È la sua seconda volta sul palco del festival e per il suo ritorno ha scelto di regalare a Musicultura anche la sua interpretazione di Redemption Song. È così, con un “canto di redenzione”, uno dei brani più famosi di Bob Marley, che Ermal Meta ha voluto idealmente abbracciare il pubblico dello Sferisterio, che ha calorosamente risposto alla sua performance con un lungo ed emozionato applauso. Prima della sua esibizione, l’artista ha rilasciato questa intervista alla redazione di Sciuscià.
“Tribù Urbana”, il tuo ultimo album, è un lavoro che già dal titolo sembra presentare un’antitesi. E infatti contiene brani che affrontano temi anche molto diversi tra loro. Come nasce l’idea di intrecciare tante storie tra loro differenti?
In generale, le storie sono tra di loro differenti per natura, è impossibile trovare due storie uguali. E poi mi piaceva questa antitesi “tribù/urbana” perché i termini rappresentano due cose completamente diverse. “Tribù” è la necessità che sentivo di appartenere a qualcosa – soprattutto dopo quello che abbiamo passato – che mi potesse proteggere. E nell’immaginario collettivo la tribù fa proprio questo. “Urbana” perché ci troviamo tutti in realtà urbane. Cerco di fermarmi all’interno di un mondo frenetico, di fare una pausa, insomma.
“Destino Universale”, il titolo di un pezzo contenuto proprio in “Tribù Urbana”, è un’espressione che ben si adatta all’anno appena passato. Ecco, come hai vissuto questo periodo di pandemia?
L’ho passato in pausa, come tutti. In alcuni momenti è stato molto difficile, a tal punto che certe volte non riuscivo neanche a dormire e, nonostante avessi molto tempo a disposizione per me, non sapevo cosa farmene. Mi viene in mente una favola di La Fontaine, in cui protagonista è un uccellino in gabbia che per tutta la vita chiede a Dio di essere liberato. Dopo tante preghiere, una mano invisibile apre la gabbia e una voce gli dice: “Mi hai pregato per tutta la tua esistenza di liberarti, adesso puoi volare via”. L’uccellino, terrorizzato, risponde: “Sì, ma se poi resto chiuso fuori?”. Ecco, a un certo punto mi sono sentito così, spaesato, perché di tutto questo tempo a disposizione non sapevo cosa farmene. È stato molto strano.
E ora, invece, com’è tornare finalmente a esibirsi davanti al pubblico?
È sempre un’emozione bellissima e per certi versi commovente. In generale non siamo ancora del tutto tornati alla vita normale ma possiamo dire che si sta vedendo la luce in fondo al tunnel. Sicuramente è una situazione diversa rispetto all’anno scorso e mi auguro che vada sempre in crescendo, quindi speriamo di continuare così. Resta il fatto che esibirsi davanti al pubblico è sempre magico.
Hai scritto brani per alcuni grandi interpreti della musica italiana. Qual è la sensazione che lascia addosso sentir cantare qualcun altro un proprio pezzo?
È qualcosa di molto particolare perché ti fa sentire quello che hai scritto attraverso voci altrui. Arriva un’emozione diversa perché la persona che in quel momento sta cantando quello che hai scritto lo sta interpretando in un modo che inevitabilmente è differente dal tuo, il che non significa che sia meglio o peggio, ma semplicemente, appunto, diverso. Inoltre, ti permette di scoprire una parte di te che non conoscevi prima: se scrivo una cosa intendendola in un certo modo, per qualcun altro può essere diversa, e ciò può comportare che io provi emozioni che non avevo provato prima. Credo che questa sia una cosa molto bella.
Gli 8 vincitori di Musicultura muovono i loro passi per affacciarsi sulla scena musicale italiana. C’è un consiglio, un monito, un augurio che, se li avessi di fronte, bisbiglieresti alle loro orecchie?
Augurerei loro di non arrendersi quando è il momento di non arrendersi e di fare un passo indietro quando è il momento di fare un passo indietro. Capire quali sono questi due momenti secondo me è fondamentale. Per adesso, però, devono andare avanti.