Una graffiante intelligenza, un distacco dalle tesi precostituite unito ad una radicale idiosincrasia nei confronti del “politicamente corretto” e di ogni forma di buonismo. Il tutto espresso con coinvolgente ironia. Sono questi i tratti distintivi di uno tra i più autorevoli esponenti del nostro giornalismo contemporaneo: Roberto Gervaso, un “animale raro” per la sua perenne lontananza dalle conventicole intellettuali sempre pronte a schierarsi dalla parte dei vincitori.
Quasi un “antitaliano”, come il suo mentore Indro Montanelli, che lo volle, giovanissimo, al “Corriere della Sera”. Sono passati gli anni: nel 2017 ne compirà 80, ma Gervaso, che continua a menare fendenti ben assestati all’indirizzo di vecchi e nuovi “capi e capetti” della politica italiana, rimane quello di sempre. Non si è affatto addolcito. Le sue analisi degli italici costumi, delle storture di un Paese sotto certi aspetti sempre uguale a se stesso, rimangono istruttivamente spietate.
Lo abbiamo incontrato nell’Aula Magna dell’Università di Macerata, dove è arrivato in occasione dell’inaugurazione della settimana de La Controra: qui, insieme ad Ennio Cavalli, ha parlato della sua più recente avventura letteraria, La vita è troppo bella per viverla in due,pubblicata nel 2015 da Mondadori.
Scrivendo il suo ultimo libro, La vita è troppo bella per viverla in due – Breve corso di educazione civica, quale tipo di messaggio ha voluto lanciare? Ha pensato ad un destinatario ideale?
Il lettore è il mio unico destinatario, scrivo per i lettori. È difficilissimo scrivere facile e chi scrive in modo difficile, o è un “somaro” o un impostore. Non è affatto agevole conquistare un lettore; non ci vuole nulla, invece, a perderlo. Può capitare che una donna che ti ha lasciato torni da te, scordati invece di riconquistare un lettore che si sente tradito da te: non lo riprendi più.
In più di un’occasione lei si è definito un cinico. Del cinismo fa un elogio, ma nel linguaggio corrente il termine in questione ha assunto prevalentemente un’accezione negativa. Rispetto a ciò, lei da sempre va in controtendenza.
Bisogna distinguere tra cinismo buono e cinismo cattivo. Io credo di essere un cinico onesto, nel senso che sono un realista, che descrive le cose come sono, senza infingimenti, senza sconti. Il cinico cattivo è colui che usa il cinismo per colpire perfidamente le persone alle spalle. Il cinismo, se esercitato in un certo modo, non è altro che una forma di difesa dalla durezza della vita. Credo che il cinismo sia anche una forma di estremo disincanto, il disincanto di chi sa ridere di se stesso ed evita di prendersi troppo sul serio.
«Gli italiani non si dividono in furbi e in fessi, sono nello stesso tempo tutti furbi e fessi». Lo diceva Indro Montanelli, che lei conosceva molto bene. Ho sempre pensato che vi accomunasse una radicale idiosincrasia nei confronti di ciò che ora viene definito “politicamente corretto” e di ogni forma di buonismo nella rappresentazione della realtà. Cosa ha significato per lei, nella sua lunga carriera, rimanere “fuori dal coro”?
In realtà quella frase, da molti attribuita a Montanelli, era di Prezzolini. In ogni caso il “politicamente corretto” è una enorme impostura, il buonista è un buono andato a male. Parliamo di imbroglioni, di ipocriti che in realtà sono i più cattivi di tutti. Io non ho mai cantato nel coro, semmai ho steccato nel coro. Non ho mai belato nel gregge. Mai stato un conformista – e ringrazio i miei genitori per avermi fatto così. Gli italiani, invece, preferiscono avere torto in molti, piuttosto che avere ragione in pochi. Sono un popolo di trasformisti ed opportunisti, perché non hanno mai avuto uno Stato, e lo Stato unitario è stato voluto da una esigua minoranza, ventimila persone – in massima parte piemontesi – che hanno fatto ciò che hanno fatto sulle spalle di trenta milioni di donne e uomini, l’ottanta per cento delle quali analfabeti.
Cos’è l’Italia di oggi?
È un immenso manicomio, un “Circo Barnum”, un luna park, un bordello vero e proprio. Purtroppo non c’è nessuna brava maitresse a guidare questo sconquassato postribolo. Mussolini è stato una “buona maitresse” fino alla metà degli anni Trenta, perché sapeva come guidare un popolo dedito al meretricio morale, almeno fino a quando non ha cominciato a dare i numeri. Adesso, invece, siamo governati da un grandissimo venditore di fumo, un mix di Giamburrasca, Capitan Fracassa, Dottor Stranamore e Barone di Münchhausen, uno specialista del gioco delle tre carte. Un uomo solo al comando va bene se si chiama Stalin, Churchill, Mussolini, Mao o Fidel Castro, non se si chiama Renzi e finora ha governato solo una città di 350mila anime.
Gervaso, quanto l’ha aiutata nella sua vita coltivare dubbi?
Non so quanto mi abbia aiutato, ma so che mi ha aiutato a chiedermi chi sono.