Musicultura è terreno fertile per gli incontri culturali, per i suoni e per le parole giuste; per l’arte nelle sue molteplici espressioni. Ieri, nell’affrescata cornice del Centrale Plus in Piazza della Libertà, si è svolto il primo degli appuntamenti de La Controra, che ha visto come protagonista il jazzista e cabarettista Lino Patruno. A condurre l’incontro è stato il poeta Ennio Cavalli.
Musicista di spicco nel panorama jazzistico italiano e internazionale, Patruno è compositore, sceneggiatore, co- fondatore negli anni ’60 de I Gufi. Ha scoperto la sua vocazione per la musica all’età di 18 anni da auto didatta, nata in estate, nelle Marche. Durante la sua carriera ha collaborato con celebri artisti, tra cui Dan Barrette, John Paul Pizzarelli. Alla redazione di Sciuscià, ha raccontato la sua passione per il cabaret e alcuni curiosi aneddoti sulla sua vita, tra jazz e la voglia di far divertire il pubblico.
“Quando il jazz aveva lo swing”: un racconto fluente che narra l’excursus di tutte le più significative collaborazioni che l’hanno portata a diventare l’artista che oggi è; tra le tante, quello con Joe Venuti. Cosa ricorda del primo incontro con il violinista statunitense e come ritiene che questo avvicinamento abbia influito sulla sua crescita e formazione musicale?
Mi definisco un collezionista di cultura jazzistica e, tra i miei “migliori acquisti”, mi piace citare Joe Venuti. Una sera venne in teatro a Bergamo e dopo il concerto si fermò a cenare a Milano, nello stesso locale in cui ero io. Mi avvicinai per chiedergli di incidere un disco. Lui, con un italiano maccheronico, mi invitò a duettare: con una “Ghitarra” presa in prestito da Joe Cusumano, improvvisammo per tutta la notte sui brani di George Brown, entrambi entusiasti di condividere quel momento. Fu un’esperienza incredibile. È così che è nata la nostra amicizia, fatta anche di collaborazioni e di viaggi.
Da jazzista, ci svela che la musica americana per eccellenza ha in verità origini italiane. Tuttavia perché, secondo lei, nel nostro Paese questo genere stenta ancora a sviluppare una propria connotazione stilistica o ad emergere?
Musicalmente parlando, l’Italia di oggi è purtroppo ignorante. Mi rammarica pensare che, per colpa della televisione, delle case discografiche ossessionate dai guadagni e dei talent show, il Paese che una volta era detentore della grande dell’opera e delle grandi voci, possa essere sceso così in basso. Nell’opinione pubblica c’è molta confusione tra cosa sia realmente la musica.
Dopo gli anni ’70, il jazz è entrato ufficialmente a far parte della cosiddetta “musica colta”, divenendo materia di insegnamento nelle scuole e nei Conservatori. A tal proposito, non sono venute meno le lamentele riguardo la perdita dell’immediatezza e l’estemporaneità del genere. Qual è il suo parere, a riguardo?
Voglio raccontarti un piccolo episodio: tempo fa un ragazzino di 17 anni mi mandò la registrazione di un suo pezzo al pianoforte, da farmi ascoltare; pensai di dover sentire la solita rivisitazione di Calabresella mia. Il ragazzo mi sorprese, suonando una pietra miliare della storia del jazz, Finger Breakers di Jelly Roll Morton, brano di una difficoltà esagerata. Incuriosito, gli chiesi come potesse conoscere il jazz dei primi anni ‘10 e mi rispose che il merito era di suo padre, appassionato di musica, che gli aveva tramandato l’amore per la cultura jazzistica in tenera età. Credo sia importante soprattutto come, ognuno di noi, tenda ad approcciarsi a qualsiasi forma d’arte. Alla base di ogni passione, c’è l’emozione.
A caratterizzare il suo stile artistico è il banjo. Sebbene i jazzisti suonino soprattutto il pianoforte, il contrabbasso o comunque tendano a prediligere elementi a fiato, come mai ha invece scelto di studiare questo strumento?
Prima il banjo si suonava principalmente per una questione di volume, molto più elevato rispetto a quello di un chitarra. Non c’erano i microfoni negli anni ‘20. Inoltre, si tratta dell’unico strumento inventato dagli americani, quando tutti gli altri hanno origini europee.
Oltre che jazzista, è anche cabarettista. Ha sempre portato un po’ della sua comicità nelle sue canzoni, come nei brani Crapa peladae Il gallo è morto. Quanta importanza assume lo humor nel mondo della musica e, in particolare, che valore ricopre nella sua?
Mi avvicinai al cabaret fondando negli anni ’70 I gufi. È stato un caso: una storia d’amore finita male si è rivelata significativa per la nascita del progetto. La comicità può essere di vari tipologie; ad esempio c’è quella banale, che è anche fine a se stessa, spiccia. Poi c’è quella ragionata, che affronta tematiche sociali, politiche, antifasciste, ad esempio. Quest’ultima, a mio avviso, è il tipo di approccio che veramente conta, perché ha un fine più nobile. Non a caso, sono ispirato da maestri come Totò e Peppino De Filippo.