Maria Grazia Calandrone è poetessa, scrittrice, drammaturga e conduttrice radiofonica. Il suo ultimo libro, Splendi come vita, è candidato al Premio Strega 2021. In prosa e poesia racconta la sua vita che, seppur difficile, l’ha resa la donna che è oggi. Il suo amore per le parole viene tradotto in spagnolo e francese, anche se da sempre è affascinata dalla cultura giapponese, elegante ed essenziale, come le sue poesie. Quella giapponese è anche una cultura che ha potuto conoscere più da vicino, visitando, grazie al Premio Italiano Haiku, città come Tokyo e Kyoto. Ospite durante la settimana de La Controra maceratese, si è raccontata alla redazione di Sciuscià.
Spesso si dice che una canzone è una poesia in musica. Per lei che è una poetessa, una scrittrice e una conduttrice radiofonica, quanto è importante la musicalità delle parole? E come si sviluppa il suo processo creativo?
La musicalità delle parole è fondamentale, al punto che io dico che il mio romanzo Splendi come vita è una prosa musicale, non solo un’opera di narrativa. È fondamentale il ritmo. Dentro questo libro ci sono moltissimi endecasillabi e settenari, moltissimi espedienti metrici camuffati; è come per la grammatica: ad un certo punto tutto ti viene spontaneo e solo poi, nella rilettura, senti come suona.
Senza dubbio la musica è fondamentale, anche se in realtà la poesia non avrebbe bisogno di altro che di se stessa. Non c’è necessità di musicare le parole.
Splendi come vita, appunto. Il libro, candidato al Premio Strega 2021, racconta la sua vita unendo stili diversi quali prosa e poesia. Cosa ha provato nel raccontarsi? E cosa prova ora sapendo che anche in questo momento c’è qualcuno che sta leggendo la sua storia?
Spero che serva. È un libro che può essere letto da chiunque abbia una madre, o che l’abbia o non l’abbia, perché funziona anche per assenza. Racconta di questa relazione con un genitore, per cui spero serva magari ad altre madri adottive che, come la mia, sprecano tempo della loro vita a causa di questo sentimento di inadeguatezza.
Chi scrive si ritrova inesorabilmente davanti al bianco della pagina che – muovendo tra due eccessi – può comportare il “blocco dello scrittore” o, al contrario, l’arrivo simultaneo di milioni di idee. Qual è la sua strategia per affrontare entrambe le situazioni? Che consigli si sente di dare a chi vorrebbe scrivere ma non sa da dove iniziare?
Leggere. La prima cosa è leggere, leggere tanto perché tutto quello che noi leggiamo lo assumiamo anche inconsapevolmente. Sapere quello che si fa nella nostra vita e nel mondo, quindi leggere anche molta letteratura contemporanea, oltre i grandi classici. In genere il bianco non mi ha mai spaventata, se non ho nulla da scrivere non mi ci metto proprio di fronte al foglio. Se invece c’è una sovrabbondanza di parole, vado in bicicletta.
Quando ascoltiamo una canzone associamo immediatamente il testo alle nostre esperienze, come quando leggiamo un libro e sottolineiamo le frasi che più ci rappresentano. Come avviene questa magia del ritrovarsi nelle parole che ha scritto un’altra persona? Quanto un libro o una poesia riescono ad avvicinare le persone?
Io penso che la poesia ci porti in un luogo dove, dalla radice, funzioniamo tutti con gli stessi meccanismi. In questo senso, credo che abbia la potenza straordinaria di farci avere compassione gli uni degli altri; siamo talmente tanto delle povere creature abbandonate in un naufragio cosmico… Io penso che questo sia il senso e il segreto della poesia: farci sentire partecipi dello stesso destino.
Lei è un’attivista della parola: organizza incontri di lettura e laboratori di scrittura creativa nelle carceri, nei DSM, con i malati di Alzheimer e con i migranti. Quanto è terapeutica la scrittura?
Lo è molto e la conferma sono i detenuti che hanno cominciato a scrivere in carcere, esprimendo addirittura la propria vocazione per i figli in versi. È un modo per sentire vicino chi è lontano, ed è anche un modo per conoscersi, per decifrare prima se stessi e poi gli altri. Quando si è particolarmente fortunati da riuscire a rimanere nella poesia così a lungo, da poterla usare come strumento per l’indagine della realtà: quello è uno degli scopi migliori che possa avere.