Nel pomeriggio della quarta giornata de La Controra, in collaborazione con Overtime Festival, Musicultura ospita lo scrittore Mauro Covacich. Collaboratore de Il Corriere della Sera e ideatore di documentari radiofonici, nel 2017 Covacich riceve il «Premio Selezione Campiello» e il «Premio Brancati» grazie al romanzo La città interiore. Numerose le sue opere di successo, tra cui ricordiamo A perdifiato, Prima di sparire, A nome tuo e il recente Di chi è questo cuore. Dopo la presentazione al pubblico maceratese del suo ultimissimo romanzo Sulla corsa, pubblicato da La Nave di Teseo nel 2021, l’autore triestino si è raccontato così alla redazione di Sciuscià.
Musicultura è un salotto che ospita ogni anno decine di menti, personalità e storie. Attraverso la propria arte, ogni ospite del Festival ci racconta in qualche maniera un pezzetto della propria storia. Come approccia uno scrittore e giornalista, che è abituato a raccontare le storie altrui, a uno spazio del genere?
Sono un po’ abituato; in realtà non sono un giornalista, non lo sono mai stato non avendo la tessera giornalistica, ma collaboro con il Corriere. Oggigiorno, i festival sono una boccata d’ossigeno per chiunque scriva o faccia musica. È un modo per riprendere a parlare e a respirare, insomma, a incontrare i lettori. È una cosa che a me ha sempre fatto molto piacere, e ora dopo il Covid a maggior ragione.
Restiamo in tema di racconto. Anzi, parliamone proprio con un suo lavoro. La città interiore – libro col quale ha vinto il «Premio Selezione Campiello» e il «Premio Brancati» – è un romanzo in cui la memoria ha la meglio. In che modo raccontarsi, e raccontare al passato, può incidere sul futuro?
In termini di consapevolezza forse. In una certa fase della mia vita ho capito di dover scrivere quel libro perché era il giusto riconoscimento dei debiti che avevo non soltanto verso le persone, ma anche rispetto agli autori e ai luoghi. Quel romanzo è una specie di topografia della mia mente: la città interiore del libro non è Trieste, come tanti potrebbero pensare, ma è proprio la mia mente, nella quale ricostruisco i rapporti con le persone che ho amato di più e, allo stesso tempo, anche con i grandi autori come Joyce e Svevo. È un modo forse per essere consapevoli verso il futuro.
Torniamo al presente. Siamo ormai immersi nell’era digitale e i rapporti umani non sono necessariamente cementati da incontri fisici. La cosa sembra discostarsi molto dalla sua visione del mondo. Qual è il suo punto di vista a riguardo?
Indubbiamente, mi ritengo un “residuo novecentesco”. Internet e le piattaforme digitali evolvono, però ho una certa resistenza rispetto a queste forme di amicizia che, secondo me, sono palliative: non ho nulla contro chi riesce a creare un’amicizia su Facebook, ma io non ci riesco; ho bisogno ci sia un investimento di responsabilità personale. Quando decido di non essere amico di qualcuno, ho bisogno di incontrarmi con lui e poter dire “guarda non siamo più amici” e litigare. Su Facebook basta togliere l’amicizia. Questo è un esempio abbastanza sintomatico dei miei rapporti con la vita digitale. In questo anno e mezzo ovviamente ho fatto tante cose via Zoom: lezioni all’università, interviste e presentazioni. Non ho pregiudizi a riguardo, ma è il mio modo differente di comunicare; non poter parlare davanti a uno spritz ma solo attraverso le storie su Instagram non fa per me.
Parliamo di musica: che tipo di ascoltatore è Mauro Covacich? Lo incuriosiscono generi differenti o ce n’è uno a cui è particolarmente affezionato?
Ho avuto tante stagioni. C’è stato un periodo in cui pensavo di aver scoperto per primo i Radiohead, nei primi anni Novanta; ho sofferto molto quando sono diventati un gruppo planetario, sembrava mi avessero tradito. Ho ascoltato tanta musica, adesso forse più colta: mi piaccciono Philip Glass e Steve Reich, musica di questo genere. Anche i Coma_Cose mi piacciono da impazzire per il loro lavoro sul linguaggio, per il modo in cui hanno saputo creare un dialogo di coppia, in cui sono entrambi autenticamente artisti e nessuno sottrae spazio all’altro. È figa lei, è figo lui: sono bravi insieme.
Proviamo a rispondere così, a bruciapelo, alla domanda che dà il titolo all’evento de La Controra di cui è protagonista oggi: lo sport è un sentimento?
Lo sport non è un sentimento, ma una pratica di cui ci si appassiona. Se non c’è l’innamoramento per uno sport, non me ne occupo. Proprio perchè è la mia esperienza autobiografica, nel libro Sulla corsa tratto della pratica sportiva a cui ci si dedica solo se si è pienamente innamorati; per questo si diventa anche un po’ fanatici, un po’ pazzi.