Quest’anno alle Audizioni live di Musicultura abbiamo avuto la fortuna di ascoltare due protagonisti della scena musicale jazz italiana: Fabrizio Bosso e Julian Oliver Mazzariello. Intervistarli è stato un po’ come chiacchierare davanti a un caffè in un bar di New Orleans, o forse di Napoli, sulle note di Je so’ pazz di Pino Daniele. D’altronde, anche suonare insieme è per loro dialogo, la naturale prosecuzione delle chiacchierate scambiate a tavola e nei viaggi in treno, che sul palco si traducono in musica. Dall’High Five Quintet all’album We Wonder, dall’amicizia di lunga data al sodalizio musicale: i due maestri raccontano alla redazione di “Sciuscià” il percorso che li ha condotti insieme sul palco. Ci spiegano che il segreto per far dialogare il suono soffuso della tromba con quello brillante e cristallino del pianoforte è la sintonia, che vuol dire connettersi sulla stessa frequenza e sincronizzarsi sulla stessa pulsazione ritmica. Suonare insieme è come parlare la medesima lingua e intrecciare due voci per comporre un racconto musicale unico.
Maestro Bosso, Maestro Mazzariello: uno dei più stimati trombettisti italiani insieme a uno dei più talentuosi pianisti, accomunati dall’amore per il jazz. Come vi siete conosciuti e com’è nato il vostro sodalizio artistico?
F. B.: Ci siamo conosciuti circa vent’anni fa, quando abbiamo formato il gruppo degli High Five Quintet. Dopo aver suonato insieme per un po’ con questo quintetto, le nostre strade si sono separate, non perché avessimo litigato ma perché ognuno ha preso la sua direzione. Da quando ci siamo ritrovati circa 13 anni fa – il duo è nato nel 2010 – non ci siamo più lasciati e Oliver è anche nel mio quartetto e in altre formazioni più grandi con orchestra e archi. Sicuramente c’è una grande stima reciproca, accompagnata da una grande fratellanza e da un grande rapporto umano – ci vogliamo molto bene – e questa è una cosa che io, col passare del tempo, ricerco sempre di più: salire sul palco con una persona che non solo stimi musicalmente, ma anche a livello umano, è importante per creare qualcosa insieme. Del resto, vedo la musica come la prosecuzione di un dialogo: viaggiamo insieme, andiamo in giro per il mondo, chiacchieriamo a pranzo e in treno, poi saliamo sul palco e continuiamo a dialogare con un mezzo a noi più congeniale. Per Julian Oliver il pianoforte, per me la tromba.
Il jazz è soprattutto libertà, poliritmia, improvvisazione. Quant’è importante stabilire un’empatia, quando suonate insieme, per sintonizzarvi sulla stessa pulsazione ritmica?
F. B.: Stabilire empatia e connessione quando si suona insieme è fondamentale e necessario per fare buona musica, altrimenti si finisce per eseguire ognuno il proprio spartito. Se non arriva niente innanzitutto a chi sta suonando, è difficile che possa arrivare qualcosa al pubblico. Non solo suonare con l’altro, ma sentire l’altro mentre si suona e desiderare che dia il massimo: queste sono l’idea e l’energia giuste per fare del buon jazz. Non ci dev’essere competizione sul palco, ma aggregazione, voglia di creare qualcosa all’unisono.
J. O. M.: Aggiungerei che il jazz spesso è visto solo come improvvisazione – uno, due o sessanta musicisti si mettono insieme e improvvisano – invece c’è un vero e proprio linguaggio alla base. Il jazz, lo dicevamo anche prima, è come dialogare: esistono un linguaggio con delle sue regole, dei brani da leggere, degli schemi che si ripetono e, se si è fortunati, esiste anche la connessione. Noi all’inizio, nonostante ci conoscessimo, non avevamo ancora mai suonato in duo. Ci stimavamo ed eravamo curiosi, e questo ci ha consentito di dialogare e comunicare anche con la musica, però non sempre questo accade.
È uscito da poco l’album We Wonder (2022), omaggio al grande Stevie Wonder, in quartetto con Jacopo Ferrazza e Nicola Angelucci. Vi va di parlare di questo progetto?
F. B.: Per me è un desiderio che si realizza: adoro Stevie Wonder e il mio sogno nel cassetto è riuscire un giorno a suonare due note dal vivo con lui, anche in camerino! Il progetto è perché avevamo selezionato un po’ di brani per un evento pensato da Ernesto Assante, che organizzava dei concerti all’Auditorium di Roma in cui chiedeva ai leader di ogni gruppo di rendere omaggio a un cantante italiano o straniero. Quando ce l’ha chiesto, noi abbiamo pensato subito a Stevie Wonder. Anni dopo, navigando su YouTube mi sono imbattuto in qualche video di quell’esibizione e mi sono reso conto che era molto bello, suonavamo bene e ci divertivamo. Così, siamo andati in studio e in circa sei ore abbiamo registrato il disco e adesso siamo in giro a presentarlo in varie città d’Italia con tanta felicità.
Vi siete esibiti in luoghi e contesti variegati: dai jazz club, ai teatri, ai grandi palchi come quello di Sanremo, passando per festival all’aperto del calibro di Umbria Jazz. Quanto influiscono la location e il pubblico sull’esibizione?
F. B.: Dipende dall’attitudine e dallo stato d’animo con cui si sale sul palco e da come si sentono gli altri musicisti: se c’è grande unione e si è sicuri della performance, il pubblico può influire, ma relativamente. Col tempo e con la padronanza del mestiere abbiamo imparato a non farci condizionare troppo. Certo, il tipo di pubblico può influenzare l’esibizione nel caso in cui appartenga a nazionalità e cultura differenti. Per esempio, una volta suonai a Tokio e capii che dal pubblico giapponese non mi sarei potuto aspettare grandi ovazioni. Alla fine, mi chiesero autografi per un’ora e mezza e mi resi conto che, anche se composti e silenziosi, in realtà erano felicissimi. Anche il pubblico della musica classica non è abituato a battere le mani alla fine di un assolo di tromba o di pianoforte. Le prime volte ci rimanevo male, pensando di aver suonato da schifo (ride ndr), per poi essere accolto con sorpresa da sei minuti di applausi ininterrotti alla fine del concerto. Negli ultimi anni le cose sono cambiate: oggi tante rassegne di musica classica inseriscono nella programmazione anche concerti pop o jazz. Di conseguenza, anche il pubblico della musica classica ha cominciato a incuriosirsi verso nuovi generi e a capire che si possono battere le mani dopo un assolo.
J. O. M.: È vero che ci sono delle tipologie di pubblico più predisposte alla classica che al jazz, ma credo che non sia mai giusto attribuirgli la responsabilità della riuscita di un concerto. Se il musicista suona bene o male, non dipende dal pubblico. Tutto ciò che lo spettatore desidera è ascoltare il concerto e, indipendentemente dal contesto, che sia in Giappone o sotto casa, bisogna attribuirgli la stessa importanza.
È appena finita la vostra esibizione sul palco della Audizioni Live di Musicultura. Avete qualche consiglio da dare agli artisti in concorso?
F. B.: Consiglio loro di continuare a studiare musica, di essere il più autosufficienti possibile – per esserlo, saper suonare uno strumento è importante – di essere curiosi, di guardarsi intorno e ascoltare tanta musica. Naturalmente, ognuno percorre la propria strada, però dedicarsi all’ascolto di altri trombettisti, sassofonisti o anche di altri generi come il pop può essere stimolante. Nonostante io sia un musicista jazz, finirei presto le energie e le risorse creative se ascoltassi e suonassi un solo genere di musica. Per questo, mi è sempre piaciuto collaborare e contaminare: sia io che Julian abbiamo calcato palchi differenti, per esempio siamo stati a Sanremo e abbiamo collaborato con molti cantautori bravissimi. Quindi, il consiglio che mi sento di dar loro sì, è questo: studiare – e ascoltare – per diventare dei professionisti. Se c’è la preparazione, tutto il resto si può tirare fuori.