«Alec Temple se ne frega, guarda il cielo» e canta la sua “Cenere”

La redazione Sciuscià intervista i finalisti di Musicultura 2024

“Solo le briciole e un sole che non scalda più”: ecco un estratto di Cenere, brano con cui Alec Temple è alle finali di Musicultura 2024. Nelle risposte che dà a questa intervista, però, sembra che il sole ancora scaldi molto e che le briciole diventino sempre più numerose, fino a poter sfamare. L’incontro con Michela Murgia, Cremona e il resto del mondo, sogni e desideri, la sinergia dei suoi processi creativi: ecco come si racconta l’artista alla redazione “Sciuscià”.

Sul palco delle Audizioni Live hai spiegato che il tuo nome d’arte nasce dall’ascolto di un podcast di Michela Murgia, che hai avuto l’occasione di incontrare. In che circostanza vi siete conosciuti e in cosa ti ha ispirato?

Era in visita a Bologna in occasione di un festival quando ancora studiavo lì. Sono sempre stato un suo grande ammiratore, così le scrissi su Instagram se avesse voglia di prendersi un caffè con me. Mi ha invitato a fare colazione e ci siamo ritrovati a costruire mondi. A lei devo molto, al di là dell’ispirazione per il mio nome d’arte. Sento che mi guida ancora in mezzo alle domande di tutti i giorni e mi ricorda la bellezza della complessità. È in tutta la mia musica, come tutte le persone speciali della mia vita.

Vieni da Cremona, la città più inquinata d’Europa, come leggiamo nella tua biografia: quanto ha influito questo scenario nella tua produzione artistica?

Cremona per me rappresenta un grande paradosso. Mi manca quando ci sto lontano e inizio a odiarla quando ci rimango per più di tre giorni. Il luogo dove nasci ti contamina, e non puoi levartelo di dosso. E a volte, al di là del primato reale per la scarsa qualità dell’aria, questo luogo ti inquina l’anima, ti rallenta, ti priva di una visione d’insieme. Solo andando via da lì ho capito che, in fondo, ha anche un carattere buono e protettivo. La mia musica nasce lì, nello studio del mio producer VAGO XVII, e se l’ispirazione è anche una questione di geografia, lì ce n’è tanta.

Nel brano Cenere, selezionato per il concerto dei finalisti di Musicultura 2024, racconti del dolore vissuto da una tua cara amica. Pensi che la musica sia un canale efficace per empatizzare con le emozioni altrui? Come sei riuscito a trovare le parole giuste per raccontare qualcosa che non ti ha toccato in prima persona?

Penso che la musica sia semplicemente uno dei tanti linguaggi per entrare in contatto con la propria profondità e con quella degli altri. Quando vedo la gioia, la tristezza, la noia dentro di me o negli occhi di qualcuno, il mio cervello inizia subito a sintetizzare le informazioni emotive in una melodia, in una strofa. In questo caso ho visto un’impotenza e una disperazione che mi hanno letteralmente trafitto. Così è arrivata Cenere; volevo un brano osseo, una produzione essenziale, che lasciasse spazio al grido della voce.

Passiamo, invece, ai brani autobiografici e al loro processo di scrittura. Come traduci in musica le tue esperienze personali, le tue emozioni, la tua storia?

Quando il ragazzo di turno mi lascia, il mio produttore VAGO XVII si strofina le mani e mi aspetta in studio. Scherzi a parte, da tre anni a questa parte le canzoni sono diventate il mio diario di bordo, una linea del tempo con tutti i momenti salienti di quello che vivo. Il processo creativo solitamente è sinergico: le parole arrivano insieme ai primi accordi, ai primi suoni; vedo le mie canzoni come esseri viventi che crescono piano, ricordi che diventano via via più vividi.

Hai definito la tua anima come priva di doveri e custode di tutti i tuoi sogni; quali sono questi sogni? 

Alec Temple non è solo il mio nome d’arte; è anche tutto ciò che voglio essere. Alessandro è una persona che si sente in colpa se a fine giornata non ha fatto abbastanza, è la parte di me che ascolta la mamma quando dice che una sedia calda in ufficio bisogna tenersela stretta. Alec Temple se ne frega, guarda il cielo, fa quello che vuole, sogna di poter passare più tempo possibile sul palco. È l’alter ego che mi ha salvato dalla monotonia; per questo, ora, sento di volermi prendere cura di lui e farlo cantare più forte che mai.