Che cosa hanno in comune un violinista bulgaro, un cantante mongolo e un percussionista francese? È quello che abbiamo cercato di scoprire in quest’intervista ai Violons Barbares (Dimitar Gougov, Dandarvaanchig Enkhjargal e Fabien Guyot), trio internazionale che porta in giro per l’Europa i “ritmi galoppanti” prodotti dai loro strumenti tradizionali: la gadulka bulgara che assomiglia a una ghironda medievale e il morin khuur, una sorta di viola bicorde che affonda le sue radici nelle società nomadi delle steppe asiatiche. A questi si aggiungono percussioni di ogni tipo – tamburi arabi e mediterranei, scodelle, scatole, bottiglie, gong e bonghi – e le tecniche del canto gutturale. Ma nei loro tre album – Violons Barbares (2010), Saulem Ai (2014) e Wolf’s Cry (2018) – non si trova solo musica tradizionale o popolare: al contrario, emergono il rock, il jazz e perfino il metal, il tutto accompagnato da un ritmo davvero travolgente.
Tre nazionalità, tre culture, tre esperienze musicali diverse. Com’è nato il gruppo? Soprattutto, come avete fatto a trovare il vostro comune denominatore?
Io (Dimitar Gougov, gadulka ndr) abito a Strasburgo dal 2000. Anche il percussionista Fabien abitava a lì, quindi ci conoscevamo già. Qualche anno dopo sono stato invitato in Germania per partecipare a un festival che riuniva tante nazionalità diverse: i colleghi venivano dalla Cina, dalla Mongolia, dall’India, dall’Afghanistan, dall’Iran e dalla Turchia oltre che da tutta Europa. Il progetto si chiamava La via della seta e con questi musicisti abbiamo fatto cinque, sei concerti durante l’estate. In quel gruppo – che in realtà non era un vero gruppo, ma si era unito solo per il progetto – ho incontrato Epi (Dandarvaanchig Enkhjargal, morin khuur ndr). Grazie a lui ho conosciuto per la prima volta la tecnica del canto grave armonico, di cui non avevo mai sentito parlare, e del canto acuto khöömii. In più ascoltando il suo morin khuur, ho notato che suonava nella mia stessa tonalità. Le corde ricordavano molto quelle del mio strumento, però erano più gravi. Così mi sono detto: «Si possono combinare molto bene insieme. Possiamo creare un gruppo».
La musica spesso viene etichettata: gli artisti sono accostati a un genere preciso e il pubblico pensa già a cosa doversi aspettare dalle loro creazioni musicali. Il vostro tratto distintivo, invece, è la contaminazione. Quanto lavoro è dedicato alla ricerca e quanto all’improvvisazione per ottenere questo effetto?
Ognuno di noi ha appreso la musica tradizionale nel proprio paese. Di conseguenza, in Francia e in Germania, io ed Epi siamo automaticamente classificati nella “world music”. Ma è solo il punto di partenza, perché alla fine ci ritroviamo a festival di musica tradizionale o anche di impronta più attuale, ai festival di musica classica, jazz, rock e metal. Ti rendi conto che puoi suonare dolcemente, ma anche trasmettere molta energia ed è questo alla base della nostra voglia di fare. Certo, partiamo dai nostri strumenti tradizionali, ma quando ci riuniamo cerchiamo di creare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo, di andare al di là di ciò che abbiamo già imparato. Non è una vera e propria fusione: facciamo un’altra musica. Io suono la gadulka e ora anche il morin khuur. Adesso cantiamo tutti alla maniera mongola. Ognuno di noi, inoltre, ascolta musica molto diversa e questo aiuta enormemente per il futuro, per avere delle idee e dei pezzi che escono dalla tradizione e da un genere preciso.
In che senso i vostri strumenti sono “barbari”?
Ho chiamato questo gruppo Violons Barbares perché è qualcosa di impossibile. Un violino non è barbaro; un violino è il contrario di barbaro. Lo sapete, è fatto in Italia, a Cremona. Volevo che il nome saltasse all’occhio. Quelli che suoniamo, in realtà, non sono violini, ma i loro antenati. L’aggettivo “barbari”, allora, rimanda al fatto che sono strumenti di altri popoli, anticamente chiamati “barbari”.
Spesso nei vostri brani prevale la musica rispetto al testo. Anche l’utilizzo della voce per creare effetti polifonici suggerisce una propensione ai suoni piuttosto che alle parole. Nei vostri pezzi è più importante il significato o il significante?
Fino a ora, per i primi tre album, non ci siamo preoccupati tanto dei testi: molti venivano dalla tradizione, altri li abbiamo scritti noi. È vero, negli scorsi anni ci siamo soffermati maggiormente sulle sonorità e su tecniche di canto particolarmente espressive, che ci permettevano di evocare determinate sensazioni e di rendere la performance più suggestiva. Attualmente stiamo preparando qualcosa di diverso: sono delle canzoni a tema e tutti i testi ricoprono un ruolo davvero importante. Li abbiamo scritti in bulgaro, mongolo tedesco e inglese; per la prima volta anche in francese. Perché 5 lingue? Volevamo farci capire un po’ di più.
La natura è un tema ricorrente della vostra produzione. La canzone Wolf’s Cry si interroga sull’ambiente e sull’eredità da lasciare alle prossime generazioni; Fabien fa anche parte del progetto Furieuz Casrols, che utilizza percussioni riciclate; il canto gutturale trae origine da un profondo contatto con la natura; nel 2018 vi siete perfino esibiti all’interno delle grotte di Lascaux. In qualche modo la vostra musica aspira a una dimensione primitiva e primordiale?
Il nostro collega mongolo Epi è molto colpito da ciò che sta accadendo nel suo paese. Fino a poco tempo fa lì la gente viveva in armonia con la natura, era nomade e si spostava secondo i ritmi dell’ambiente circostante. Invece negli ultimi anni le persone hanno iniziato a sfruttare indiscriminatamente le risorse della terra: Epi vede ciò e prova una grande tristezza, così ha voluto inserire questo tema nelle canzoni. Aspirare a una dimensione primordiale? È da vedere, perché comunque anche i temi dei brani cambiano e non posso dire che siamo un gruppo impegnato sulle questioni dell’ecologia. Anche noi ce ne siamo occupati, certo, ma credo ci siano altri che lo fanno molto meglio di noi.