Una storia d’amore più che ventennale quella della band indie rock toscana Baustelle; una storia appassionata di dedizione totale alla cura del dettaglio, dal suono alla parola, di luminosissime uscite discografiche e di rispetto profondissimo per il proprio pubblico.
Una storia solo momentaneamente in pausa, che vede ora l’uscita in anteprima di alcuni brani del prossimo album Forever, il primo da solista del frontman Francesco Bianconi. Alla redazione Sciuscià, il cantautore racconta anche del suo ultimo Abisso, così.
Da quando il primo luglio del 2000 l’etichetta indipendente Baracca&Burattini pubblicò l’album cult Sussidiario illustrato della giovinezza, il tuo nome è inestricabilmente legato a quello dei Baustelle. Qual è il riconoscimento di cui vai più fiero?
Non c’è un riconoscimento ufficiale o un premio in particolare: il riconoscimento più grande è quello di aver resistito tutto questo tempo, di non aver annoiato i fan con la carriera dei Baustelle. Mi sorprende sempre il riuscire a durare nel tempo, non va mai dato per scontato.
Dopo un lavoro più che ventennale, a dir poco proficuo e fortunato come frontman della band, recentemente, a maggio 2020, sono usciti due brani, Il bene e L’abisso, che anticipano il disco Forever, il tuo primo progetto solista. Da dove nasce l’esigenza di questo nuovo esperimento autonomo?
Con i Baustelle uscivamo da un periodo molto intenso, che ha visto l’uscita di due dischi nel giro di pochissimo tempo, L’amore e la violenza e L’amore e la violenza vol. 2. Sono stati degli anni molto divertenti e le tournée sono andate bene; eravamo al massimo della forma, al culmine: secondo me, per far sì che il matrimonio continui in maniera eccitante, bisogna avere il coraggio di prendersi un periodo di pausa, un periodo in cui ciascuno di noi potesse liberare i propri istinti più bestiali. È nata così l’idea di occupare quel tempo con un disco a mio nome, un po’ differente dalle cose ideate con il gruppo, anche a livello compositivo: si tratta di pianoforte, voce e quartetto d’archi, senza ritmica, forse anche per reazione agli ultimi prodotti con i Baustelle, molto ricchi e arrangiati. Ho cercato una strada differente, più intima e personale, con un focus sulla nudità. Insomma, è un disco scarno e spoglio, non immediatamente pop.
Più in particolare, in L’abisso racconti: “Guardo il mondo senza gli occhi che vorrei / Perché conosco bene gli uomini / Racconto i loro demoni / Ma non riesco a scrivere dei miei / Perché io puntualmente evito l’abisso”. Eppure questo sembra già in nuce un lavoro tanto autobiografico, intimissimo, l’incubo di colui che abita disperatamente orizzonti di paura, che teme l’alba ma che in fin dei conti gode del sogno o della consolazione della notte. È così?
Dopo due ritornelli in cui mi lamento di non riuscire a venire a contatto con i miei demoni e di scrivere da anni bene di quelli degli altri, già dentro L’abisso c’è una svolta: nella dichiarazione conclusiva mi dico “basta” e finalmente discendo nel mio abisso, per la prima volta dentro me stesso. Mi rendo conto solo adesso di quanto tempo ho passato ad essere il “precisetti”, il primo della classe, il bravo in italiano, a far bene lo psicologo degli altri, raccontando fatti – magari anche miei privati – ma sempre con degli schermi o messe in scena. Mi rendo conto di essere cambiato, anche felicemente. Mi dicono che è una buona cosa: non sempre accade di essere piloti consapevoli del proprio cambiamento. Come non mai, le canzoni di questo disco riflettono il mio pensiero senza troppe metafore, giri di parole o giochi linguistici. Chi ha ascoltato questo disco in anteprima, questa sorta di autoanalisi, mi domanda quanto la scrittura delle canzoni sia stata influenzata dal corona virus. In realtà sono state scritte prima: ho incominciato a guardare l’abisso con un po’ più coraggio del solito, ma non perché sono stato costretto a casa a riflettere. La vita è bizzarra! Ho fatto un primo passo e solo poi c’è stata una catastrofe mondiale che si è rivelata in sintonia con questo mio percorso. Passare il lockdown a Milano è stata un’ulteriore occasione per discendere ancora più nell’abisso, in qualche maniera ha accompagnato un cammino che avevo già percorso.
Parliamo invece dei tuoi lavori letterari, visto che hai pubblicato due romanzi per Mondadori, Il regno animale e La resurrezione della carne. Quali sono le potenzialità – o anche i limiti – che hai trovato in questo mezzo espressivo rispetto alla musica? Stai scrivendo qualcosa di nuovo?
Mi piacerebbe scrivere un romanzo prossimamente: è già in fase embrionale, ho un’idea in testa e un file di word con degli appunti. Nella pratica della scrittura aiutano tutte le forme possibili, anche se molto differenti tra loro; per esempio, per un autore di aforismi o di haiku anche saper scrivere in forme più lunghe è un buon esercizio. Passare liberamente da una forma all’altra di creazione in scrittura aiuta nelle rispettive pratiche: a me personalmente scrivere in prosa ha giovato molto al perfezionamento della mia capacità di sintesi quando torno alle canzonette.
In un mondo di ascolti veloci e distratti, quale prospettiva immagini per la più giovane scena cantautoriale italiana?
In un certo senso sono ottimista: è un periodo di transizione, di svecchiamento forse. Ci sono molte cose che non mi piacciono, spesso molto uguali tra loro, poco interessanti. Insomma, sono pochi della nuova scena cantautoriale quelli di cui comprerei il disco. Noto però anche un tentativo di tabula rasa che ogni tanto fa bene: c’è stato un cambiamento, una sorta di restaurazione di un linguaggio nuovo, come se fosse stata tirata via la tovaglia con ancora gli avanzi, con tutte le cose inutili da tenere. Ci sono quindi delle opere che dichiaratamente mi piacciono: per esempio, ho prodotto il disco di Lucio Corsi, Cosa faremo da grandi?¸ frutto di un talento straordinario. Solo grazie a quella tabula rasa si è stabilito un nuovo spazio per la creazione di talenti totalmente eccezionali e di difficile catalogazione come Lucio.
Quale consiglio daresti alle nuove leve di artisti della XXXI edizione di Musicultura?
Mi rendo conto che di questi tempi può essere difficile, ma la chiave è non pensare al successo. Può sembrare una frase retorica, ma bisognerebbe concentrarsi unicamente sul controllo totale del proprio mezzo, del suono e della parola. Mi rendo conto che i nostri erano altri tempi, quando abbiamo iniziato si riusciva a campare con la musica senza scendere a compromessi. Sono convinto che ci si può riuscire anche oggi. Ai Baustelle non fregava assolutamente nulla di essere famosi, di andare in radio o in televisione. Volevamo solo fare quello che ci piaceva, curare minuziosamente il suono della chitarra, dell’amplificatore. Oggi pur di sfondare si fanno bastare la canzone, magari fregandosene di come è vestita; tutto ciò può aiutare nel successo, ma di certo non aiuta per la resistenza al tempo.