La seconda giornata de La Controra è inaugurata dalla presenza dello storico, araldista, scrittore romano Michele D’Andrea e dalla sua spiccata volontà di narrare particolari storici poco noti al pubblico. Tante le attività e le passioni che contraddistinguono la sua figura, tra cui la passione per la musica risorgimentale italiana.
Classe ’59, Michele D’Andrea ha ricoperto cariche prestigiose come quella di Consigliere della Presidenza della Repubblica e membro del Cerimoniale. Si è occupato, inoltre, di messaggistica presidenziale e uffici stampa. Insomma, la sua è stata, per sua stessa ammissione, “una bella palestra di crescita professionale”. Conosciamo altre sfaccettature della sua persona attraverso quest’intervista rilasciata alla redazione di “Sciuscià”.
Si è occupato di messagistica e comunicazione istituzionale, cerimoniale, storia, teatro e musica. Come ci si giostra tra attività apparentemente così diverse?
Con tanta passione. La passione è qualcosa che ti fa vivere. È ossigeno. È il cervello che si apre. Sono le occasioni che prendi al volo. Sono le intuizioni. È anche la mancanza di fatica quando sei stanco. E c’è una cosa che dico a voi ragazzi: fate tutte le vostre cose, scuola e fuoriscuola, con passione, perché la passione muove le montagne.
In qualità di araldista ha curato lo stendardo presidenziale e gli stemmi dell’Arma dei Carabinieri, della Polizia di Stato, della Marina Militare e dell’Esercito Italiano. Qual è l’importanza di questa forma di comunicazione nel 2022?
L’araldica fu una sorta di miracolo. In cinquant’anni appena, tra la fine del 1100 e l’inizio del 1200, l’Europa riusciva a parlare lo stesso linguaggio figurato attraverso l’araldica, che è un po’ una carta di identità senza parole e, per tantissimi secoli, è stato uno strumento per raccontare la storia, le persone, le comunità. Oggi l’araldica ha ancora un senso, perché in tutti i comuni se alzi lo sguardo all’entrata della città puoi vedere il suo stemma ed essere in grado di riconoscerlo tra mille. Ecco perché l’araldica è ancora importante: dà un messaggio immediato, visivo, che si può cogliere subito.
Spesso si è interessato di temi quali il galateo della comunicazione, l’educazione e il rispetto nella società contemporanea. Che valore ha sensibilizzare i giovani di oggi su queste tematiche?
Non vorrei essere preso per un vecchio, però ci sono dei comportamenti che possono dare fastidio, trent’anni fa come oggi. Io dico sempre che c’è una libertà personale che dev’essere poi mediata con la libertà degli altri. Il nostro comportamento individuale deve essere sempre legato al luogo in cui si sta, a chi si ha intorno, all’occasione, all’età delle altre persone.
È importante perché voi ragazzi affronterete il mondo del lavoro, e in quel mondo ci sono delle regole non scritte molto più rigide. È necessario, quindi, abituarsi adesso ad avere un certo tipo di atteggiamento con gli altri, un atteggiamento tendenzialmente rispettoso che ha in sé la cifra di un’educazione. Ad esempio, io a una persona più grande darei comunque del “lei”. Quando sarete nel mondo del lavoro, questo vi aiuterà a capire meglio quali sono i meccanismi che regolano gli ambienti in cui spenderete la vostra professionalità. Se uno tende a essere un pochino anarcoide, prima o poi si scontrerà frontalmente contro un treno e con una realtà che è molto diversa.
Nella scorsa edizione del Festival ha presentato al pubblico dello Sferisterio Il Canto degli italiani. Cosa rappresenta per lei l’Inno di Novaro-Mameli?
Hai detto bene, “l’inno di Novaro-Mameli”, perché tutti dicono “l’inno di Mameli” ma, effettivamente, ciò che l’ha portato a essere simbolo dell’Italia è la musica di Novaro. L’inno è stata la colonna sonora non solo del nostro Risorgimento, ma anche degli anni a venire. Si pensi, per esempio, che in tema della Resistenza nel 1943, Radio Bari, che era una radio che trasmetteva ai partigiani del Nord, chiudeva le sue trasmissioni con l’inno di Mameli. Se l’anno scorso, proprio qui a Musicultura, l’ho presentato e quest’anno ne riparlo è proprio perché il nostro inno merita di essere raccontato, svelato, e deve essere presentato come in realtà è e non come, purtroppo, viene spesso massacrato da esecuzioni che non sono corrette.
Nei suoi seminari e convegni utilizza spesso l’ironia. L’ha sempre usata o ha deciso solo di recente di adottarla come strategia comunicativa?
Più che parlare di “strategia comunicativa”, che fa pensare a qualcosa di costruito, direi che in realtà ho sempre cercato di approntare il mio lavoro e i miei interessi non tanto sull’ironia quanto sull’autoironia, prendendo in giro anzitutto me stesso, ovvero non prendendomi troppo sul serio. La storia si può raccontare in tanti modi, ma sono certo che anche raccontandola attraverso l’aneddotica, i retroscena, le curiosità, anche scherzandoci un pochino sopra, alla fine il messaggio arrivi ugualmente, ma in una maniera forse più piacevole che magari invoglia ad andare in libreria e comprare un libro per aggiornarsi. Ecco, un altro consiglio che mi permetto di dare, da persona anziana, a voi giovani, è proprio questo: abbiate tanta autoironia.