Con alle spalle una carriera iniziata da adolescente e culminata con la finale al Fiat Music del teatro Ariston e quella del premio Lunezia, Ilaria Argiolas è tra i finalisti dell’edizione 2023 di Musicultura con il brano Vorrei guaritte io.
Siamo di fronte a una cantautrice verace e sincera, a un’artigiana di stornelli in salsa rock che sul palco, e nella vita, porta sempre, e orgogliosamente, con sé la storia di una borgata, la sua, in cui “la spartizione del niente avvicina le
persone”. Questa l’intervista rilasciata alla redazione di “Sciuscià”.
Hai pubblicato l’ultimo album esclusivamente in formato fisico. Scelta decisamente coraggiosa e controcorrente in un mercato in cui il digitale la fa da padrone. Cosa ti ha spinto in particolare a voler rendere la tua musica un manufatto invece di una stringa di dati?
Quando si fa musica è come quando si fa l’amore: c’è bisogno di ascoltare e di esserci fisicamente. Di toccare. Non ho avuto dubbi sulla scelta di voler lasciare nelle mani di chi ascolta un oggetto tangibile. La musica non può essere
solo un contenuto da consumare, ha bisogno del suo tempo per farsi scoprire e poi amare. Preferisco non dire alle persone di “scaricarmi” sulle piattaforme digitali, è un modo di vedere la cosa che non va d’accordo con il rispetto che meritano la musica e chi la fa. Ovviamente il formato digitale, con i suoi vantaggi e svantaggi, ormai si “mastica”, è il mio pane quotidiano; ma a me la musica piace comprarla, e quando vado a sentire altri artisti emergenti in concerto, se mi piacciono, acquisto il disco.
Hai collaborato con molti grandi artisti, tra cui Vecchioni. Come pensi che questo incontro abbia influenzato il tuo processo di scrittura? Cosa ti ha aiutato a mettere a fuoco del mondo che vedi?
Permettimi una precisazione: non ho ancora potuto incontrare di persona Vecchioni, però ho incontrato la sua musica tramite l’ascolto, sin da piccola, dei suoi testi. Attraverso Mauro Paoluzzi, produttore artistico dell’album M’hanno chiamato Ilaria, ho potuto avere la possibilità di inserire in quel disco un inedito del professore. Ecco, credo che anche questa opportunità mi abbia avvicinato di più alla conoscenza della persona. Sai, ho sempre avuto un amore profondo per i testi delle canzoni e Roberto Vecchioni grazie ai suoi mi ha insegnato la poesia. Quando avrò modo di incontrarlo dal vivo saprò dirti qualcosa in più.
Di solito si associano le grandi città a climi più inclusivi e progressisti e la provincia agli atteggiamenti più tradizionali e intolleranti.
Portando al pubblico il racconto della tua borgata hai sovvertito lo stereotipo, raccontando un luogo in cui diversità e normalità coincidono, e ognuno è unico con le sue caratteristiche. Cosa pensi dovrebbe imparare il mondo di oggi dalla Borgata Finocchio?
Non credo che le grandi città abbiano davvero climi più inclusivi e progressisti. Nella provincia, o nella periferia di una città, è la spartizione del niente ad avvicinare le persone. Altrove, il “soldo” le divide, e si perde il contatto con
la realtà. Questa domanda è la più attuale di tutte, perché dimostra come spesso nelle grandi città un’inclusività fasulla e politicamente corretta sopperisce alle discriminazioni più sottili e materiali, dalle scuole che rimangono senza fondi ai commercianti delle periferie lasciati indietro dall’economia. “Solo che so’ aumentate le case le persone e le opinioni, in mezzo alla confusioni i sogni poi li abbandoni”: lo scrivo in un’altra mia canzone, Le cose più belle. La mia borgata è una delle cose più belle, perché insegna che tutto ciò che è umano non ci è estraneo. Questo lo diceva Terenzio qualche secolo fa, ma la mia borgata lo insegna oggi.
Come classificheresti la tua musica? In quello che fai pensi ci sia più il rock o lo stornello romano? Quale dei due generi musicali ti ha aiutato di più a essere un’artista verace, senza peli sulla lingua?
Rock significa “roccia” e credo che tanto le mie radici quanto lo stornello romano siano molto rock’n roll, dimensione musicale la cui essenza non è solo nelle chitarre elettriche ma in un modo di essere, in un testo e in un contesto anche più amplio della stessa musica. Credo di essere un mix tra queste due cose, un genere nuovo. Classificherei dunque la mia musica con questo termine: “rock romano”. La naturalezza con la quale resto attaccata alle mie radici, quindi al mio rock, mi permette di raccontare con estrema onestà quello che sento e che vedo.
In che circostanze hai conosciuto Red Ronnie? Un personaggio come lui deve averti dispensato qualche consiglio in ambito musicale, per quanto riguarda artisti, album, libri. Ti viene in mente niente in particolare?
Ci siamo incontrati in una circostanza assurda. Mi trovavo con mia moglie a Sanremo nel periodo del festival nel 2018, c’era una fila lunghissima di ragazzi e ragazze davanti alla roulotte del Fiat Music, all’interno della quale Red Ronnie svolgeva delle audizioni. Premetto che non conoscevo Red se non tramite questa frase di mio padre che ripeteva da quando ero bambina: “a te te ce vorrebbe uno come “Er Roscio” che faceva i programmi de musica”. Sono entrata dunque nella roulotte e nonostante mi facesse sentire piccola avere quell’omone gigante affianco, la mia voce andava da sola, così come le mie mani sulla chitarra. Dopo l’ascolto mi invitò la stessa sera a esibirmi sul palco di casa Sanremo; qualche mese dopo mi fece chiamare per la finale del Fiat Music al teatro Ariston. Vi racconto questo perché questa storia inizia con Red Ronnie che ti sprona dicendoti: “Tu canti? Allora canta!”. E non c’è niente di più grande per un emergente di queste parole.
Riguardo le “dritte”, invece, ora che mi ci fai pensare Red non mi ha mai dispensato consigli su album o libri, né che io sappia l’ha fatto con altri artisti, probabilmente per non contaminare l’essenza di chi ha davanti. Lo fa però con il suo pubblico, divulgando, diffondendo musica e artisti di ogni tipo.