“Quello che mi addolora è quando non mi sento in armonia”: recita così un pezzo de Il Cielo, canzone con cui Eugenio Sournia si è aggiudicato un posto tra i 18 finalisti di Musicultura 2024. Ma di armonia nelle risposte che ha dato a questa intervista sembra essercene molta. E pure di bellezza, che è principio da cui (ri)partire. Tra esperienze passate e stranezze adolescenziali, il passaggio da una band a un progetto da solista, le sfide presenti e la musica che porta all’accettazione di sé, questo il racconto che l’artista fa di sé alla redazione di Sciuscià.
Proviamo a cominciare collegando passato e presente: hai poco più di trent’anni, ma hai iniziato a scrivere canzoni sin da giovanissimo, quand’eri ancora un adolescente. C’è ancora qualcosa – nei testi, nelle scelte lessicali, nell’approccio alla scrittura, nelle sonorità – dell’Eugenio Sournia di allora?
C’è paradossalmente più dell’Eugenio di allora adesso che qualche anno fa. Negli anni tra i miei venti e i miei trenta ho cercato progressivamente di limare tutte quelle parti della mia scrittura che potessero risultare fuori luogo in una proposta pop; il risultato è stato che con il passare del tempo ho finito per perdere qualcosa anche della mia essenza, nel tentativo di arrivare a tutti. La pandemia è stata per me l’occasione per accorgermi di questo e cercare di ripartire; una sorta di nuovo inizio nel quale ho dovuto riallacciare il filo con il me adolescente e incontaminato, ma con le inevitabili differenze dovute all’essere un uomo di trent’anni. Mi sono accorto che da ragazzo scrivevo in maniera molto aulica e ampollosa; certo era un modo per mettersi una maschera, ma credo ci fosse da apprezzare la notevole noncuranza con cui cercavo di fare una cosa bella a prescindere da ogni risvolto commerciale che la mia musica potesse avere: direi che riparto da questo principio.
Veniamo a oggi: proponi la tua musica da solista dopo esser stato frontman di una band indie-rock. Com’è approcciare “in solitaria” al palco, più nello specifico al palco di Musicultura?
Quando si è alle prime armi il rumore e la compagnia sono i migliori alleati. Nei primi anni ’10 suonare in un gruppo era molto più comune, e penso che sia senz’altro più semplice trovare il coraggio di salire su un palco se accompagnati da altre persone che, tendenzialmente, fanno “casino” e coprono con il caos eventuali errori. Salire sul palco in un set più intimo — nel mio caso, con un violinista — è senza dubbio una sfida, ma con l’abitudine ci si rende conto di quanto lo spazio e il silenzio che si creano sulla scena in questo modo possano essere un’opportunità e non un limite. È come se ogni gesto, ogni parola, ogni nota, acquisissero ancora più gravità e significato, e questo mi spaventa ma mi elettrizza. Il palco di Musicultura, dotato di una sua solennità, non ha fatto altro che amplificare questa sensazione.
Il brano Il cielo è quello scelto appunto da Musicultura per questa tua esperienza tra i finalisti del Festival. È una storia di dolore, di emarginazione; è anche una richiesta d’aiuto: “Accetta un po’ di me”, recita a un certo punto. Che ruolo può avere la musica, sia per chi la fa che per chi la ascolta, nell’ambito di un percorso di accettazione di sé?
Quando ero adolescente avevo molte stranezze, ma non stranezze “cool”. Arrivai al liceo che andavo alla Messa in latino, mi vestiva mia madre e la mia idea di sabato pomeriggio era leggere libri sulle grandi battaglie dell’impero bizantino. Quando a sedici anni scoprii la musica rock, mi dette una scusa per prendere le mie bizzarrie e farne un punto di forza: credo sia una storia comune a molti, anche se le mie, di stranezze, erano particolarmente fuori moda. Con gli anni quella storia, la mia, l’ho imparata a memoria e l’ho narrata un po’ in tutte le salse; credo sia arrivato il momento per me di staccarmi da me stesso e provare a scrivere di altro e di altri, per non cadere nella ripetizione ma anche perché mi sono anche un po’ stancato del personaggio che ho creato per me medesimo.
Durante le Audizioni Live, intervistato dalla giuria del Festival, hai posto l’accento sul tema della salute mentale, sull’importanza di non trascurarla, sulla necessità di affrontarla, di raccontarla. E di nuovo la musica sembra giocare un ruolo fondamentale, quasi come fosse un megafono per amplificare argomenti di cui spesso si parla ancora a bassa voce…
Credo che l’anima vada nutrita allo stesso modo in cui si nutre il corpo. La musica può essere una fonte di bellezza senza pari, perché ha dalla sua l’unione di un contenuto descrittivo, narrativo — le parole — e di una parte per sua natura ineffabile come la melodia. Il mondo moderno sembra invece progettato per renderci difficile accedere alla bellezza, non tanto perché essa non sia raggiungibile, ma perché siamo bombardati costantemente del suo opposto. La bellezza per sua natura ha bisogno di silenzio, ciò che è sempre più difficile ottenere, specialmente a livello interiore. Trovo che la musica possa fare molto proprio, paradossalmente, per permetterci di ottenere questo silenzio, e di conservarlo.
Il tuo nuovo EP si intitola Eugenio Sournia. Perché la scelta di dargli il tuo nome? È uno specchio, una confessione, un racconto così privato da rendere impossibile l’impresa di scinderlo da chi lo ha scritto?
A dire la verità avrei voluto chiamare questa raccolta di canzoni Il dolore è una porta, come uno dei pezzi che la compongono; tuttavia, credo che il tema della sofferenza e di come essa possa essere usata per raggiungere la bellezza sia già di per sé evidente. Intitolare il disco Eugenio Sournia, metterci del tutto la faccia, penso possa essere un modo per far vedere che si tratta di qualcosa di estremamente sincero. Spesso la sincerità è la qualità minima che si riconosce a lavori che non hanno altri pregi, ma per me era davvero il fondamento da cui ripartire; ognuno di questi brani segna un punto centrale nel mio pensiero, e Il cielo ne rappresenta forse la parte più arresa, in cui tutte le difese cadono e ci si presenta all’altro in tutta la propria nudità.