Sembra correre in equilibrio su due binari la vita di Emiliano Porcellini, in arte PORCE: è un tecnico informatico, ma da qualche anno ha intrapreso la strada del cantautorato. Complici la pandemia e la nascita di sua figlia, ha riscoperto la passione per la musica e ha iniziato a dedicarsi alla scrittura delle sue canzoni, tra le quali La fine della festa, brano grazie al quale è tra i finalisti di Musicultura 2024. Quello del Festival è il suo primo palco; lo condivide con due musicisti incontrati per caso, che pur appartenendo a una generazione diversa “parlano la sua stessa lingua”. Di tutto questo ci racconta nell’intervista rilasciata alla redazione “Sciuscià”.
Sei un tecnico informatico e la tua esperienza artistica è nata di recente, durante i periodi di lockdown: è allora che hai scelto di dedicarti di nuovo agli strumenti musicali che tanto ti avevano appassionato da piccolo; è allora che hai cominciato anche a scrivere canzoni. È stata solo una questione di maggior tempo a disposizione o è un’altra la molla che è scattata?
Il sovrapporsi di due circostanze particolari, ovvero la nascita di mia figlia Eva Luna e l’arrivo del Covid, mi ha obbligato a rimanere per molto tempo tra le mura di casa, dandomi la possibilità di riscoprire una passione mai sopita a cui potermi dedicare senza orari. Questo mi ha permesso dapprima, con un po’ di fatica, di riordinare le idee per capire cosa fare, successivamente di dedicarmi alla scrittura di testi e musiche, che a volte erano solo delle bozze, ma che spesso prendevano la forma completa di una canzone. La sorpresa e la soddisfazione di vedere appunto che i pezzi che si completavano mi hanno dato l’impulso per insistere e proseguire. Il fatto che – non sempre, alcune volte – c’erano delle canzoni che nascevano e si completavano in una sola sera mi ha fatto riflettere ed è stata probabilmente la vera molla che è scattata. In ogni caso, in quel periodo non pensavo minimamente che avrei potuto suonarle e cantarle io.
Musicultura è la tua prima esperienza su un palco; cosa significa approcciare a un contesto come quello del festival e perché hai scelto di partecipare?
Ho scelto di partecipare perché volevo avere un confronto esterno per capire se quello che stavo facendo poteva avere un significato anche per altri e non solo per me. Musicultura mi è sembrata subito un’occasione da non perdere e senza pensarci più di tanto mi sono detto: “Perché no?”.
Ancora a proposito di palco: i musicisti con cui lo condividi sono molto più giovani di te. Come vi siete conosciuti, cosa vi ha portati a decidere di percorrere questo pezzo di strada insieme e qual è il rapporto che lega due generazioni diverse?
Ci siamo incontrati una prima volta casualmente nel luogo in cui lavoro per la riparazione di un computer che aveva come sfondo del desktop una loro foto mentre suonavano e ne abbiamo parlato. Quando, tempo dopo, il caso li ha fatti tornare una seconda volta, ho preso l’iniziativa e abbiamo iniziato a vederci in una sala prove nella via accanto per cercare di dare forma alle mie canzoni. Probabilmente ci lega la passione per un certo tipo di musica che attraversa il rock, il jazz e la musica sinfonica e che paradossalmente non c’entra molto con le canzoni che proviamo a costruire. Anche se apparteniamo a due generazioni diverse, mi sembra che parliamo la stessa lingua. Mi ritengo molto fortunato ad avere incontrato dei ragazzi che oggettivamente sono musicalmente molto più avanti rispetto alla loro età anagrafica.
In La fine della festa, brano con cui sei in concorso a Musicultura, scrivi: “Sono l’angelo dei ricordi, ma solo di quelli che fanno male”. Perché questa scelta? È qualcosa di autobiografico che spinge ad abbandonarsi a memorie che feriscono o questa frase sottende altro?
Il brano La fine della festa è caratterizzato da frasi il cui soggetto è la guerra in senso lato.
Ognuna di queste dà vita a un’immagine che prende senso dalle rappresentazioni che il mio vissuto ha conservato di questa specie di calamità che attraversa la storia dell’uomo. Solo a tal proposito si può dire che il testo conserva qualcosa di autobiografico, non per esperienza diretta, ma per conoscenza mediata dei fatti accaduti nel passato e che anche oggi si ripetono, cercando di lasciare comunque una certa libertà di interpretazione all’ascoltatore. Per esempio, la frase “Sono il ghigno del lupo appena dentro all’ovile” fa riferimento specifico all’agghiacciante dichiarazione di Joseph Goebbels al primo ingresso, nel 1928, dei nazisti in parlamento, “Stiamo entrando come lupi nell’ovile”, ma funziona comunque anche se interpretata letteralmente. Che “la guerra” sia il fulcro su cui poggia tutto il testo viene suggerito alla fine del brano, nel rimando a La guerra di Piero, in cui i “papaveri rossi” si trasformano senza veli in “cadaveri rossi”.
Stai lavorando a un progetto che uscirà quest’estate: cosa dobbiamo aspettarci?
Al momento non ho ancora modo di rispondere compiutamente a questa domanda; spero solo di riuscire a pubblicare sulle principali piattaforme alcune canzoni, ovvero un mix di pezzi cantautorali e di brani pop rock un po’ più leggeri, e di proseguire con una certa regolarità a pubblicarne di nuovi.