Belly Button, nome d’arte di Sergio Gabriele Bruni, è un progetto musicale che affonda le radici nel potere catartico della musica. Il suo stesso pseudonimo, che in inglese significa “ombelico”, richiama la prima ferita di ogni essere umano: il distacco dalla madre con il taglio del cordone ombelicale. Ed è proprio dalla necessità di elaborare e trasformare le proprie fragilità che nascono la sua musica e un percorso artistico che si fa strumento di riscatto e consapevolezza. Il suo sound fonde le sonorità urban rap con l’intensità evocativa del gospel, dando vita a un’identità stilistica capace di coniugare l’espressione personale e collettiva con l’impatto emotivo. Dall’esigenza di arrangiare la musica in questa chiave, nel 2023 prende forma il Coro Onda, una formazione diretta da Asja Martorelli e composta da giovani della periferia romana, con l’obiettivo di amplificare la forza del messaggio grazie all’armonia delle voci. Oggi,Belly Button e il Coro Onda sono tra i 16 finalisti di Musicultura con Credo, un brano che, attraverso un’ironia pungente, denuncia le difficoltà delle nuove generazioni nel costruirsi un futuro in un contesto sempre più precario e complesso.

Belly Button nasce come progetto solista e, nel febbraio 2023, si unisce al Coro Onda, diretto da Asja Martorelli, pubblicando il singolo Credo. Abituato a un processo creativo da solista, come ti sei trovato a lavorare in team con il coro?
Ho iniziato a scrivere canzoni a 14 anni per l’esigenza di esprimermi e di trovare un posto nel mondo. Il mio progetto solista mi ha permesso negli anni di scrivere moltissimo e di trovare la mia dimensione artistica, maturando la solidità necessaria per lasciarmi influenzare da idee e persone, senza per questo perdere la mia identità. Il Coro Onda ha rappresentato e rappresenta il
punto di arrivo di questo percorso, ma anche un punto di partenza per arricchire la mia musica di sonorità sempre nuove e complesse.
Il genere con cui ti sei proposto a Musicultura, l’urban gospel, è poco comune nella scena cantautorale contemporanea. Davanti al tuo stile così distintivo, come ti è sembrata la risposta che hai ricevuto dal pubblico del Festival?
La risposta del pubblico davanti al nostro spettacolo è sempre un’incognita per noi. L’esibizione è piuttosto inusuale, soprattutto in Italia, dove non esiste nel DNA culturale la musica gospel. Per esempio, durante un’esibizione, indossando le tuniche che io stesso ho disegnato per la performance, un ascoltatore ha urlato: “Ecco le suore!”. Poi però parte la musica e inizia la magia! Il pubblico di Musicultura ci è sembrato molto aperto e disponibile a confrontarsi con qualcosa di diverso.
Nel gospel, il corpo e il movimento sono parte integrante dell’espressione musicale. Come vivi l’aspetto della performance sul palco? E in che modo, secondo te, il gospel moderno si sta evolvendo dal punto di vista scenico?
Per noi è un aspetto essenziale. Ascoltare su Spotify la nostra musica trasmette energia ed una forte carica, ma assistere al nostro spettacolo, guardare 20 persone cantare e ballare, è un’esperienza. Il gospel moderno, soprattutto all’estero, sta evolvendo aumentando il numero di persone che si esibiscono sul palco. L’effetto è bellissimo. Noi abbiamo scelto di andare ancora oltre, inserendo coreografie che arricchiscano ulteriormente lo spettacolo, disegnando la nostra musica. Inizialmente il coreografo con il quale collaboriamo doveva aiutarci solo a coordinarci, ma alla fine ci siamo trasformati ed evoluti in ballerini – i membri del coro decisamente più di me!-.
Nei tuoi brani, nei quali ritmo, melodie e cori giocano un ruolo fondamentale, quanto peso ha la parola? Preferisci modellarla in funzione della sua musicalità, integrandola nel suono, o darle un peso più poetico per trasmettere un messaggio più chiaro?
La musica per me è un’esigenza pura di espressione, per questo i testi restano centrali. Nasco cantautore, ascoltatore e amante del cantautorato italiano, non posso quindi non portare quel background nella mia musica. Al contempo, oggi è possibile anche veicolare un messaggio tramite altri linguaggi, spesso molto efficaci, come quello visivo. Secondo me sono tutti ingredienti che devono coesistere ed essere strumentali gli uni agli altri.
Nella vostra biografia si parla di una missione che mira a dare voce a chi spesso non ne ha. In che modo questo principio si riflette nel tuo percorso artistico? Cerchi ispirazione dalla realtà che ti circonda per trasformarla in musica?
Certo. Fin dalle prime esibizioni, in maniera ancora non totalmente comprensibile, il progetto ha attratto persone che sentono il reale bisogno di potersi esprimere ed avere una propria voce, che percepivano di aver perso come singoli e hanno ritrovato come membri di questa famiglia. La magia è che questo trasporto emotivo viene trasmesso ai nostri ascoltatori: così i nostri concerti diventano una casa per chi non ha un luogo per sentirsi semplicemente bene essendo se stesso; diventano, insomma, “un posto per chi non ha posto”.