“Il tipo di televisione che facevamo era così innovativo che è rimasto inciso nel cuore delle persone”: in effetti, Aurelio Ponzoni, in arte Cochi, è una figura emblematica dello spettacolo italiano, celebre per il suo lavoro come attore, sceneggiatore e comico. In coppia con Renato Pozzetto nel duo “Cochi e Renato”, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della comicità italiana. Ospite di Musicultura 2024, intervistato dal giornalista e conduttore radiofonico John Vignola nell’ambito dell’incontro dedicato al suo libro La versione di Cochi, pubblicato lo scorso autunno, ha raccontato al pubblico de La Controra la sua vita, la sua carriera artistica, il suo modo di fare spettacolo. E lo ha fatto anche con noi della redazione di Sciuscià in questa intervista.
Lei ha avuto una carriera molto diversificata, che include teatro, cinema, televisione e musica. C’è un progetto a cui è particolarmente legato e che considera il più rappresentativo del suo percorso artistico?
Quello che mi ha dato la notorietà è stato il cabaret. Il mio debutto professionale è stato nel ’64, quando ho iniziato a fare il primo cabaret con Bruno Lauzi, il mio amico Renato Pozzetto, Felice Andreasi e Lino Toffolo; da lì abbiamo cominciato a vivere di questo lavoro. Quel periodo, fino al ’74, è stato quello che più mi ha formato dal punto di vista professionale, però la mia vera passione è sempre stata il teatro di prosa, che purtroppo ho abbandonato, chiaramente per “ragioni cabarettistiche”, chiamiamole così.
Il suo libro La versione di Cochi non è solo una raccolta di ricordi, ma anche una riflessione sul mondo dello spettacolo. Come vede il cambiamento della comicità italiana dagli inizi della sua carriera a oggi?
Il linguaggio della comicità, del sarcasmo, è sempre legato alla società del momento. Quando facevo cabaret c’era una realtà sociale, politica, anche economica, di un certo livello. C’era un grande fermento culturale in quegli anni, soprattutto al finire della Seconda Guerra Mondiale, quando noi eravamo ancora ragazzi: era un momento particolarmente significativo per tutto quello che riguardava la nostra crescita, determinata soprattutto da incontri importanti che abbiamo avuto con altri artisti, come Iannacci e Dario Fo, ma anche con intellettuali dell’epoca, tra cui Dino Buzzati e Umberto Eco, insomma personaggi che hanno cominciato a considerarci dei possibili professionisti e ci hanno dato anche il coraggio di continuare a fare questo mestiere.
Nel libro parla anche del suo ruolo in film come Cuore di cane e I telefoni bianchi. Come ha affrontato la transizione dalla televisione al cinema e quali sono state le principali sfide che ha incontrato?
Rifacendo le cose che facevamo dal vivo, in un ambiente asettico tipico della televisione, per noi era molto più facile che fare cabaret. Non c’è stato un trauma, anzi, era una passeggiata. Il cinema riguarda, invece, un altro tipo di lavoro che richiede una concentrazione importantissima. Devi ricordare tre cose: quello che devi dire, le battute che devi fare e dove sei a fuoco. Devi, inoltre, ricordarti anche il tipo di espressività che usi, perché se c’è un primo piano devi stare attento a non esagerare con le espressioni facciali.
Televisione, ancora. Parliamo del programma Il poeta e il contadino. Qual è il ricordo più bello che ha di quell’esperienza e come ha influenzato il suo percorso artistico?
L’esperienza è stata molto divertente e interessante perché era un programma che abbiamo inventato io e Renato, dall’inizio alla fine, con l’aiuto di Enzo Iannacci, che curava la parte musicale. È stato per noi un modo di esprimerci liberamente, usando il nostro linguaggio peculiare, mantenendo le caratteristiche originali del nostro lavoro.
Il suo rapporto con Renato Pozzetto, appunto, è stato fondamentale. Come descriverebbe l’evoluzione della vostra collaborazione artistica nel corso degli anni?
Io e Renato siamo cresciuti insieme da bambini e avevamo sempre questa voglia di giocare con le parole e con la musica; infatti, da piccoli avevamo due chitarre e cantavamo canzoni anarchiche, politiche o popolari. Abbiamo cominciato così, esibendoci nelle osterie di Milano del dopoguerra. Quella che poi aprimmo insieme si chiamava L’Oca d’Oro; ci giravano personaggi e intellettuali del momento che ci hanno preso sotto la loro ala protettiva e ci hanno infuso fiducia per continuare questa professione.
Proprio insieme a Pozzetto ha presentato al grande pubblico alcuni brani – pensiamo a Canzone intelligente, per citarne una sola – che fanno parte ancora oggi, e a pieno titolo, dell’antologia della musica italiana. Ma sotto il palco, lontano delle scene, qual è il suo rapporto con la musica? Cosa ascolta Cochi tra le mura domestiche?
Io? Che tipo di musica? Beh, ascolto musica classica, mi piace moltissimo la musica brasiliana e fin da ragazzino ho sempre avuto una grande passione per il jazz. Attualmente mi esibisco in degli spettacoli con un quintetto di jazzisti, dove racconto la vita di Charlie Parker mentre i miei amici musicisti eseguono i suoi brani. Ebbene sì, quindi: il mio rapporto con la musica è molto stretto.