Tecnica, originalità e improvvisazione sono gli elementi che lo contraddistinguono: il rinomato batterista Ellade Bandini, ospite de La Controra mercoledì 20 giugno, ha regalato al pubblico di Musicultura aneddoti e performances incantevoli. Un professionista di un certo peso, che ha lavorato a più di 800 incisioni musicali con numerosi artisti del cantautorato italiano: da Guccini a De André, dai Nomadi a Vecchioni, passando per il Jazz con Lee Konitz, Danilo Rea e tanti altri. Per mezzo della batteria, Bandini ha dato alla musica anima e corpo, suonando col solo scopo di divertirsi e divertire.
Ecco l’intervista ad uno dei più grandi del batterismo italiano, curata da Sciuscià.
L’artista, nell’immaginario popolare, è visto come genio e sregolatezza. Lei come si definisce?
Mi definisco un batterista da turismo, non sono da competizione: non voglio giungere in fretta ai traguardi; ci arrivo molto lentamente, tranquillamente, in modo naturale, come un turista. Suono per piacere, senza cercare la competizione. Non ho mai avuto la fissa di arrivare per forza in alto, senza prima aver visto e vissuto quello che c’è alla base di una carriera.
Con Ares Tavolazzi e con Vince Tempera – anche lui ospite qui a Musicultura -, nel 1969 ha dato vita ai The Pleasure Machine. Di quell’esperienza, cosa le rimane?
Eravamo tre giovani che si incontravano nei momenti liberi, in cui si adoperavano per produrre qualcosa, scrivendo e arrangiando dei brani. Ricordo quei giorni come l’inizio di questa mia lunga e meravigliosa esperienza musicale. Ancora oggi, quando suono, sento la stessa energia che provavo allora.
Fabrizio De André lo voleva al suo fianco e, da perfezionista, non ammetteva improvvisazioni; com’è nato il vostro incontro?
È avvenuto per caso. De André faceva fatica a seguire il tempo del suo batterista e non riusciva ad incastrare alla perfezione le parole coi suoni; a pochissimi giorni dall’inizio del tour di “Creuza de mä”, decise di sostituire il batterista. In quel periodo stavamo terminando i concerti con Guccini; incontrai per caso Mauro Pagani, che mi chiese se volevo suonare con De André: risposi con un sì deciso. Dovevo darmi da fare e cercare di essere adatto, perché Fabrizio teneva molto alla precisione, senza contare che nelle discussioni voleva avere sempre ragione (ride, n.d.r.). Alla fine l’esperienza andò benissimo, in un periodo in cui ero molto tranquillo e sicuro di me.
Ha partecipato all’album dei Nomadi “Ma noi no”, l’ultimo con Augusto Daolio: che ricordo ha di lui?
L’ho conosciuto molto tempo prima dell’incisione del disco. Nel ’73, Tempera, Tavolazzi ed io accompagnavamo negli Usa Alberto Anelli; c’erano anche i Nomadi: siamo rimasti tutti insieme per due settimane. Penso di non essermi mai divertito così tanto con una persona. Augusto era una persona incredibile, divertente e molto intelligente. Sul palco era un monumento, una figura importantissima ed una persona speciale.
Come cambia il contributo della batteria nel genere pop rispetto a quello jazz?
Da giovane ho avuto la grande fortuna di iniziare a suonare nelle sale da ballo. Dovevo farmi piacere ogni cosa e suonare di tutto; in fondo mi piacevano moltissimi tipi di musica, anche il valzer romagnolo. Aspettavo con entusiasmo la possibilità di suonare un pezzo di James Brown o di rock ‘n’ roll, ma mi adattavo ad ogni genere. Il jazz mi è servito soprattutto per il mondo del cantautorato, e viceversa. Il bello della canzone d’autore è che non ti mette in competizione con gli artisti di musica pop, in quanto quest’ultima prevede un utilizzo della batteria piuttosto metodico e uguale a se stesso; nel cantautorato, invece, puoi improvvisare, inventare, sperimentare delle tecniche nuove.