani di artisti diversi non sempre può essere in un filo conduttore – sia nella scrittura che nella produzione. A me è successo questo: io nasco nella melodia, sono partita con Mattone, poi negli anni ho incontrato Biagio Antonacci, Tiziano Ferro, Jovanotti, Giorgia, tante persone che mi hanno regalato canzoni e mi hanno permesso di sperimentare. Dietro a certi modi di rappresentarsi c’è sempre un gusto e il mio gusto non è mai stato coerente. Questo perché fin dall’inizio sono stata molto curiosa. All’estero è più semplice, non c’è niente di male se un giorno si fa un tipo di musica e poi si cambia genere. Perché no? Io mi voglio concedere il lusso di sentirmi libera. Poi è chiaro che c’è una parte di pubblico che apprezza e qualcun altro che trova strano il mio bisogno di passare dopo anni dalle melodie, al lavoro in teatro con Paolo Rossi, alla sperimentazione con le band indipendenti, e infine a un disco elettronico. Ma a me piace vivere la musica così, almeno finché me ne danno la possibilità. Mi diverto perché ho stimoli e perché incontro persone che mi coinvolgono. Non scrivo, non sono una cantautrice coerente: sono un’interprete. Un esempio di questo modo di approcciarsi alla musica, anche se si tratta di un caso limite, potrebbe essere quello di Mike Patton: ha un progetto dedicato alla musica degli anni ’60, Mondo cane, a cui ha partecipato un’orchestra e allo stesso tempo è anche il cantante dei Faith No More, una band alternative metal.
Parliamo invece di un altro tuo disco, Un’altra me, uscito nel 2008. In questo tuo lavoro decidi di interpretare i brani di alcuni gruppi del panorama indipendente italiano. Come mai questa scelta? Qual è il filo conduttore che lega le canzoni?
Ricordo che quando ho fatto questo disco stavo lavorando al teatro con Paolo Rossi ed era un periodo in cui sfogliavo molte riviste musicali, leggevo recensioni, ascoltavo tanta musica. E come è possibile non soffermarsi di fronte a tutto ciò che ha da offrire il panorama indie italiano? Poi tutto è partito dai Perturbazione, da lì, poi, sono arrivata ai primi dischi dei Baustelle e ai Non voglio che Clara: è stata una ricerca, non affannosa e affannata, ma dettata dalla curiosità. In quel periodo viaggiavo molto e, anche avendo una figlia, quando potevo trovavo il tempo di approfondire di più, di continuare questa ricerca musicale. Poi pian piano mi sono accostata a questo mondo, ho conosciuto i Perturbazione, ho incontrato Cesare Malfatti dei La Crus che stimavo già da tempo e a cui poi ho chiesto di provare a fare un disco. Anche se c’era un po’ questa scissione tra il pop e l’indie, ho trovato una grande apertura da parte di questa realtà e ho incontrato delle persone che mi hanno permesso di prendere coraggio e fare un mio tributo alla musica indipendente. Tra tutte le canzoni che ho scelto ho trovato molto affascinante prima di tutto la scrittura, ho preso canzoni che non riuscivo a trovare nel pop: avevo bisogno di raccontare a modo mio quello che è stato scritto nell’indie. Non per cercare di inventarmi qualcosa di nuovo ma semplicemente per fare un tributo a delle realtà che bisognerebbe approfondire. Inoltre ho trovato molti amici, tutti quelli che sono stati coinvolti li ho incontrati di nuovo negli anni, ci ho condiviso delle esperienze e tutti hanno compreso il fatto che da parte mia c’era una genuina voglia di accostarmi a loro per raccontare anche al mio pubblico che c’è un mondo che vale la pena scoprire. E credo che Un’altra me sia il mio disco più bello.