Giovane cantautrice, classe ’94, con la sua terra d’origine – la Sardegna – sempre nel cuore, Bianca Frau non ha paura di affrontare nuove esperienze, nuove città e progetti musicali che la facciano crescere e migliorare. Del resto, “Scrivere canzoni mi dà la possibilità di esprimere quello che di più intimo c’è in me, senza nascondermi dietro false parole”, svela in questa intervista rilasciata alla nostra redazione.
Bianca Frau, artista sarda trapiantata a Bruxelles: quanto della tua terra d’origine c’è nelle tue canzoni e cosa ha significato allontanarsene e volgere lo sguardo verso una realtà completamente diversa?
Attualmente, in questo progetto che sto sviluppando in collaborazione con il produttore francese Jean Prat, l’unica cosa che potrete avvertire sulle le mie origini sarde è la mia voce. Ho deciso di partire per pura curiosità e con la voglia di crescere e apprendere tutto quello che l’opportunità di vivere all’estero può offrire. La Sardegna è sempre nel mio cuore, ma per ora ho messo da parte i progetti musicali che riguardavano la mia terra per concentrarmi a pieno su questa nuova esperienza.
Cosa resta è uno dei due pezzi in cui ti sei esibita durante le Audizioni Live di Musicultura. Il suo testo recita: “Forse è più semplice cantare il mio stato mentale che doverti dire parole, frasi disconnesse, senza senso, perdo il perché”. In un mondo in cui è sempre più difficile dare voce ai propri pensieri, soprattutto a quelli più intimi, quanto è importante per te riuscire a esprimerti? E quanto lo è evitando di perdere il perché?
Penso che poter esprimere i miei pensieri e le mie emozioni sia un bisogno vitale che a volte è censurato a seconda dell’interlocutore che ho davanti. Scrivere canzoni mi dà la possibilità di esprimere quello che di più intimo c’è in me, senza nascondermi dietro false parole perdendo, appunto, il “perché”. In quel momento il solo interlocutore sono io. Quando faccio ascoltare i miei pezzi, mi metto a nudo con la speranza che tutto ciò possa scatenare conforto, empatia e solidarietà collettiva.
Il brano che Musicultura ha scelto selezionandoti tra i finalisti della sua XXXV edizione, invece, è Va tutto bene, titolo che, a guardarlo ora, suona un po’ come un buon auspicio, visto che ti ha consentito di proseguire il tuo percorso al Festival. Ecco, cos’è che ti porta, nella quotidianità, a dire che va tutto bene? Cosa, per te, ha il sapore rasserenante di un buon auspicio?
Dico sempre che va tutto bene semplicemente per il timore di far pesare i miei problemi sugli altri. È più facile dire che va tutto bene piuttosto che dover spiegare cosa sta succedendo nella nostra vita. Tante volte ce ne convinciamo, trasformando il convenevole in un buon auspicio per noi stessi.
Nel 2019 hai conseguito il diploma di primo livello in Canto jazz al Conservatorio di Sassari. Quanto questo genere musicale influenza la tua produzione artistica? Cosa pensi ci sia di jazz, inteso anche come emblema di improvvisazione, nei tuoi brani?
Il jazz influenza le mie composizioni più sul piano armonico e in termini di arrangiamento. Sicuramente c’è sempre qualche cellula melodica o ritmica che può far pensare al jazz, ma non è fatto consapevolmente. A livello melodico e strutturale rimango legata alla forma pop, che ho sempre amato anche durante la mia formazione jazz.
Torniamo a oggi; torniamo a Musicultura e salutiamoci così: dicci perché hai scelto di fare questa esperienza e cosa si prova a leggere il proprio nome tra quello dei 18 finalisti.
Ho scelto di fare questa esperienza per mettermi sicuramente alla prova e rimpiango di non averlo fatto prima, in quanto le audizioni hanno fatto riaccendere in me un fuoco che forse si era spento da tempo. Quando mi è stato detto che ero tra i 18 finalisti è stato molto emozionante.