INTERVISTA – Il GnuQuartet a Musicultura duetta con Fabi: «il suono degli strumenti è la nostra voce»

Nella prima delle tre serate finali gli Gnu Quartet accompagnano Niccolò Fabi sul palco dello Sferisterio, in quello che definiscono “un acustico a modo nostro”, per ombreggiare con una luce diversa alcuni aspetti dei brani del cantautore. Ma nel pomeriggio, a Piazza Cesare Battisti, si esibiscono in un concerto tutto strumentale per La Controra.

Alternano brani inediti a cover e danno prova del potere immaginifico della loro musica e dei suoi espedienti con l’uso percussivo degli strumenti o ancora abbandonando gli archetti e divertendosi in arpeggi di viola e violoncello. Le parole fanno solo da cornice alla loro arte e scelgono gli intermezzi per raccontare la storia dei loro brani. Nell’anticipare l’uscita del loro primo album di inediti dicono: “non avrà copertina né titoli, contro la bulimia del mondo musicale di oggi che ha bisogno di supporti video e rifiuta la musica strumentale: noi crediamo nella libertà dell’ascoltatore di immaginare ciò che vuole”.

Nati nel 2006, nel giro di pochi anni avete raggiunto l’affermazione artistica, confermata da numerosissime collaborazioni con nomi del calibro di Paoli, Cristicchi, PFM, Baustelle, Vecchioni, Tiromancino, Arisa solo per citarne alcuni. Come ci siete riusciti?

Il vero trucco qual è? La fortuna, e anche farsi trovare pronti dalla fortuna. Ci vuole la situazione favorevole perché accada qualcosa, devi essere nel posto giusto, al momento giusto, con le persone giuste – sia i giusti compagni di gruppo, sia le persone intorno che possano darti la possibilità di fare le cose che hai sempre volute fare. Da che abbiamo iniziato poi è stato come un domino, abbiamo fato cadere tutte le tessere una dopo l’altra e siamo arrivati quasi a festeggiare i dieci anni di attività. Un segreto vero, poi, che i musicisti non dicono mai, è studiare tanto: bisogna applicarsi e lavorar, quello che abbiamo fatto noi che penso sia stato un segno un po’ innovativo rispetto a chi prima di noi, a parte qualche eccezione veramente rara, si è dedicato con i nostri strumenti a fare musica non classica. La differenza è che noi lo abbiamo fatto con la serietà della musica classica o del jazz – considerata l’unica musica colta – con un grande spirito di ricerca che non ci sembra esaurito ancora oggi. Poi le cose che facciamo sono, bene o male, le cose che piacciono agli artisti con i quali abbiamo collaborato: una particolare ritmica che riusciamo a tenere grazie all’uno che facciamo dei nostri strumenti. Abbiamo avuto la fortuna in questi anni di risultare particolari ed originali. In effetti noi ci siamo inventati, non esisteva nulla simile al quartetto. Il fatto di non copiare mai da nessuno è una delle cose più difficili per chi fa musica strumentale come noi. Abbiamo creato un mix di diversi elementi, portanti ciascuno dal proprio mondo musicale e trasformati in un solo suono.

“Genova di tutta la vita. /Mia litania infinita. / Genova di stoccafisso / e di garofano, fisso / bersaglio dove inclina / la rondine: la rima” – così recita l’ultima strofa di Litanìa di Giorgio Caproni che vi cito per domandarvi se e in che misura il volo del GnuQuartet inclina sulla loro città, patria di poeti e cantautori che hanno tratto ispirazione da essa e l’hanno a loro volta ispirata.

Questa Genova ci va un po’ stretta, questa Genova che va, ritorna, questa Genova matrigna, che De André forse ha descritto meglio di tutti. Una città in cui noi amiamo molto tornare. Forse è anche lo spirito del viaggio proprio di un porto di marinai che ti porta ad amare questa città ma anche ad evaderne per vedere cosa c’è al di fuori. Sicuramente è una città che con tutte le difficoltà che presenta soprattutto all’inizio di una carriera ti stimola ad andare oltre le tue possibilità, a sfidarle. Infatti non appena riesci a mettere il naso fuori dalla città i riconoscimenti e l’appoggio che trovi nel mondo musicale ti confermano che il lavoro fatto là era ben mirato. Genova ci accoglie sempre a braccia aperte, lì abbiamo un nostro seguito abbastanza folto, tutte le estati infatti facciamo un concerto pressoché gratuito per chi è dovuto rimanere in città, chi non è andato in vacanza: scegliamo una piazza e facciamo un concerto che è una specie di festa. Però, a differenza di tanti musicisti della nostra città che hanno optato per inserirsi nel territorio in maniera solida e costruirsi una carriera attorno al territorio e alle istituzioni genovesi, noi invece abbiamo preferito misurarci con tutto quello che è al di fuori di questa città. È vero che è una città di cantautori e di poeti ma ad esempio Roma è stata sede dell’ultima grande spinta al mondo cantautorale, per merito di Niccolò Fabi, Danele Silvestri, Max Gazzé e Simone Cristicchi, gli ultimi che hanno usufruito di qualche investimento nel campo della musica. Di lì anche l’utilizzo delle diverse tecnologie e l’accelerazione della comunicazione ha un po’ disperso i talenti, che non sono più focalizzabili e focalizzati in un unico posto. Quello che succedeva a Genova negli anni ’40 e negli anni ’50 era molto particolare: era una città di mare, era un porto, non a caso Napoli e Genova hanno tirato fuori grandi novità nel campo musicale perché erano i luoghi in cui arrivavano i dischi degli americani e si ascoltava musica che altrove non si ascoltava. Quest’aspetto logistico, unito al fatto che si incontrassero delle persone che avevano voglia di esercitare la loro capacità di cambiamento sulla realtà, ha determinato quel fervore. Anche per loro è stata una questione di opportunità. Gino Paoli voleva fare il disegnatore, l’hanno quasi costretto a scrivere “Il cielo in una stanza” e la canta ancora adesso; senza questo gruppo che si era andato formando intorno a lui, non avremmo nessuna canzone di Gino Paoli oggi. Ci vogliono l’occasione e la capacità di coglierla.

Avete realizzato progetti anche diversissimi fra loro e sicuramente diversissimi da quello che ci si aspettarebbe da un quartetto che ha la vostra composizione: dalla partecipazione a trasmissioni televisive come Che tempo che fa, Quelli che il calcio, Domenica in, alla produzione di un disco interamente dedicato alla riscoperta dei Muse, alla colonna sonora di un cartone animato sul rispetto della natura. Qual è l’invariabile, se una ve n’è, dello GnuQuartet?

L’amicizia, la voglia di suonare insieme e il divertimento: tutte le volte che ci esibiamo, dal momento prima quando facciamo il nostro grido di battaglia a quando saliamo sul palco, siamo carichi di energia e di entusiasmo, sempre. Ma anche il suono è il nostro e non cambia, risulta quasi sempre riconoscibile il nostro apporto. Ci distinguiamo già solo per il fatto che il quartetto classico è formato da due violini, viola e violoncello, mentre manca la sonorità del flauto. La sonorità, l’entusiasmo, tutti questi ingredienti, si mescolano insieme a dare qualcosa che è riconoscibile. Ad esempio quando abbiamo fatto la sigla di Pane quotidiano non lo avevamo comunicato ma ci hanno contattato per dirci che ci avevano riconosciuti. Questa penso sia la cosa più bella che possa accadere ad un musicista, visto che la nostra voce è il suono degli strumenti.

Avete fatto concerti in giro per il mondo e il vostro ultimo EP, Karma, è uscito non solo in Italia ma anche in Messico e in Corea. All’estero avete trovato un pubblico diversamente predisposto all’ascolto e alla fruizione della vostra musica?

Abbiamo trovato tantissimo entusiasmo e un tipo di ascolto diverso. I musicisti poi sono quasi venerati, c’è una sorta di feticismo legato alla fotografia, all’autografo. Eravamo quasi più “famosi” che qui. Quando vai all’estero parti di nuovo da zero e questo può essere un pro e un contro, noi non eravamo gli Gnu che hanno suonato con Gino Paoli eravamo gli Gnu e basta. C’è molta curiosità poi nell’ascoltare e riconoscere le qualità di un gruppo e non c’è una netta divisione tra musica strumentale e musica cantata, è molto più facile farsi ascoltare all’estero per un gruppo come il nostro. Quello di Karma poi è un progetto di musica progressive, è un qualcosa di molto mirato per due paesi che amano alla follia la musica prog, amano anche cose fatte in Italia negli anni Settanta che noi, magari, abbiamo anche dimenticato. È stato molto divertente, andare all’estero è sempre un mettersi alla prova dal quale si torna carichi di esperienze e di nuove idee. Abbiamo fatto anche degli incontri interessanti: in Messico abbiamo collaborato con i Cast – un gruppo di musica prog molto famoso lì -, con un batterista e con una pianista eccezionale. In Corea invece abbiamo collaborato con un giovane chitarrista che ha un suo canale youtube superseguito e questo video ha avuto 30 0000 visualizzazioni, cifra enorme per noi. Viaggiare serve anche a conoscere realtà diverse e rendersi conto di quanto ci sia da studiare, sempre. Tutti dicono:“bisogna andare all’estero”, ma bisogna andarci dopo aver studiato tanto, altrimenti ci si trova molto in difficoltà. Anche noi ci consideriamo degli studenti: questa mattina ci siamo visti e abbiamo studiato un po’, come prima di tutti I concerti.

Non lontano da qui, Niccolò Fabi – col quale questa sera vi esibirete sul palco dello Sferisterio – incontrerà il pubblico de La Controra per parlare della genesi di una canzone. Noi invece siamo curiosi di sapere come si costruisce una canzone del  GnuQuartet, tanto più ora che si avvicina l’uscita del vostro primo album di brani inediti.

Sempre ammesso che esca. Scherzi a parte, deve uscire, se non altro perché lo abbiamo promesso a un discografico, altrimenti noi tendiamo sempre a procrastinare. Stefano Cabrera, che è la nostra penna, è stato un po’ impegnato ultimamente con opere orchestrali per Bersani, per la Toscanini e per l’orchestra sinfonica di un programma dedicato a De André con Neri Marcoré. Tornando alla canzone: bisogna sfatare il mito dell’ispirazione del musicista. La canzone nasce un po’ quando vuole nascere, anche a caso. Può nascere da una prova – comincia il violino poi lo segue la viola e così via –, può nascere a tavolino – perché per esempio abbiamo nove pezzi veloci e ne serve uno lento –, può nascere come sfogo da un lavoro fatto, come è successo per un brano dell’album Karma.Ricordo che avevo fatto delle cose per Sanremo che mi avevano occupato tanto tempo, così ho pensato di scrivere un pezzo per gli Gnu, non immaginando che poi sarebbe diventato un brano da dieci minuti che ancora adesso suoniamo. Alle volte capita che Stefano porti la carta stampata alle prove e poi ognuno ci metta del suo. Non sempre viene seguito puntualmente lo spartito, è come un vestito che deve adattarsi su ognuno di noi. Le quattro personalità del gruppo in fondo sono autosufficienti, siamo un po’ come una band rock.  In ogni caso, scrivere pezzi originali è la cosa migliore, anche perché in tutti questi anni abbiamo visto che il pubblico reagisce meglio ai pezzi originali che alle cover. Le cover prendono tutti subito, però, dopo un po’, annoiano, anche perché le fanno in tanti e sono pur sempre canzoni che esistono. Devi sempre stupire per fare una cover, altrimenti è meglio l’originale. Quando invece hai una platea di fronte che ascolta i tuoi brani, puoi fare veramente quello che vuoi: puoi stupire o puoi cercare di emozionare.