Storico, studioso di araldica e musica risorgimentale, curatore della revisione degli stemmi della Marina Militare e dell’Esercito, Michele D’Andrea ha tenuto numerosissime conferenze e interventi sulle vicende storiche e musicali che ruotano attorno all’ inno nazionale italiano. Anche a Musicultura, sia a La Controra che durante la serata finale allo Sferisterio, ha affascinato il pubblico presente con il suo racconto su Il Canto degli Italiani, narrando i segreti e le curiosità che si celano dietro la storia del nostro inno. Questa l’intervista rilasciata alla redazione di “Sciuscià”.
La canzone è da sempre considerata una forma di espressione che un artista produce con spontaneità. Si può dire la stessa cosa degli inni, che inevitabilmente richiedono una certa solennità? C’è secondo lei una particolare attitudine emotiva e di scrittura che può tornale utile nell’uno o nell’altro caso?
Molte volte gli inni nascono come moti dell’animo, proprio come le canzoni. Il fatto che gli inni possano essere solenni può far sembrare che ci sia stata una qualche investitura “dall’alto”, in realtà la legittimazione di un inno è del popolo, per cui ne esistono tantissimi che non hanno nulla di cerimoniale e che, al contrario, hanno conquistato il loro posto nella storia dei popoli proprio perché è stata la gente a farli suoi. In alcuni casi posso anche comporre una canzone d’occasione, o un inno d’occasione, ma la legittimazione dell’inno non è mai di chi la compone ma di chi la ascolta. Le storie degli inni sono talmente complicate, divertenti e aneddotiche proprio perché è la gente che li legittima e li fa propri.
E gli stemmi, invece? Mi corregga se sbaglio ma potremmo definirli come una particolare forma di linguaggio che, per tramite delle figure, cerca di veicolare determinati messaggi con una certa immediatezza. Insomma, gli stemmi somigliano un po’ alle canzoni?
Giustissimo. Si tratta di araldica, ossia un linguaggio figurato in una società analfabeta, ma non solo: è stata anche una sorta di esperanto linguistico che ha unito con la stessa grammatica l’intera Europa per un periodo – che va dalla fine dell’undicesimo a metà del dodicesimo secolo – in cui si guardavano e utilizzavano le stesse figure; linguaggio figurato, quindi linguaggio per immagini. L’araldica, inoltre, non era riservata alla nobiltà ma a tutti gli strati sociali. È un po’ come un biglietto da visita: tutti possono averlo ma non tutti ne fanno uso.
A proposito di canzoni, all’estero l’Italia è spesso vista come il Paese della musica. Crede che la storia dello stivale abbia avuto un ruolo nel fargli guadagnare questo epiteto?
Abbiamo avuto una sorta di DNA privilegiato, per cui siamo riusciti a marcare con la nostra musica, in particolare con il Teatro dell’Opera, un secolo e mezzo di storia musicale europea. È un talento che abbiamo, e non sappiamo bene come sia possibile tutto ciò ma è certamente la verità, ci possiamo considerare gli artefici di una grande rivoluzione musicale.
Lei è un appassionato di musica risorgimentale. Quali sono le principali differenze tra la musica di oggi e quella del tempo? E, al contrario, le similitudini?
La cosiddetta “musica leggera”, quella che poi è declinata in tante sfumature, corrisponde perfettamente alla musica del passato perché entrambe sono autenticamente popolari. Tutta la musica del Risorgimento entra nel solco dell’unica forma di musica che è quella del Teatro dell’Opera di metà ottocento, su cui sono modulati tutti i canti, fortemente e autenticamente popolari.