Un nome (e un cognome) che ne racchiude quattro: i Dena Barrett sono Tommaso, Elia, Michel e Marco, quattro ragazzi di Viareggio, figli degli anni ’90, uniti dalla passione per la musica e dall’esigenza di far sentire la propria voce. Così nasce la loro band che – muovendosi tra sonorità dark pop e indie rock, arricchite da echi cantautoriali – dimostra di avere tanto da dire già nel suo disco d’esordio, Immobili a ballare, espressione delle dinamiche di una generazione che non può, e non vuole, più stare in silenzio: precarietà e vita di provincia, senso di oppressione e di inadeguatezza, lavoro e alienazione, aspettative e tempistiche da rispettare sono solo alcuni dei temi di cui si fa portavoce questo progetto. Si aggiudicano un posto tra i finalisti di Musicultura con la loro Halloween; a spaventare, però, non sono i travestimenti horror – no, neanche quelli da fantasmi di Ghostbusters (da cui il nome della band) – ma una società che sembra pretendere sempre di più, schiacciando qualsiasi libertà. Come spiegano alla redazione di “Sciuscià”, la loro risposta è un elogio all’errore e all’imperfezione. In un mondo che si muove sempre più veloce, la loro protesta è quella di permettersi di restare fermi; e, infatti, alle feste non ballano.
Per cominciare, parliamo della vostra storia. Come nascono i Dena Barrett e come siete riusciti a conciliare le vostre precedenti esperienze artistiche personali, soprattutto in un anno difficile come il 2020?
Nonostante tutto quello che stava accadendo nel mondo, per noi è stato facile iniziare a scrivere musica insieme: i nostri percorsi precedenti con altre band ci hanno portato a frequentare gli stessi ambienti della realtà viareggina, quindi ci conoscevamo già tutti e quattro; ci piaceva quello che facevamo divisi e così abbiamo deciso di unirci. Il fatto di aver avuto esperienze diverse ci ha dato molti spunti creativi e allo stesso tempo ci ha spinti a ricercare un sound e una poetica che fosse più nostra e identitaria possibile: speriamo di esserci riusciti.
Immobili a ballare è il vostro disco di esordio. Il titolo è un ossimoro che sembra voler sintetizzare la difficoltà-necessità di esprimersi e il senso di inadeguatezza che fa da sfondo a tutti i nove brani. È così? Ci parlate di questo album?
È proprio così. Con questi nove brani abbiamo voluto raccontare il nostro punto di vista: quello di quattro ragazzi figli degli anni ’90 un po’ incazzati e un po’ disillusi; quelli della generazione che, citando Alberto Ravasio, “da bambini ci hanno ingrassati di desideri. E quando poi siamo cresciuti, c’hanno detto che erano finiti i soldi”. Per questo, sentirsi inadeguati in questo tipo di società, forse, è una naturale conseguenza. In questo disco ci sono le dinamiche umane che ci fanno scervellare quotidianamente, dal rapporto con l’altro alla condizione di individui che cercano un loro posto nel mondo, lavorativo o esistenziale che sia. Canzoni che sono piccole cose nostre ma, forse, anche di altre persone.
“Nascendo in provincia si vive con un elastico legato al cuore, più provi ad andare lontano e più ti tiene qui”, si legge nel testo di Clara. La provincia, dunque, è un punto di partenza da tenere saldo o qualcosa da cui evadere?
Questa è una domanda che ci coinvolge molto. Probabilmente per chi nasce e cresce in provincia arriva sempre un momento in cui ti chiedi: “Ma io voglio vivere tutta la vita qui?”. A noi è successo e chissà, magari succederà di nuovo. Io (Tommaso) ed Elia (chitarrista) ci siamo trasferiti per un anno rispettivamente a Torino e a Milano; come diciamo dalle nostre parti, ci siamo rigirati presto. Vuoi per un motivo, vuoi per un altro, ma ad incedere è stata anche la nostalgia, è stato quell’elastico di cui parliamo che in qualche modo ti porta a tornare al punto di partenza. Vivere in provincia è quella cosa che ti fa sentire un po’ indietro rispetto a quelli che vivono in città -forse questo è un dato di fatto abbastanza scontato- e, per recuperare questo gap, la soluzione più naturale sembrerebbe quella di andarsene. A noi è servito a poco, ma invidiamo molto chi ci riesce.
Il brano selezionato per il Concerto dei finalisti, Halloween, esprime il disagio di una generazione rinchiusa in vincoli e sovrastrutture sociali, alla ricerca di un “elemento anarchico” per liberarsene. Credete di poterlo trovare qui a Musicultura? Cosa vi aspettate da questa esperienza?
Il fatto che Musicultura sia un festival che difende e porta (in) avanti la musica d’autore -ascoltando ciò che arriva dall’industria musicale mainstream- forse rappresenta già di per sé un elemento anarchico. Essere arrivati fino a qui per noi è bellissimo. Abbiamo tante cose da dire e poterlo fare in un contesto del genere è molto importante e gratificante.
“In ritardo da sempre per sentirsi vivi/col rischio di arrivare sempre ultimo, ma a me piace restare e sentirmi l’ultimo” è una affermazione, contenuta proprio in Halloween, che mi ha colpito; cosa volete dire? Forse che il percorso è più importante dell’arrivo?
Per noi quella frase è un elogio all’imperfezione. In un sistema che ci vuole sempre performanti, sempre al passo con i trend del momento, produttivi e consumatori, in cui si dedicano sempre più articoli a persone – solitamente privilegiate – che raggiungono obiettivi impossibili per i più, generando in questi ultimi maggiore ansia, crediamo che essere sbagliati sia anche un piccolo atto di resistenza e un motivo d’orgoglio. Quindi, volevamo dire che sentirsi inadeguati, a volte, ci fa anche piacere.