In occasione dell’evento “L’amore non finisce mai”, tenutosi a Palazzo Conventati sabato 24 giugno, Dacia Maraini ha ricordato Giorgio Caproni – tra i primi firmatari del Comitato Artistico di Musicultura -, citandolo nell’esordio della sua “Grande Festa”, con tre versi del poeta scelti come esergo di quello che viene considerato uno dei lavori più intimi della scrittrice: “Quando non sarò più in nessun dove / e in nessun quando, dove / sarò, e in che quando?”. La Maraini, protagonista dell’ultimo appuntamento de La Controra, ha consegnato al pubblico di Musicultura la bellezza dei suoi racconti, accompagnata dalla musica di Jacqueline Maria Ferry e di Eugenio Murrali. Una penna che ha tracciato le grandi questioni del ‘900 e che, ancora oggi, non si tira indietro davanti alle problematiche della quotidianità.
L’attualità, i viaggi, le posizioni degli intellettuali, le amicizie, il rapporto con le persone amate, con quelle perdute e il suo ruolo all’interno del Comitato Artistico del Festival: sono questi alcuni dei temi trattati dalla scrittrice nell’intervista rilasciata alla nostra redazione Sciuscià.
Attraverso la sua penna è passato il Novecento. Cosa ne pensa del momento storico nel quale stiamo vivendo?
È un periodo di grande confusione e di nebbia. Non è facile capire cosa stia succedendo; tirano venti di guerra. Questo mi preoccupa perché io la guerra l’ho assaggiata, so di cosa si tratta e non vorrei ricordarne un’altra.
I viaggi sono stati una costante nella sua vita; numerosi quelli in Africa in compagnia di Alberto Moravia e Pierpaolo Pasolini. Quali ricordi conserva con sè? Com’è l’Africa che ha lasciato?
L’Africa degli anni ’70 era tutta un’altra cosa: povera ma più libera e più autonoma. Io credo che questo fanatismo religioso abbia trasformato il continente africano e, per questo, molta gente scappa, fugge dal terrorismo e anche dal fanatismo religioso, così come, naturalmente, dalla fame che, però era già presente al tempo dei miei viaggi.
Il 23 ottobre 1967, in una celebre quanto discussa intervista video per la RAI, Pierpaolo Pasolini incontrò il poeta americano Ezra Pound, si scusò con lui e “riabilitò” la sua figura. Con questo esempio vorrei chiederle se secondo lei, in Italia, coloro che sono socialmente riconosciuti come “intellettuali” facciano in qualche modo fatica ad accettare il “diverso”…
Dipende cosa si intende per “diverso”, che generalmente bisogna sempre rispettare. Ezra Pound è un’altra cosa: un grande poeta. Io ero con Pasolini e Sciascià, in Sicilia, nella giuria del Premio Zafferana e, in questa occasione, abbiamo premiato lo stesso Pound che venne, accetto il riconoscimento e rimase con noi. Di lui si accettava la sua vena poetica, nonostante le sue posizioni prese durante il fascismo. Ad un grande scrittore come poteva essere anche Céline, che fece dell’antisemitismo piuttosto duro, uno non accetta le sue posizioni ma accetta la sua poesia e la sua scrittura.
Appena un mese fa, su “Il Venerdì” de “La Repubblica” Bernardo Bertolucci ha ricordato un momento condiviso con lei. Ponza, 1967. Il regista venne a trovare lei e Alberto Moravia all’hotel Chiaia di Luna e nello stesso giorno avete cenato tutti insieme. C’era anche Michelangelo Antonioni. La storia del cinema e della letteratura intorno ad un tavolo. Che ricordo ha di quella serata?
Noi ci vedevamo spessissimo anche in altri luoghi, non era una cosa così eccezionale. Era una compagnia quotidiana e quindi per me questa occasione non fu un evento particolare. Allora gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti si vedevano molto di più: una comunità con progetti in comune. Tutte cose che oggi non si vedono più.
Nel 2011 viene pubblicato il suo libro “La grande festa”. Un titolo quasi ossimorico rispetto al contenuto: un saluto a tutte quelle persone amate e perdute. Che rapporto ha con l’idea della morte e con coloro che non ci sono più?
Un buon rapporto con la morte e con i morti è avere un buon rapporto con la memoria. Essi non sono i “mostri” che il cinema internazionale ci propone e guai a considerarli tali.
Lei fa parte e impreziosisce il Comitato Artistico di Garanzia di Musicultura. Com’è avvenuto l’incontro con il Festival marchigiano?
Concia! Concia, che è una donna straordinaria, si faceva in quattro per questo Festival e, ad un certo punto, mi ha chiesto di aiutarla a “giudicare” questi giovani. Una cosa che ho accettato di buon grado perché credo che bisogna dare ascolto ai giovani che ne hanno bisogno.
Rimando sempre in merito al tuo ruolo all’interno del Festival. Cosa la colpisce a primo impatto e a quale aspetto da più risalto, quando ascolta il CD dei sedici finalisti del concorso?
Ascolto le parole, ma soprattutto la musica. Non voglio vestire solo il ruolo di letterata poiché credo che le parole in una canzone siano importanti ma non sono tutto.