Lui è Cesare Bocci, l’attore che dà il volto al vicecommissario Mimì Augello nella fiction Montalbano, e lei, Daniela Spada, una grafica e fondatrice di una scuola di cucina. Non sono una coppia come le altre: travolti dalla “guerra mondiale”, come la chiamano loro, hanno avuto la forza di rialzarsi e combattere, finché non hanno avuto la meglio sul destino.
La “guerra mondiale”, per loro, non è stato altro che l’ictus post-parto che ha colpito Daniela a una settimana dalla nascita della primogenita Mia, costringendola a letto per mesi, certa che non avrebbe più riacquistato l’uso delle gambe. Invece di lasciarsi inghiottire dalla disperazione, Daniela ha preferito non perdersi d’animo e lottare per tornare a fare quel che faceva prima: un percorso mai facile e spesso doloroso, in cui l’instancabile sostegno del “Principe Azzurro Mononeuron” – così ha ribattezzato affettuosamente il compagno – si è rivelato fondamentale.
È dunque una storia di rinascita e, soprattutto, di speranza, quella che Cesare Bocci e Daniela Spada hanno affidato a Pesce d’aprile, il libro scritto a quattro mani e presentato in occasione de La Controra di Musicultura.
La capacità di reagire ad un evento drammatico costituisce il tema centrale di Pesce d’Aprile, che, a partire dal titolo, tratta con insolita leggerezza la malattia. Abbracciare con umorismo questo “scherzo del destino” è stata per voi una scelta razionale o, piuttosto, una reazione istintiva, quasi di sopravvivenza?
Cesare: È stata una scelta irrazionale, istintiva, perché così è la vita: quando si vede qualcuno scivolare su una buccia di banana, involontariamente scappa da ridere e, allo stesso modo, in alcuni momenti drammatici ci è venuto da ridere. Quando Daniela ha scritto il primo post che avrebbe poi dato il nome a “Pesce d’aprile” ha raccontato del dramma che le era capitato in maniera estremamente ironica e divertente.
Daniela: Affrontare un dramma di questo genere dà una forza inaspettata. Certo, lui lo sa, ci sono stati momenti duri, ma bisogna trovare la forza che spesso, contrariamente a quanto si pensi, si nasconde proprio nella leggerezza.
Sono passati sedici anni dall’incidente che ha portato alla genesi del libro. Quando vi siete resi conto di essere maturi per tornare con la mente a quei ricordi dolorosi, al punto di volerne fare un romanzo?
Cesare: Quando ci siamo sentiti pronti per scrivere il libro? Quando ce l’hanno chiesto! (ride, n.d.r.) Prima di allora avevamo vissuto questa malattia come una storia privata, sebbene condivisa con la nostra cerchia di amici e parenti. Mai avremmo pensato di far trapelare la nostra storia al pubblico, benché tutti ci esprimessero la loro ammirazione per quel che eravamo riusciti a fare. È stato solo negli ultimi due, tre anni che ci hanno chiesto di parlarne e, dopo esserci consigliati per qualche tempo, ci siamo finalmente chiesti: perché non farlo? La storia che raccontiamo è quella di una grande battaglia fatta per riuscire a vivere e abbiamo ottenuto un risultato: siamo qui e viviamo. Ora c’è da continuare a lottare, però siamo qui e viviamo. Per di più, raccontarla attraverso di me, che sono un personaggio pubblico, avrebbe permesso di raggiungere più persone.
È stato quindi non tanto per voi quanto per gli altri che avete preso la decisione di scrivere il romanzo?
Daniela: Esattamente, proprio per quello. Non per “autoincensarci”, anche se su di noi ha avuto indubbiamente uno scopo terapeutico.
Cesare: Alla fine è servito molto anche a noi, ma inizialmente ci eravamo detti che, fosse servito anche a una sola persona a trovare un po’ di forza nel nostro racconto, ne sarebbe valsa la pena. Poi, ci siamo resi conti che non solo una, ma addirittura tre, ne avrebbero beneficiato: una sarebbe stato il potenziale lettore del libro, e gli altri due siamo stati noi.
Daniela, la comparsa della malattia ti ha costretto a re- inventarti, dal lavoro alle abitudini familiari. Che idea ti sei fatta della forza che l’uomo riesce a mettere in campo quando è posto di fronte a una sfida?
Daniela: È tanta, anche se c’è da dire che ho avuto dalla mia parte il fatto di avere una figlia, e, si sa, per i figli le madri fanno i salti mortali. Io non posso fare i salti mortali ma ho fatto delle cose che sperano che siano utili a lei.
Cesare, fatta eccezione per i primi tempi, non hai mai smesso di lavorare, confermandoti come uno dei volti più noti del panorama televisivo, oltre che teatrale. Come sono cambiati i tuoi rapporti con gli impegni lavorativi?
Cesare: Questa esperienza sicuramente mi ha fatto maturare come uomo e, di conseguenza, come professionista. Me ne sono reso conto quando mi sono visto molto più tranquillo ad affrontare la “battaglia del set”, dopo aver combattuto insieme una “guerra mondiale”. Ero più rilassato, pur riconoscendo la serietà e l’impegno che richiede il lavoro sul set, specialmente se fatto con dei professionisti. In fondo, se anche si sbaglia una battuta, non muore nessuno – se non nella fiction! Non ho più l’ansia di far bene, ho il dovere di far bene, che è diverso. Non c’è dubbio che quest’esperienza mi abbia dato più solidità anche sotto questo aspetto.