Dagli anni ’90, Mafalda Minnozzi è sempre in movimento. Vanta numerose apparizioni nei più prestigiosi locali newyorchesi, ha concorso al Grammy Latino 2021, ha incontrato e collaborato con i suoi maggiori idoli musicali. Per la 34esima edizione del Festival è a Recanati, in occasione del Concerto dei 16 Finalisti di Musicultura, con il suo complice musicale, Paul Ricci, eclettico chitarrista jazz americano impegnato con lei dal 2014 nel progetto EMPathia duo. Prima dell’esibizione elegante e sobria che i due ci hanno regalato, abbiamo avuto la fortuna di scambiare due parole con Mafalda.
Nel 1996 sei approdata per la prima volta sulla scena musicale brasiliana. Che differenze hai notato, principalmente, tra industria e cultura musicali del Brasile e quelle del Bel Paese?
Ho sempre amato la canzone d’autore e quando sono arrivata in Brasile mi sono trovata subito in un Paese che a sua volta la ama e la rispetta religiosamente. Lì la musica crea un punto di partenza per la vita di tutti, un patrimonio culturale collettivo che è l’essenza assoluta della filosofia di vita del brasiliano. C’è poi il Samba. Non quello che conosciamo tutti per ballare, ma quella maniera di riunirsi e pregare attraverso la musica, da cui parte l’esperienza religiosa collettiva del Carnevale, raccontato da Vinicious de Morais in Samba de Bensao (Samba della benedizione). Nell’industria musicale di un Paese così grande, c’è inoltre una meritocrazia incredibile: iniziare dal Brasile mi ha permesso di vivere la carriera che ho avuto.
Un diverso rumore di fondo (radio che senti per strada, conversazioni, rumori, suoni della quotidianità) rende diverse le tue improvvisazioni sul suolo sudamericano? In che modo?
Da circa 25 anni, vivo tra New York, il Sudamerica, l’Italia e l’Europa, quindi posso dire di muovermi in un paesaggio sonoro fortunatamente variegato. Quello che influenza le mie produzioni artistiche non è però solo il “rumore” di fondo, ma soprattutto le culture con cui mi mescolo, quello che studio in un determinato momento. Un artista non deve mai smettere di imparare, deve essere sempre curioso, e questo mi ha portato a disporre di cinque lingue in cui cantare, tra cui il napoletano: una lingua bella quanto ostica, tanto che per padroneggiarla ho dovuto studiare canto napoletano e vivere quattro anni a Napoli. L’essere un’artista poliglotta rende quindi il mio paesaggio sonoro sempre diverso, unito dal jazz che da sempre mi aiuta a superare ogni barriera linguistica.
Com’è cambiato il tuo sound negli anni, con l’avvicendarsi di nuove “mode” musicali e una straordinaria carriera di incontri di spessore? Cosa pensi che abbia di differente la Mafalda di oggi rispetto a quella di qualche anno fa?
Siamo sempre in continuo mutamento, come artisti e come esseri umani. Per questo a volte soffro quando mi dicono “Ma tu ancora canti? Ancora vai in giro per il mondo?” (ride, ndr). Io credo che si nasca e muoia artisti, e nel mentre c’è solo movimento/cambiamento. Con gli anni insieme alla mia persona sono cambiati i miei orizzonti e i miei sogni, che hanno preso forme diverse. Riguardo alla musica in sé sono cambiata, ad esempio, adattandomi alla nuova tendenza dei cantanti contemporanei di non impostare troppo la voce: nonostante io venga dal “bel canto” fatto di grandi esercizi, ho ora un timbro più naturale e sobrio di anni fa.
Se dovessi scegliere un qualsiasi artista vivente con cui fare una collaborazione, chi pensi che sceglieresti e perché?
Difficile darti questa risposta senza pensare a Lucio Dalla, con il quale avevo un bellissimo rapporto e con cui avrei dovuto fare una collaborazione poco prima che morisse. In campo internazionale ti avrei detto per tutta la vita Roberto Menescal, uno dei padri della Bossa Nova, ma in tempi molto recenti ho coronato il sogno di suonarci assieme. Se invece dovessi scegliere un italiano, darei volentieri fastidio a un grande personaggio ritiratosi dalle scene, nato il 21 settembre come me: Ivano Fossati. Mi presenterei da lui con una torta, dicendogli: “Senti, Ivano, festeggiamo il compleanno suonando qualcosa in pubblico?”.
In questo ultimo anno di ritorno alla normalità dopo il Covid, qual è l’esperienza di live performance che ricordi con più piacere?
Mi basta pensare solo agli ultimi 15 giorni e di occasioni uniche mi vengono in mente il soldout del Bluenote di São Paulo e quello di Monaco di Baviera, o il concerto che abbiamo fatto a Toronto. Non è solo questione di numeri: che ci siano due milioni e mezzo di persone come quando suonai all’Avenida Paulista, o cinquanta, dieci, due persone, l’importante è metterci passione e umiltà, e le emozioni vengono da sé.