Nascono dall’incontro di Marcello, Adriano, Liam, Gabriele e Ismail, un gruppo di giovanissimi amici con la voglia di condividere la musica. Definiscono il loro processo creativo figlio della scoperta, tra serate trascorse con amici e ascolti musicali variegati. La loro band, infatti, spazia tra rock, jazz e blues, con testi che esplorano la provincia, l’abitudine e il desiderio di evasione.
La band Abat-Jour racconta una realtà che è al tempo stesso personale e universale. Selezionati tra i finalisti di Musicultura con il brano Oblio, sono pronti ad affrontare una nuova sfida, per crescere e continuare a evolversi artisticamente.

Rompiamo il ghiaccio partendo dal vostro nome d’arte: qual è il suo significato? C’è un aneddoto, un percorso, che ha portato alla sua scelta?
All’inizio c’era un “Mufasa” – primo nome d’arte del cantante – in rotta adolescenziale con il mondo, che scriveva e cantava da solo; le “Abat-Jour” hanno dato forma e vita alle canzoni.
Attraversare insieme l’adolescenza è stato intenso, a tratti faticoso, ed è stato molto bello arrivare al punto in cui eravamo tutti emotivamente pronti, felici e consapevoli di volerci fondere in un’unica entità musicale, le Abat-Jour.
Il vostro sound spazia tra rock, blues e bossanova. Da dove arrivano queste influenze? Quali sono i vostri punti di riferimento musicali?
Come ogni adolescente, ognuno di noi si è affacciato alla musica, scegliendo inizialmente uno stile, un sound che desse voce alle proprie emozioni. C’è chi si è fatto ammaliare dalla trap, chi da vecchi dischi dei propri genitori e chi suonava nelle bande del proprio paese. Il fatto che ognuno di noi suonasse uno strumento, ci ha messo tutti sulla strada di una ricerca musicale personale ed è stato
così che ci siamo incontrati. Ognuno di noi portava nei nostri incontri, nati magari solo per il gusto di passare un pomeriggio tra amici, la sua “scoperta” più recente, e per scoperta intendiamo: Jim Morrison, B.B King, Jorge Ben Jor. È da questo mix di influenze, suggerimenti in famiglia, ricerche personali e anche compiacenti algoritmi che abbiamo trovato un terreno comune di sound.
Essendo un gruppo di cinque componenti, come vi approcciate alla composizione dei vostri brani? Scrivete tutti oppure i testi arrivano da un componente in particolare e poi insieme date vita alla melodia e agli arrangiamenti?
Per rispondere a questa domanda bisogna sapere che la vita quotidiana in posti isolati di campagna è fatti, per i ragazzi, di serate trascorse in cantine e taverne nelle case dei genitori. È così che nasce il nostro processo creativo: da serate in cui ognuno porta una sua idea musicale e il gioco sta proprio nel cercare di fonderle a servizio di una canzone che prima di tutto sintetizzi e rappresenti
pienamente l’unione dei nostri gusti personali e le ricerche musicali del momento. I testi trattano temi che fanno da denominatore comune alle chiacchiere e alle esperienze raccontate in quelle stesse serate.
Alle Audizioni Live al Teatro Lauro Rossi vi siete esibiti con Routine e Oblio, due pezzi che raccontano di voi, tra giornate sempre uguali e un sentimento che sembra essere di rassegnazione. Messi insieme, i titoli dei due brani restituiscono un quadro fatto, appunto, di abitudine e dimenticanza. Ci siete solo voi, dentro quei due pezzi, o credete che il dipinto che vien fuori possa essere più ampio, generazionale?
La domanda ci lusinga molto e ci ha portato a pensare a qualcosa sulla quale non avevamo mai riflettuto. Noi crediamo che siano testi nati da sentimenti comuni a chiunque cresca in provincia.
Tutto quello che può sembrare rassicurante, della vita di una piccola città, può essere vissuto come un grosso limite per chi ha sogni e desideri che si vogliono spingere oltre questi confini. Forse quando abbiamo scritto questi testi non pensavamo ci potesse essere qualcosa di raggiungibile oltre la realtà dei nostri paesi, per questo le nostre canzoni incarnano quel desiderio di lacerare il sipario
che confina la nostra voglia di evadere. Oggi forse sappiamo che gran parte della nostra forza la dobbiamo proprio ai limiti imposti dalla vita di provincia.
Musicultura perché? Cosa vi ha spinti a partecipare al Festival e cosa vi aspettate da questo percorso?
Siamo tutti dei nativi digitali e proprio perché siamo la prima generazione cresciuta credendo che la visibilità social fosse l’unica via, quando qualcuno ci ha parlato di Musicultura abbiamo capito che eravamo davanti a qualcosa di diverso, davanti a una finestra dove c’era ancora spazio per essere sottoposti a una sana critica che riguardasse più il merito che l’apparire. Abbiamo pensato tutti che
sarebbe stato decisivo farci sanamente giudicare da una giuria di esperti, in qualche modo qui ci sentiamo più liberi. Quello che ci aspettiamo è una valutazione autentica che ci aiuti a determinare la validità delle scelte fatte fino a ora e che sia da suggello e stimolo per le sfide future.