Artista senza frontiere, viaggiatrice e sognatrice, Ilaria Pilar Patassini ha esordito nel 2007 con il suo primo album intitolato Femminile singolare. Da lì la sua musica non si è più fermata, spaziando tra generi e culture, storie e viaggi. Quello stesso anno inebriava lo Sferisterio di Macerata con la sua Gente che resta, la stessa canzone che le ha permesso di vincere il premio finale di quella edizione di Musicultura. Dopo anni è tornata sotto quegli stessi riflettori a emozionare il pubblico, a lasciare messaggi d’amore e a raccontare un po’ di sé a noi della redazione di “Sciuscià”.
Leggendo la tua biografia è evidente che, oltre a un ovvio amore per la musica, una tua grande passione è il viaggio. Da cosa nascono queste tue passioni e cosa, secondo te, le unisce?
Per me la musica e il viaggio sono due cose congiunte. Chi vuole far musica deve per forza avere una vocazione al viaggio come senso dello spostamento, come senso reale di quello che si vive e di quello che si fa. I musicisti sono anche un po’ marinai. Io ogni volta non vedo l’ora di partire. Poi, giunta a destinazione, non vedo l’ora di ripartire per andare a suonare da un’altra parte. Se non viaggi non conosci, non ti distacchi dal posto in cui vivi, quindi non puoi vedere le cose da fuori. E questo è fondamentale per chi canta e per chi interpreta, come nel mio caso. Il distacco dal proprio posto è imprescindibile per poterne parlare, altrimenti si rischia di diventare assolutamente autoreferenziali. Se si parla del posto in cui si vive, della propria vita, non distaccandosene mai, è difficile riuscire a dare alla composizione un carattere universale. Sarà sempre troppo personale, quindi tenderà a parlare a molte meno persone possibili. Chi viaggia, conosce. Il viaggio non è solo un’azione fisica ma una forma di conoscenza. Anche leggere un libro è un viaggio, un atto di conoscenza per scoprire le storie altrui: se un interprete non conosce le storie altrui, come si racconta al pubblico? Per me il viaggio in sé è casa. Aspettare ai gate degli aeroporti o stare su un treno in movimento per me è casa. La considero una “droga legale”, ma alle volte anche una croce.
Sei stata una delle protagoniste di una trasmissione RAI intitolata Femminile Musicale, in un approfondimento dedicato alle problematiche presenti nella discografia italiana per le donne. Qual è il tuo parere a proposito?
Da madre di un bambino molto piccolo, posso dire che la maternità è ancora un handicap per le donne. Questa cosa per me non riguarda la politica ma proprio i diritti umani. Il sessismo e la discriminazione ci sono ancora e sono fortissimi. E io mi rendo sempre più conto del fatto che essere una donna abbia influito tantissimo nella mia vita professionale, umana e artistica. A farsi carico dei figli e del lavoro non retribuito non dovrebbero essere solo le donne. E finché questo non entra nella mente dei maschi, il divario non può essere colmato. Questo problema non si risolve mettendo gli asili nido negli uffici, se poi a portarseli dietro sono sempre e solo le donne. Il carico mentale gigantesco che noi donne abbiamo è da sempre la forma di ingiustizia più grande e scandalosa che esista al mondo. Secondo il libro meraviglioso di una sociologa, il lavoro di cura non retribuito nel mondo è al 75% sulle spalle di noi donne, e questo è un peso che appartiene solo a noi. Tutto questo, ovviamente, si riflette anche nel mondo della musica, come nel mio caso. A volte non riesco a dedicare il mio tempo allo scrivere canzoni perché devo pensare a tutte le faccende che riguardano la casa, mio figlio, eccetera. Alcuni passi avanti sono stati fatti ma non è ancora abbastanza. Se non ci si fa carico a livello comunitario di questo problema, non si risolverà mai. Fino ad arrivare al punto di cedere per stanchezza.
Hai collaborato con moltissimi artisti – per citarne qualcuno: Don Byron, Tosca, Neri Marcoré, Jean-Louis Matinier. In che modo ti hanno aiutato ad ampliare il tuo bagaglio artistico e culturale?
Collaboro in continuazione. Trovo stimolante poter condividere i miei lavori con altri artisti che stimo e che fortunatamente mi stimano. Questo mi fa sicuramente crescere. Adesso ho una collaborazione con Daniele di Bonaventura che è un bandoneonista marchigiano. Faremo uscire insieme un disco molto bello di world music realizzato insieme alla sua band storica. Ho anche una collaborazione con Geoff Westley, un direttore d’orchestra, con cui suono i brani di De André in chiave sinfonica. Spero poi di tornare in Canada per recuperare le collaborazioni che ho lasciato lì. Ci sono sempre delle collaborazioni all’orizzonte. Del resto da soli non si va da nessuna parte. Non siamo isole, al limite possiamo essere arcipelaghi!
Per quanto la cultura musicale contemporanea cerchi di inquadrare gli artisti all’interno di generi ben definiti, sembra che tu combatta proprio per evitare una sorta di inquadramento. Tuttavia, tra i tanti generi che tratti ce n’è uno che prediligi?
La bella musica: questo è il genere che prediligo.
La tua carriera discografica è cominciata nel 2007 e da lì non ti sei più fermata. Se potessi parlare alla Pilar di 15 anni fa, cosa le diresti?
Probabilmente le darei i consigli che mi sono stati dati ma che non ho mai ascoltato. Una mia insegnante, ad esempio, mi diceva di andare altrove, di espatriare, ma io, essendo troppo legata alle mie radici, non le ho dato mai ascolto. Amo troppo il mio paese e amo scrivere nella mia lingua, quindi sarebbe stato molto difficile per me andare lontano. Forse un altro consiglio che le darei è quello di stare attenta alle persone che ha intorno. Sì, un’altra cosa che le direi è proprio questa: “Cara ragazza, smettila di essere così educata e ogni tanto di’ qualche vaffanculo in più.”