Per descrivere Enzo Avitabile e la sua incredibile carriera servirebbero molte, molte parole. Ma noi scegliamo le tre che ci sembrano più rappresentative: dialetto, sassofono e ritmo. Ospite della serata finale di Musicultura 2024, l’artista napoletano ha coinvolto il pubblico con una performance ricca di un’energia che, come sempre accade con lui, sa trasformarsi da carezza che rasserena a onda che travolge.
Maronna Nera, Don Salvato’, Tutt’egual song’ ’e criature, Thalassa cardia, Aizamm na’mana e Salvamm o munno, questi i brani che ha eseguito sul palco dello Sferisterio. E in qualche maniera Avitabile il mondo lo ha salvato davvero, con la speranza di cui la sua musica si è sempre fatta veicolo. Anche per questo, Musicultura ha deciso di omaggiarlo con un riconoscimento: la Targa agli alti Meriti artistici a – questa la motivazione del premio – un “cantore dell’anima, poeta generoso, che ha forgiato uno stile dove sacro e profano, storia e quotidianità si fondono in una visione”. Visione che ha sempre puntato, lo afferma sul palco Avitabile stesso, a “conoscere quante più possibili culture musicali”. Anche quelle dei cantautori più giovani, perché ormai da anni è membro del Comitato artistico di Garanzia di Musicultura.
Prima della sua esibizione, ha rilasciato alla redazione di Sciuscià quest’intervista, che parte inevitabilmente da lì, le origini. Dalla città di Partenope, il luogo da cui tutto parte e a cui tutto torna.
Una costante nella sua carriera, e nella sua vita, è Napoli, del cui dialetto sono intrisi i testi delle sue canzoni, che fa da sfondo anche a molti film e documentari per cui ha composto le colonne sonore, tra cui Passione, del regista americano John Turturro. Quali sono i valori che più la legano a questa città? Che immagine ne vuole far trasparire attraverso la sua musica?
Napoli è la casa madre, è il luogo da cui si parte e a cui si torna. E non ha bisogno di me per trasferire la sua immagine, perché la sua storia e la sua identità sono chiare: è profondamente autentica, ed è questo il valore che più voglio rappresentare. Quanto al film di John Turturro, l’idea nasce traendo spunto da un altro regista, Jonathan Demme, che realizzò una pellicola sulla mia vita e la mia musica, Enzo Avitabile Music Life. Di lì l’interesse di Turturro, con il quale poi sono finito a collaborare per il documentario musicale Passione. Mi piace lavorare con i registi; per esempio, anche in Parthenope, di Paolo Sorrentino, ho collaborato a due brani strumentali: comporre per il cinema è una sfida che accetto sempre.
Tra le varie canzoni del suo album Easy, pubblicato nel 1994, è presente A livella, trasposizione in musica della poesia di Totò. Secondo lei, cos’hanno in comune poesia e musica? Come mai ha scelto questo titolo in particolare?
Più che usare i termini “poesia” e “musica”, sceglierei “parole” e “suoni”, proprio perché la parola diventa suono. Insieme, questi due elementi creano quell’effetto emozionante che riesce ad andare da cuore a cuore e a superare la retorica. Per quanto riguarda A livella, invece, l’ho scelta per il messaggio che il grande Totò ha voluto lasciarci, che deve essere riconosciuto e ricordato da tutti, nel tempo e nello spazio: la morte rende tutti uguali.
Nel corso della sua carriera ha avuto modo di collaborare non solo con diversi artisti italiani, tra cui Edoardo Bennato e Pino Daniele, ma anche con grandi artisti internazionali come Richie Havens, James Brown, Tina Turner e molti altri, sperimentando così diversi generi. Quanto è importante la dimensione della condivisione e della collettività nel fare musica?
Ho suonato con tutti i più importanti artisti della world music, della soul music e poi, in un processo di “disamericanizzazione” del linguaggio, ho collaborato con grandi cantautori della musica italiana. Penso che la condivisione e la collettività nella musica siano molto importanti, perché ogni artista ha uno stile e un genere che lo contraddistinguono dagli altri, e quando vari generi e stili riescono a unirsi tra loro può venir fuori qualcosa di davvero bello e innovativo.
Nel 2009 ha pubblicato il suo libro didattico Scale rare e ritmi del mondo per far conoscere la musica di diversi popoli. Quanto è importante per lei scoprire culture musicali tanto distanti dalla sua?
Non è importante: è vitale! Sono una persona estremamente curiosa in ambito musicale e quindi non voglio mai privarmi di nulla, per questo ho voluto fare un trattato sulle scale rare, ovvero le scale del mondo che non venivano praticate nel sistema temperato; quelle che ho approfondito nel testo vanno a studiare la trasposizione semi-tonale, che serve per utilizzare tutti gli strumenti. Credo che sia fondamentale non perdere questa conoscenza.
Sacro Sud è un progetto musicale che prende il nome dall’omonimo album pubblicato nel 2006. Si tratta di un insieme di concerti inediti e di incontri particolari, caratterizzati dal connubio tra musiche sacre e canti laici, in cornici particolari come, per esempio, la Basilica di San Giacomo degli Spagnoli. Perché ha scelto proprio questi luoghi? Le va di raccontarci come e perché nasce questo progetto?
Sì, Sacro Sud è un progetto di musica sacra e popolare, di sound devozionali scritti da me, il cui scopo è far avvicinare le persone a questi generi diversi e particolari, che non tutti conoscono, che secondo me sono da scoprire. Al progetto è legato un festival, che organizzo con il mio produttore Andrea Rosa: portiamo il pubblico in posti nascosti, chiese importanti del centro storico e delle periferie. Luoghi che voglio valorizzare, soprattutto perché li ritengo perfetti per l’evento.