Tra club underground e palchi internazionali, ha oltre 100 concerti all’attivo Roberta Russo, in arte Kyoto, che ora approda tra i 16 finalisti di Musicultura con il suo brano Frontiera. Il pezzo – che è parte di un progetto che fonde industrial, post-punk ed
elettronica scura con spoken music e testi cantautorali – racconta di «quei confini invisibili che ci troviamo ad attraversare nei momenti di trasformazione, ma anche di frontiere reali, fisiche». Questa l’intervista rilasciata alla redazione di “Sciuscià”.

Il tuo progetto nasce dalla fusione tra beatbox ed elettronica, ed è caratterizzato da un sound che oscilla tra atmosfere oscure e richiami alla tradizione. Partendo dalla batteria, hai trasformato il ritmo in un elemento focalizzante, costruendo un linguaggio musicale fatto di ripetizioni martellanti e testi che arrivano dritti allo stomaco. In che modo questa evoluzione sonora ha influenzato la produzione del tuo EP? Ti senti più alla ricerca di un’identità musicale precisa o preferisci sfuggire ogni tipo di staticità, lasciando che il tuo percorso resti sempre in movimento?
L’evoluzione sonora è stata un processo naturale, nato dal desiderio di trasformare il ritmo – da sempre il mio punto di partenza – in un linguaggio più articolato. Prima la batteria, poi il beatbox, e infine l’elettronica, che ha aperto uno spazio espressivo nuovo, dove suono e parola possono convivere e contaminarsi. In tutto questo percorso, l’incontro con Truemantic è stato determinante. La sua visione e la sua capacità di lavorare sul dettaglio sonoro hanno dato all’EP una struttura più solida e insieme più libera. Non è stato solo un co-produttore: oggi rappresenta almeno il 50% del progetto Kyoto, anche nei live, dove costruiamo insieme un suono che cambia da palco a palco. Non c’è la volontà di fissare un’identità chiusa. Al contrario, il progetto vive di movimento, di attraversamenti continui. Ogni brano è un punto in un percorso più grande, che ancora non ha una forma definitiva – e forse è proprio questo il suo senso.
Sei tra i 16 finalisti di Musicultura con Frontiera, brano intenso sia nel testo che nell’arrangiamento. Cosa rappresenta per te questa canzone? Perché, secondo te, è ricaduta proprio su questo pezzo la scelta della giuria del Festival?
Frontiera è un brano che lavora per stratificazioni. Parla di limiti interiori – quei confini invisibili che ci troviamo ad attraversare nei momenti di trasformazione – ma anche di frontiere reali, fisiche. Quelle attraversate da popoli in fuga, da chi è costretto a lasciare tutto, da chi vive la guerra o la perdita come condizione quotidiana. Il testo non racconta in modo esplicito, ma evoca: immagini, tensioni, movimenti. L’arrangiamento, costruito insieme a Truemantic, segue questa logica. Non c’è una vera esplosione, ma una tensione che si accumula e resta sospesa. È un brano che lavora in sottrazione, lasciando che siano il ritmo e la voce a tenere il centro, senza sovraccarichi. Forse ha colpito per questo: riesce a parlare di qualcosa di universale partendo da un’emozione molto concreta, molto umana. Frontiera non dà risposte, ma apre uno spazio di riflessione, un varco dentro cui ognuno può portare la propria storia; il fatto che sia stata selezionata da Musicultura rappresenta un segnale forte: c’è un’attenzione crescente verso forme di scrittura che cercano un linguaggio personale, anche quando questo non segue percorsi immediatamente riconoscibili.
Quella sul palco del Teatro Lauro Rossi, durante le Audizioni Live, non è stata la tua prima volta a Macerata: l’anno scorso sei stata ospite in un circolo ARCI, un ambiente intimo e underground. Come cambia il tuo approccio quando ti trovi di fronte a platee così differenti? E cosa significa per te portare la tua musica in ambienti, come può essere quello di un teatro, appunto, meno abituati alle sonorità e all’energia dei tuoi live?
Ogni spazio ha il suo linguaggio. In un club, o in un circolo, si crea subito una relazione orizzontale: il suono è più sporco, diretto, c’è contatto fisico. In un teatro, invece, l’energia va mediata, trasformata. L’ascolto è più rarefatto, ma non meno intenso. Serve un altro tipo di presenza. Il lavoro live con Truemantic è fondamentale in questo: ci permette di adattare il set in modo fluido, modificando dinamiche, texture, strutture. Il nostro obiettivo è mantenere intatta l’identità del progetto, ma farla dialogare con lo spazio. Portare un set elettronico in un teatro è una sfida: significa capire se quella tensione costruita sul dettaglio riesce a reggere anche in un contesto più distante, più formale. E ogni volta che succede, qualcosa si apre.
Parlando sempre di concerti, hai calcato palchi importanti: oltre alla tua partecipazione al Rockin’1000, in cui ti sei esibita come batterista per artisti affermati, hai anche rappresentato l’Italia all’Eurosonic Festival in Olanda. Queste esperienze hanno in qualche modo influenzato il tuo modo di vivere la musica e il tuo progetto solista?
Sono state esperienze molto diverse tra loro, ma entrambe importanti. Il Rockin’1000 è stato un momento di energia collettiva unica, in cui la musica è diventata strumento di connessione, al di là del singolo. Lì ho capito quanto conti il suonare insieme, ascoltarsi, cedere il controllo. L’Eurosonic, invece, è stato uno specchio internazionale, un confronto con progetti provenienti da tutta Europa, ognuno con il proprio linguaggio. Portare il mio set in un contesto del genere ha reso ancora più evidente quanto sia importante avere un’identità sonora chiara, ma anche aperta. Lì non puoi fingere: o hai qualcosa da dire, oppure no. Queste esperienze mi hanno aiutato a vedere il progetto Kyoto in una dimensione più ampia, non solo come espressione personale, ma come qualcosa che può dialogare con linguaggi, culture e pubblici diversi.
Guardando al futuro, qual è il sogno che ancora non hai realizzato? C’è un obiettivo che senti ancora lontano, ma che speri di raggiungere con la tua musica?
L’obiettivo più grande, oggi, è quello di abbattere qualsiasi tipo di muro – geografico, linguistico, culturale – e far arrivare questo progetto a quante più persone possibile, in Italia e fuori. Kyoto nasce da un’urgenza espressiva, ma non vuole restare chiuso in una nicchia. Al contrario: l’idea è costruire, passo dopo passo, un pubblico affezionato che riconosca un’identità forte nel progetto, che lo segua e che ne condivida il percorso. La speranza è che ciò che raccontiamo – con la musica, con i testi, con i live – riesca a toccare corde universali. E se questo avviene, se riesce a creare un legame autentico con chi ascolta, allora significa che la direzione è quella giusta.