Se è vero che la musica è fatta soprattutto di note e strumenti, difficilmente però potremmo immaginare una canzone senza testo, senza parole. E così, a La Controra 2023, arriva anche Yasmina Pani, insegnante di lettere specializzata in Linguistica storica, autrice del saggio Schwa: una soluzione senza problema (2022). All’interno di un dibattito complesso come quello del linguaggio inclusivo e di genere – dibattito che interessa anche la musica e che spesso rischia di appiattirsi su un’unica posizione – Yasmina Pani rappresenta quel rigore scientifico che, a torto, viene scambiato per offesa o insensibilità verso alcune comunità o minoranze. «Il funzionamento della lingua – spiega – segue regole meccaniche e pragmatiche, il tutto per agevolare il più possibile la comunicazione», senza implicazioni sessiste né sentimentalistiche. Prima dell’incontro con il pubblico di Musicultura, Yasmina ha rilasciato quest’intervista alla redazione universitaria di Sciuscià, spaziando dal rap a Giacomo Leopardi.
I tuoi articoli sul web parlano soprattutto di letteratura italiana (da Dante a Pasolini), linguaggio inclusivo, uso e abuso di anglismi nella pratica quotidiana. L’unica traccia di musica è in un breve accenno al mondo del rap. Cosa ci fa, allora, una ‘linguista tascabile’ –così ti autodefinisci – a Musicultura, al Festival della Canzone Popolare e d’Autore?
Sono stata invitata a parlare del mio libro e di linguaggio inclusivo, ma la musica – e Musicultura in primis – ha a che fare con la cultura in generale. Tutto passa attraverso il mezzo linguistico, comprese l’arte e la musica. Credo che le riflessioni sul linguaggio inclusivo, che sono molto diffuse, e quelle sul rispetto del prossimo per non offenderlo riguardino tutto il mondo della produzione culturale, non solo quello linguistico e letterario. Per contrastare l’impoverimento lessicale della lingua italiana dici che dobbiamo cercare tutti di essere dei ‘parlanti attivi’.
A tal proposito, come può contribuire un cantautore o un musicista?
Secondo me i musicisti potrebbero dare un grande contributo, come d’altronde hanno già fatto nella storia, scegliendo quali parole usare, quali messaggi veicolare. Un cantautore ha tantissima libertà, più di quella di un parlante normale nella sua quotidianità, perché può servirsi di un lessico molto variegato. Per esempio un rapper che volesse usare termini poco conosciuti, potrebbe insegnarli ai ragazzi e ai giovani che lo ascoltano attraverso i testi. Quindi per me, nell’arricchimento della lingua, la musica ha un ruolo davvero importante.
Torniamo alla letteratura. Nei tuoi articoli su Leopardi (e non solo), cercando di renderlo più ‘appetibile’ a un pubblico non specialista, mostri quei lati del poeta che a scuola non vengono raccontati. Come si fa a bilanciare questo tentativo di avvicinamento al lettore con la necessità di non decontestualizzare o alterare la sua poetica?
In realtà è piuttosto facile: lascio che sia Leopardi a parlare attraverso i suoi testi. Ciò che dico su di lui, e su tutti gli altri di cui parlo, si trova nelle loro opere. A scuola, in primis, si deve insegnare la lettura del testo. Non bisogna mettere in bocca all’autore cose che non ha mai detto, ma semplicemente guidare lo studente nella lettura, in particolare aiutandolo a contestualizzare il tutto nell’epoca di riferimento. Proprio Leopardi, se letto col linguaggio di oggi, può essere facilmente frainteso. Dal mio punto di vista è molto più semplice avvicinare gli studenti ai poeti, piuttosto che rendere i poeti noiosi. Mi spiego meglio: se lascio che il testo parli da solo, è più probabile che lo studente poi apprezzi il poeta, mentre se di lui do già un’interpretazione senza aver fatto leggere l’opera, ecco che gli studenti si allontanano.
Contestualizzare il problema del genere grammaticale inclusivo, dargli delle coordinate scientifiche è proprio l’obiettivo del tuo libro. Nel dibattito sul tema, però, la tua sembra una posizione controcorrente, nonostante la sua scientificità. Da dove deriva tutta questa difficoltà, da parte dell’opinione pubblica, nel separare il genere linguistico da quello biologico, la natura convenzionale della lingua dai problemi sociali ed educativi?
Secondo me deriva dal fatto che molte persone sono convinte di conoscere il funzionamento della lingua in quanto parlanti. Un po’ come credere di essere cardiologi perché abbiamo il cuore. La lingua, invece, è complessa e se non la si è studiata da un punto di vista scientifico è impossibile conoscerne le specificità; in questo caso possiamo solo usarla. Oltretutto, quando si parla di lingua attraverso i media più famosi, non se ne parla sul piano scientifico ma in modo molto romanzato, senza informazioni tecniche né sostanza. Ecco che allora il parlante medio, non avendo una formazione ad hoc e fidandosi di chi sente più spesso, ascolta solo una campana, solo una versione dei fatti. La mia, peraltro, è mediaticamente poco risonante. Le persone sanno quello che gli viene detto e non possono essererimproverate per questo.
Nel corso degli anni hai scritto anche delle poesie. Rappresentano semplicemente un lato del tuo essere linguista o con la poesia cerchi qualcos’altro?
Le ho scritte in momenti non particolarmente favorevoli o belli, allora rappresentavano più che altro una forma di evasione. Ho sempre cercato la consolazione nella letteratura: in modo passivo attraverso la lettura o attivamente con la scrittura. Sono poesie molto personali, ma anche in esse c’è una sorta di ricerca linguistica, magari nel desiderio di voler usare parole poco note o cercando di sfruttare quelle potenzialità del linguaggio che nella quotidianità non trovano posto.