Chansonnier, amante del mondo teatrale e scrittore: Giangilberto Monti arriva a Macerata, in occasione de La Controra di Musicultura. Lui, autore di molte canzoni per artisti del calibro di Anna Oxa, Ricky Gianco e Mia Martini, ha lavorato anche per tanto tempo con Dario Fo e Franca Rame. Da questa collaborazione è poi nato il suo libro “E sempre allegri bisogna stare”, di cui ne ha parlato domenica 25 giugno, al Cortile del Palazzo Municipale.
Vi raccontiamo, di seguito, com’è andato l’incontro tra lo scrittore e la nostra redazione, da cui ne è scaturita un’intervista.
In “Romanzo Musicale di Fine Millennio” racconta con ironia sia la progressiva sparizione del vinile, sia il mondo culturale nella Milano degli anni ’70. I tempi sono cambiati: in che modo? Eppure molti artisti scelgono ancora di pubblicare album in vinile.
I tempi si sono trasformati perché il mondo discografico non è più quello di di una volta e perché non esiste più il disco. Prima il panorama musicale aveva un carattere industriale, mentre adesso è diventato un po’ come l’artigianato; questo da una parte è un bene, poiché permette a molti giovani esordienti di tentare la carriera artistica, dall’altra è un disastro per il mondo che ruota intorno a questo ambiente, intriso di difficoltà a livello lavorativo, che tendono a moltiplicarsi.
Com’è stato lavorare con Dario Fo? Ci può raccontare di un momento che ha condiviso con il Maestro?
Lavorare con Fo è stato utilissimo, perché allora mischiavo la recitazione alla musica; ho imparato, anche grazie a lui, un’arte. Il mio primo provino l’ho fatto a casa sua: lui era a due metri da me, seduto sul divano; mi diceva: “Dai, canta, visto che fai il cantante”. Non sapevo cosa fare, tanto che mi ha cacciato via subito (ride, n.d.r.). Alcuni mesi dopo mi sono ripresentato per un altro provino e mi ha preso a lavorare con lui. È stato un po’ come aver fatto l’università del teatro con Dario e Franca, che mi hanno insegnato tante cose.
C’è una canzone di Dario Fo a cui è più legato?
Agli inizi degli anni ’80 Dario mi concesse l’opportunità di suonare una canzone inedita, La Fine della Festa, incisa nell’album “Opinioni da clown”; la impararai, ma riuscii a registrarla solo 30 anni dopo, perché prima non avevo attirato l’attenzione di nessun discografico.
Ha ripreso alcuni brani incisi da Petrolini; che ruolo assume la canzone in una commedia teatrale?
E’ importante sapere che quando si fa riferimento al cabaret e al rapporto tra comicità e musica, si deve pensare che queste due espressioni non sono mai state divise. Ai primi del ‘900, un artista comico maneggiava in modo paritetico la canzone e la battuta, così come il racconto comico. Questa dinamica, in Italia, ha funzionato fino agli anni ’60: con la nascita della televisione e gli spettacoli dei cabarettisti, che sono diventati dei monologanti, si è perso l’aspetto musicale, ma la commedia è stata sempre vicina alla musica. Basti ricordare che la canzone d’autore e il cabaret nacquero insieme nel 1881 allo Chat noir di Parigi.
Lei è tra i tanti artisti che hanno fatto della musica una piazza di ironia e satira. Pensa che la canzone dei nostri giorni abbia abbandonato la via della protesta mascherata?
In realtà penso che ancora oggi ci siano delle sacche di resistenza umana. Porto ad esempio due fatti: il vincitore del Festival di Sanremo di questa edizione mi ha divertito molto, perché ha cantato una storia reale. Francesco Gabbani mi sembra vero, non un artista costruito a tavolino. Per quel che mi riguarda, ho inciso una canzone inedita, Matrimoni e Funerali, che comparirà in un album realizzato dai Powerillusi, che stanno lavorando ad un progetto discografico di raccolta di 30 anni di musica demenziale. La musica e l’ironia ci salvaranno la vita.