INTERVISTA – Moonari e l’arte di restare in equilibrio

Musicultura muove su un filo da Funamboli

Dietro il nome d’arte Moonari si cela Giovanni Cosma, cantautore, compositore e polistrumentista romano, classe 1995, con alle spalle un percorso artistico e umano che attraversa Roma, Milano e Londra, dove ha studiato ingegneria del suono. Dopo l’esperienza in una band italo-inglese, oggi porta avanti un progetto solista che fonde scrittura intima, sperimentazione sonora e grande versatilità live, con formazioni che spaziano dal duo alla full band con fiati. Con Funamboli – il brano che lo ha portato tra i 16 finalisti di Musicultura 2025 – racconta, con sonorità jazz, quella condizione fragile ma potente di chi cerca il proprio equilibrio nella vita e nell’arte. «Su tra le nuvole, anche se non so se sto volando o se sto cadendo», canta, sospeso tra il desiderio di perfezione e la necessità di lasciarsi andare, come un funambolo che avanza nonostante il vuoto sotto i piedi. Con questa intervista rilasciata alla redazione di
“Sciuscià” ha condiviso il suo percorso artistico fatto di esplorazione interiore, dell’influenza poetica di Bruno Munari, delle sfide affrontate nel passaggio dall’inglese all’italiano nella scrittura e della costante ricerca – tra palco e studio – di una verità emotiva autentica.

Moonari alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Dal tuo nome d’arte alla tua musica, le immagini e le suggestioni visive sembrano avere un ruolo fondamentale nel tuo percorso artistico. Quanto ha influenzato il tuo approccio alla scrittura e alla composizione l’ispirazione di Bruno Munari? Se dovessi trasformare la tua musica in un’immagine, quale sarebbe e perché?
Mi riconosco nel suo sguardo ironico ma anche malinconico sulla vita. È in questo senso che mi ha ispirato. E se dovessi trasformare la mia musica in un’immagine sarebbe sicuramente quella di un albero – che non è altro che la lentissima esplosione di un seme, proprio come dice Munari -, perché ha radici profonde ma cresce comunque verso l’alto.

Hai vissuto tra Roma, Milano e Londra, tre città con identità musicali molto diverse. In che modo queste esperienze hanno plasmato il tuo stile? Qual è il principale insegnamento che hai tratto dalla scena musicale londinese?
Milano l’ho vissuta all’inizio del mio percorso, ero molto giovane. Mi ricordo che percepivo una grande povertà nel fermento musicale e nella creatività, insieme a una carenza di posti dove incontrarsi, conoscersi e suonare, cosa che invece ho trovato, con molto stupore, a Roma. Finché non sono andato a viverci, ho sempre sottovalutato Roma: la consideravo immobile nel tempo, senza stimoli. Invece, il principale insegnamento che ho tratto dalla scena musicale londinese è che c’è sempre qualcuno da cui imparare, in qualsiasi posto. Per molto tempo non ho saputo ascoltare, e a Londra, paradossalmente, ho imparato a farlo.

Nel tuo primo album in italiano, Sono Nato Debole, racconti di fragilità e di crescita, affrontando tematiche personali e universali. C’è una canzone del disco a cui sei particolarmente legato? Se sì, perché?
Il brano di Sono Nato Debole a cui sono più legato è La Mia Primavera. Dentro c’è un lungo processo di decostruzione: era un brano con un testo a tratti anche volgare e volevo evitare di fare qualcosa di solo strumentale poiché arrivavo da due dischi con tanta parte musicale e la voce usata più che altro come strumento. A un certo punto, però, mi sono detto: “Io sono anche questo”. Quindi ho tolto il testo che non mi aveva mai convinto e ho lasciato solo la musica, evitando di dover infilare a forza parole in un pezzo in cui non sarebbero andate.

Hai una grande versatilità dal vivo: passi da set intimi in duo a formazioni più ampie con fiati e sezioni ritmiche. Cosa cambia per te sul palco in queste diverse configurazioni? C’è un aspetto della performance live che ami particolarmente?
Se sei in duo o solo cambia molto l’esposizione rispetto a essere in 10 sul palco. Amo quando suono sul palco con naturalezza e riesco a emozionarmi e soprattutto a godere come quando sono da solo a casa a scrivere un brano nuovo. È una cosa che vorrei provare sempre, ed è la sfida di una vita. Mi ritengo molto fortunato a condividere il palco con dei musicisti bravi, sensibili e creativi; è il meglio che potessi desiderare. Essere circondato da persone così talentuose è stimolante.

Funamboli, il brano selezionato da Musicultura per il tuo ingresso tra i 16 finalisti del concorso, parla di sospensione, di equilibrio precario, di incertezza. È una sensazione che vivi spesso nel tuo percorso artistico? Qual è stata la sfida più grande che hai affrontato nel tuo cammino musicale?
Tutto il contrario dell’incertezza: so bene cosa vorrei sentire nei miei brani e ho chiara l’idea di ciò che dev’essere un pezzo quando lo scrivo, di come sarà live, ed è proprio con questo che mi ritrovo a dover fare i conti: un’insoddisfazione da cui cerco di non farmi fagocitare per non essere infelice tutto il tempo. Sono sempre alla ricerca del suono, della frase e della parola giusta per ogni brano, e spesso non trovare questi elementi mi fa stare male ed è frustrante, ma comunque non sento né precarietà e né incertezza, appunto, in quello che faccio. La più grande sfida che ho affrontato fino a ora è stata quella del passaggio testuale dall’inglese all’italiano, perché scrivere nella tua lingua conoscendo il peso esatto di ogni parola è stata la cosa più difficile nel mio percorso artistico. La linea tra il banale, il wannabe poeta, la stronzata retorica e il guizzo intelligente è sempre molto sottile.