Giulio Scarpati, attore di teatro, cinema e televisione, noto, tra le sue tante interpretazioni, per il suo ruolo da protagonista nella fiction “Un medico in famiglia”, si è raccontato, giovedì 22 giugno, a Palazzo Conventati, in un coinvolgente “A tu per tu”, condotto da Michela Pallonari.
Dal rapporto viscerale con la madre, all’incontro con il grande regista Ettore Scola, Scarpati ha ripercorso alcuni dei momenti salienti della sua carriera e della sua vita personale.
Di seguito, l’intervista realizzata dalla nostra redazione.
Di certo non rinnega il ruolo di Lele in “Un medico in famiglia”, ma i personaggi che lei ha interpretato per film, fiction e teatro sono moltissimi. In quale si è sentito più affine?
Mi è rimasto nel cuore recitare, per il cinema, la parte di Rosario Livatino, il giudice ragazzino, una persona speciale, che ha vissuto una storia terribile. La tematica per me era anche fondamentale da trattare: la magistratura dei giovani, gli stessi che credevano di non essere in grado di combattere Cosa Nostra e che, invece, hanno dato un apporto fondamentale allo Stato.
Nel 2014 è uscito il suo primo libro, “Ti ricordi la casa rossa? –Lettera a mia madre”, che ha dedicato a sua madre: è un viaggio nella memoria, per aiutare e per imparare a ricordare. Mettere nero su bianco i pensieri le è servito per esorcizzare un momento particolare della sua vita?
Sì, moltissimo; volevo che tutti capissero che quando si è affetti dall’Alzahaimer è normale fare errori. La conoscenza di questa malattia mi ha aiutato a non sentirmi solo ed estraneo al caso. Il problema dell’Alzheimer è socialmente gravissimo: è un costo umano; dal punto di vista psicologico, i parenti fanno molta fatica ad assimilare la perdita di memoria di un proprio caro.
Ha portato e porterà in scena lo spettacolo “Una giornata particolare”, tratto dall’omonimo film di Ettore Scola, con cui tra l’altra ha lavorato in “Mario, Maria e Mario”. Cosa le rimane dell’incontro con il regista? C’è un aneddoto che vuole raccontarci?
All’epoca ero abituato a lavorare con registi della mia generazione, quindi solitamente cercavo di creare dei rapporti paritari; quando ho conosciuto Ettore Scola, era la prima volta che lavoravo con un regista di quella tradizione mitica del cinema italiano; ammiravo e ammiro tutt’oggi i suoi film. Ricordo che, dopo un paio di giorni di lavoro in cui lui non mi ha rivolto parola, io gli ho detto: “Ettore, dobbiamo parlare, perché il nostro rapporto non funziona”. Lui, così, mi ha risposto: “Non pensavo fossimo fidanzati”. Quella fu una battuta che all’inizio mi spiazzò, ma che poi finì per costruire un rapporto di amicizia. La grandezza di Ettore Scola era la sua capacità di raccontare la vita in maniera comica e tragica, nello stesso momento.
Secondo lei, una manifestazione del calibro di Musicultura in che modo può essere funzionale per la promozione della cultura del nostro paese? Curare la teatralità della performance: quanto conta, al giorno d’oggi, per un cantautore?
Sicuramente conta moltissimo curare l’aspetto teatrale di un artista che si esibisce sul palco; ad esempio, oggi con il videoclip e con Internet hai subito l’immagine visiva della canzone e di un cantante. Se pensiamo a tanti anni fa, oltre al concerto, sentivi i dischi: solamente il live ti dava la dimensione teatrale e scenica dello spettacolo. Dobbiamo sostenere manifestazioni come Musicultura perché sono rivolte a tutti, perché sono popolari e perseguono l’idea che la musica, in particolare, e l’arte, in generale, siano sempre con noi, vivano al nostro fianco. Spero che il Festival possa continuare il suo percorso e che possa sempre popolare.