Poteva mancare una grande icona del panorama musicale internazionale alla serata della finalissima di Musicultura? Certo che no! Così abbiamo accolto Emilíana Torrini, cantautrice islandese attiva dal 1994 e conosciuta dal grande pubblico per hit come Jungle Drum e Sunny Road. Ad accompagnarla sul palco c’è stata la The Colorist Orchestra: un ensemble di 8 musicisti belgi che spaziano da strumenti classici come il pianoforte, la viola e il contrabbasso a quelli più ricercati e insoliti come il flapamba, il calabash e le pietre. L’improvvisazione, la sperimentazione e l’entusiasmo di questa collaborazione hanno dato vita all’album The Colorist & Emiliana Torrini (2016): un concentrato di poesia sonora caratterizzato dal multistrumentalismo e dall’inconfondibile vox della Torrini.
Con quest’intervista noi della redazione di “Sciuscià” abbiamo parlato dapprima con Emilíana, passando poi a Kobe Proesmans e Aarich Jespers della The Colorist Orchestra per scoprire qualche curiosità in più sulla loro carriera musicale.
Sei islandese ma hai radici italiane da parte di tuo padre. In occasione del Festival della Canzone popolare e d’autore di Musicultura, la domanda sorge spontanea: ti è stato trasmesso l’amore per qualche brano o artista nostrano che potrebbe essere stato d’ispirazione per la tua carriera?
Non essendo cresciuta in questo paese, per me il concetto di “Italia” è sempre stato solo un’idea. Nella mia carriera ho messo quella che penso sia l’influenza italiana. Sono cresciuta ascoltando una lista di artisti jazz che sì, cantavano musica italiana, ma erano stranieri e i miei unici veri riferimenti sono sempre stati quelli della sfera artistica napoletana perché a mio padre piaceva moltissimo la musica anni Sessanta. Penso sia un’influenza enorme, ma si tratta più che altro di una persona italiana straniera che cerca di trovare le proprie radici.
Ascoltare le tue creazioni musicali è un po’ come catapultarsi in un mondo di atmosfere surreali e rimandi onirici accompagnati da grandiosi cambiamenti stilistici. Pensando al risultato di questo connubio, da dove parti nel processo creativo delle tue canzoni?
Improvvisazione. Con la The Colorist Orchestra è un ritrovarsi insieme, iniziare a suonare e rapidamente avere già l’immagine in testa. Un po’ come vedere il film di quello che si sta facendo prima di iniziare. Inoltre, siamo davvero liberi nella creazione: cominciamo con un tipo di canzone, ma non sappiamo dove andrà a parare. Accade e basta. Per esempio, un giorno ero nella vasca da bagno di un hotel e c’era un rubinetto rotto che ha iniziato a gocciolare dando vita a una sorta di musica jazz e, dopo averlo registrato, sono andata da loro e ho detto: “Penso che possiamo fare qualcosa con questo”. Volevamo suonarlo come se fosse uno strumento, ma non riuscivamo a trovare il ritmo per ricreare quel suono. Oggi, invece, la musica è arrivata a qualcosa di completamente diverso. Puoi iniziare da qualsiasi parte e non sai dove andrà a finire. Pensi di avere il controllo, pensi che le gocce te lo diranno, ma poi sparisce nella stratosfera e quindi devi solo iniziare il processo ed essere aperto mentalmente. Credo che ci siano due creatori: l’artista e l’ingegnere del suono. Quest’ultimo creerà tutto ciò che c’è di immaginabile utilizzando la prospettiva del “No, ma…”, mentre l’altro lavora con l’assenso.
Qualsiasi cosa tu proporrai, l’artista ti dirà: “Sì, proviamoci”. Ecco, si tratta di seguire il flusso e di non ricercare il controllo.
Nella tua vasta carriera internazionale spicca la tua interpretazione di The Gollum’s Song per la colonna sonora del film di Peter Jackson, Il Signore degli Anelli – Le due torri. Quali emozioni ti ha suscitato sentire la tua voce in un film-capolavoro come questo?
Per me è stato molto divertente e allo stesso tempo un esperimento vocale interessante, perché non mi sembrava di poter cantare in modo troppo angelico sapendo di starlo facendo per Gollum. Infatti, per far figurare tutta la tensione di quella scena, e tirare fuori il lato bello e il brutto del personaggio, ho cercato di cantare con un tono bello e brutto allo stesso tempo. Ovviamente i produttori che mi avevano contattato non si aspettavano rendessi il brano più grottesco, però per me è stata un’opportunità per sperimentare qualcosa di diverso.
L’ultimo album di Emilíana (ci rivolgiamo ora ai musicisti della The Colorist Orchestra, ndr) vede la vostra collaborazione. La particolarità sta anche nel fatto che si tratta di un album dal vivo: si rubano l’emozione del momento, i feedback del pubblico e anche l’errore mischiato all’improvvisazione. Indubbiamente un album ben riuscito, ma com’è nata l’idea di lavorare assieme?
Il nostro progetto ha un obiettivo specifico e consiste nell’invitare artisti a lavorare con noi per riarrangiare assieme loro brani, contaminandoli con le nostre sonorità. Diciamo che noi Colorist definiamo il nostro modo di “ricolorare” i brani cercando la linea sottile tra pop, classica e musica underground. Così è stato anche per Emilíana: l’abbiamo invitata a lavorare assieme su suoi brani già usciti e da questo è nata un’altra collaborazione con lei che prevede canzoni composte insieme sin dall’inizio.
Come definireste il vostro modo di suonare gli strumenti musicali?
Ci piace chiamarla “art brut”: se non hai la tecnica per suonare uno strumento allora sei libero di suonarlo come vuoi, come un bambino che gioca con i suoi giocattoli. Insomma, un’arte spontanea senza alcuna pretesa o forzatura. Lo stesso è per uno strumento che non conosci, perché devi prima scoprire il suono e inventarti un modo per usarlo. A noi piacciono le sorprese, non sapere dove andremo a finire, come un esperimento continuo.