Simone Cristicchi, tra gli ospiti di Musicultura 2016, si è esibito durante la serata conclusiva del Festival, portando sul palco dello Sferisterio il suo mondo teatrale. Ha dato un’anticipazione de Il secondo figlio di Dio, ultima fatica teatrale che debutterà il prossimo 23 luglio. Ma non solo: l’artista ha anche duettato con Chiara Dello Iacovo e si è lasciato andare ad una simpatica intervista-doppia con Nino Frassica. Il giorno successivo, poi, a Palazzo Conventati ha raccontato i suoi “10 anni da cantattore”, in una coinvolgente performance fatta di canzoni e racconti: ha riproposto i suoi brani più conosciuti, ha parlato del suo teatro, della sua amicizia con Frassica, dimostrando tutta la sua modestia quando, timoroso che il pubblico in fondo al cortile non lo vedesse bene, ha deciso di sedersi sullo sgabello più alto.
«Rispetto a tanti altri cantanti, credo di avere una marcia funebre in più», scherza Cristicchi, che ha chiuso la settimana de La Controra, accompagnando con la sua chitarra le voci del pubblico sulle canzoni di Sergio Endrigo, grande punto di riferimento del “cantattore”. Proprio in occasione del suo spettacolo a La Controra, Cristicchi, fresco di esibizione all’Arena Sferisterio, ha rilasciato un’intervista per la redazione di “Sciuscià”.
Che emozione è stata salire sul palco dello Sferisterio dopo sette anni dall’ultima volta?
È stato emozionante, perché ho portato sul palco il mio percorso attuale, che è quello del teatro e del musical civile. Il pubblico di Macerata credo abbia seguito questo mio percorso, partito come narratore di storie in forma di canzone, con Studentessa universitaria, la mia “prima pelle”, e continuato con il Coro dei Minatori di Santa Fiora, con cui abbiamo portato la musica popolare sul palcoscenico. Ieri sera ci sono stati 18 minuti di vero e proprio teatro in cui credo che il pubblico abbia visto la coordinata esatta dove io mi trovo attualmente.
Da qualche tempo ormai ti cimenti con grande poliedricità nel mondo del teatro. Simone Cristicchi è un attore rubato alla musica o un cantante rubato alla recitazione?
Mi piace definirmi “cantattore”, perché non mi reputo un attore vero e proprio, racconto storie a mio modo, con una mia cifra stilistica. Non ho mai fatto un’accademia o una scuola di teatro, però ho avuto la fortuna di avere due grandi maestri: Alessandro Benvenuti e Antonio Calenda, due grandi registi che mi hanno fatto crescere molto come interprete e raccontatore di storie.
In Magazzino 18 parli della tragedia delle foibe come di “una pagina strappata dal grande libro della storia”. Come hai recuperato questa pagina?
Sono partito da Trieste, una città di confine che è stata protagonista dell’esodo degli Istriani, Fiumani e Dalmati nel dopoguerra. Nella città di Trieste esiste un luogo che si chiama “Magazzino numero 18” e si trova nel Porto Vecchio. Questo magazzino è una sorta di simbolo della tragedia italiana che racconto perché racchiude gli oggetti della vita quotidiana di chi veniva via da quella regione, che poi passò alla Jugoslavia. Faccio sempre questo esempio: è come se le Marche o l’Umbria un giorno diventassero Jugoslavia, ci sarebbe un esodo di massa e si riverserebbero migliaia di vite. Sono partito da questi oggetti fisici, portatori di storie, ed ho iniziato una lunga ricerca per mettere insieme i pezzi di questo mosaico.
Ed infatti dietro ogni tua idea si percepisce un lungo lavoro di ricerca, fatto di testimonianze dirette e di un immergersi in tematiche che visibilmente ti stanno a cuore: ricostruire un mosaico, appunto. Questo lavoro ti ha portato a fare una musica in qualche modo “diversa”, che ti ha permesso di spiccare nel panorama musicale italiano. Come vedi il mondo artistico e musicale dei talent-show sempre più omologato alle logiche commerciali?
Io non disdegno i talent-show, ma mi dispiace che qualcuno possa esprimersi musicalmente come artista soltanto attraverso quegli spazi, oggi. Non esistono altri spazi e quindi anche i cantautori, che scrivono e dedicano anima e corpo a raccontare delle storie, si vedono costretti a partecipare a questi carrozzoni in cui vengono inglobati, masticati, digeriti e poi sputati. Questo è il pericolo di quel meccanismo. Sarebbe bello fare un talent-show di cantautori, no?
Dal teatro alla musica hai trattato importanti temi sociali e dato voce a chi una voce non ce l’ha. Questa è una “vocazione” che hai da sempre o è nata in seguito ad un particolare episodio o in un determinato momento della tua vita?
Io fin da bambino andavo per mercatini. Andavo a cercare gli oggetti antichi, roba da collezione, proprio perché ho sempre nutrito una passione per il passato, per la memoria. Quello che ho fatto con i miei spettacoli è stata la stessa cosa. È stata una sorta di antiquariato, come se fossi un restauratore della memoria: prendo una storia vecchia, la tiro fuori dagli sgabuzzini del passato e la aggiusto dandole una ripulita, una spolverata! (ride, n.d.r.) Questa è la mia passione, perché credo che siamo esseri fatti di memoria: senza di essa non siamo niente.
Da vincitore di Musicultura nel 2005, quali caratteristiche dovrebbero avere secondo te una canzone ed un artista per vincere il Festival? Che consigli ti senti di dare al vincitoreassoluto di Musicultura XXVII?
È una combinazione di tanti elementi, tra i quali anche la fortuna – che è un qualcosa di non razionalizzabile. Il consiglio che posso dare è cercare la propria unicità, sempre, non per sbalordire o fare gli strani, ma per mettere in mostra la propria anima, che è quella che parla attraverso il nostro corpo.