INTERVISTA: “Un film è un viaggio”: il regista Gianni Amelio a La Controra di Musicultura 2018

Venerdì 15 giugno, a La Controra della XXIX edizione di Musicultura, Gianni Amelio ha presentato il libro “Padre quotidiano”, nel quale delinea i tratti principali del rapporto molto sofferto tra genitore e figlio, che lui stesso ha analizzato attraverso il cinema e la scrittura.

Da “Colpire al cuore” fino a “La tenerezza”, sotto l’occhio della sua cinepresa si sono susseguiti quasi 40 anni di storia e di cinema d’autore italiano; nei suoi film i temi inerenti all’attualità, alla politica e alla società sono analizzati sempre attraverso un’indagine sull’introspezione umana, mettendo in risalto sentimenti ed emozioni. L’argomento centrale, in gran parte della produzione cinematografica del regista, è la paternità, che gli è molto caro: Amelio infatti ha dovuto affrontare un’infanzia difficile, avendo vissuto l’abbandono da parte del padre; lui stesso inoltre ha un figlio in adozione, un ragazzo albanese conosciuto durante le riprese del film “Lamerica”.

In questa intervista, il famoso sceneggiatore ha parlato di questo e di molto altro anche con la redazione di Sciuscià, lasciandosi andare ai racconti sulla sua vita e sulla brillante carriera all’insegna della cinematografia.

Da “Colpire al cuore” fino al suo ultimo film “La tenerezza”, il rapporto tra padre e figlio è stato un tema costante in tutta la sua produzione cinematografica; come mai? 

Diciamo che le storie e i sentimenti che uno racconta, così come gli argomenti di un film o di un libro, non arrivano mai per caso. A volte non bisogna neanche andarli a cercare, perché vivono in ognuno di noi e, quando capiscono che è il momento giusto, bussano per uscir fuori e ci dicono: “Quand’è che parli di noi? Quand’è che ci racconti?”. Io ho avuto un’infanzia che non rientra proprio nella norma familiare, perché sono vissuto senza una figura paterna, che tra l’altro ho conosciuto solamente quando avevo 17 anni. Tutto questo mi ha segnato in maniera negativa. A scuola mi ripetevano che non avevo un papà, eppure sapevano che non ero orfano. Mio padre era emigrato in Argentina e aveva in qualche modo abbandonato mia madre, come era successo anche a mia nonna e a tanta gente del mio paese, che è San Pietro di Magisano, in provincia di Catanzaro. All’epoca da noi esistevano le “vedove bianche”, ovvero quelle donne rimaste sole, a casa, per occuparsi dei figli perché i loro mariti sono stati costretti, per cercare fortuna, ad allontanarsi dalla loro terra per andare dall’altra parte dell’oceano. Questa è la mia storia, ma è anche quella di tante famiglie calabresi e siciliane che hanno vissuto negli anni prima della guerra e anche nel dopoguerra. Noi eravamo un po’ come i migranti di adesso o come gli albanesi che venivano nel nostro Paese. Il tema della paternità, che ricorre spesso nei miei film, nasce come una fatalità, da un bisogno interiore: nel momento in cui una persona ha sperimentato sulla propria pelle certe esperienze, è chiaro che in qualche modo queste emergano.

“Lamerica” è la storia di un viaggio verso l’Italia: quello dei tanti albanesi che fuggono dalla povertà, ma anche quello di Michele, che cerca di tornare a casa in Sicilia. Perché nei suoi film – penso ad esempio anche a “Il ladro di bambini” – troviamo spesso dei personaggi “in cammino”? 

Perché il cammino è una ricerca che dovrebbe portarci ad una vita migliore. Da una parte anche questo tema è autobiografico, dato che anche io mi sono dovuto spostare dal mio paese per lavorare. Anche un film è un viaggio, che prende il via con delle persone dapprima sconosciute, che poi però diventano come membri di una famiglia. Raccontare una storia è come muovere i passi in un percorso che si snoda tra i nostri sentimenti. Il mestiere del regista è formato da due aspetti: da un lato si cerca di raccontare la propria esperienza e si è sempre protesi verso la ricerca di una realtà e di un futuro; dall’altra bisogna tener conto del prodotto cinematografico, che è un po’ la metafora di questa indagine.

È proprio durante le riprese di “Lamerica” che si svolgono i fatti narrati nel libro “Padre quotidiano”: per quale motivo ha deciso di raccontarli scrivendo un romanzo, piuttosto che stando dietro la macchina da presa? 

Ho realizzato “Lamerica” in un momento in cui sentivo il bisogno di raccontare come un paese, l’Albania di allora, si sforzasse il più possibile per uscire dalla condizione spaventosa nella quale si trovava. Il mio intento non era quindi quello di filmare vicende già riprese e mostrate. Successivamente ho capito che m’interessava sperimentare un’altra forma di comunicazione, ovvero la scrittura. Non è stato facile, pur essendomi cimentato durante la mia carriera nella realizzazione delle sceneggiature dei miei film; lavorare ad un testo cinematografico è diverso, perché in esso le battute possono anche trasformarsi in corso d’opera. Invece per scrivere un libro bisogna trovare le parole giuste, il tono esatto ed essere il più possibile sinceri, senza nascondersi dietro le cose. E’ stato naturale, necessario, quasi obbligatorio, utilizzare un altro mezzo per raccontare determinati momenti.

Anche se nel suo cinema prevalgono spesso l’intimità e i sentimenti, ogni suo film ha anche uno sguardo critico sulla società. Quali temi legati alla contemporaneità ha voluto mettere in luce in “La tenerezza”? 

In “La tenerezza” ho voluto dare risalto all’intimità degli uomini e a ciò che si nasconde dietro dietro ad una famiglia apparentemente felice, come l’incomprensione tra un padre e una figlia; magari ho affrontato temi meno sociali e meno politici rispetto a quelli presenti in “Ladro di bambini” o “Così ridevano”, in cui trattavo la migrazione interna in Italia. Però secondo me le storie familiari vanno raccontate, dato che il privato è anche politico. Non è che i sentimenti personali siano staccati dalla realtà e dal nostro ruolo all’interno della società: tutto è collegato e in ogni momento vissuto esplodono le nostre pulsioni, ad un certo punto. In “La tenerezza”, che è forse il film più personale che ho realizzato, da una parte racconto la mia età, perché è la prima volta che inserisco un protagonista che ha i miei stessi anni e poiché in qualche modo mi interrogo sul motivo dell’incomunicabilità tra genitori e figli; dall’altra mi soffermo su una piccola famiglia, apparentemente felicissima, che nasconde però delle nevrosi. Faccio riferimento anche a delle vicende che purtroppo ci circondano e che ogni tanto vediamo esplodere persino nella cronaca.

 Alcuni artisti che partecipano a questa edizione di Musicultura hanno espresso il loro desiderio di comporre colonne sonore per il cinema: vuole dare loro qualche consiglio su come adattare un brano ad un prodotto cinematografico? 

Io penso ad entrambi le cose, dunque alla colonna sonora e all’immagine; la maggior parte della volte però ho prima in mente la musica. Mi appassionano molto gli artisti che cantano dei loro tormenti, dei dolori e di vicende che sento a me vicine. Così nei miei film, piuttosto che inserire una musica intesa come commento di un episodio, spesso preferisco includere delle melodie che nascono da una storia ben precisa. Oppure ci sono pezzi che io amo, indipendentemente dal progetto a cui lavoro;  ad esempio “La tenerezza” non ha una colonna sonora composta da un musicista e poi applicata alle immagini, ma ha come anima una canzone greca che ho sentito quando ero ragazzino, un pezzo degli anni ’60 di cui non ho mai capito tutte le parole. Solo adesso le ho un po’ imparate, tradotte in italiano, e mi sembra che queste ben si sposino con i caratteri dei personaggi. È una musica malinconica, tenera e non drammatica; la storia invece ha degli scossoni di grande violenza. Da un lato è una colonna sonora che conduce apparentemente al sogno, dall’altro verso la realtà cruda, che ti scuote e talvolta ti uccide: questi due aspetti formano il contrasto giusto trasmettere il senso del film.