INTERVISTA – Musicultura 2025 ULULA

"Pelle di lupo" tra i brani finalisti

Cita il commediografo latino Plauto e il De cive di Thomas Hobbes; esplora il mondo in bicicletta e i generi musicali con la sua chitarra – ma anche con molti altri strumenti -; ha alle spalle una laurea in filosofia e un percorso di studi all’accademia musicale CPM; è sempre in movimento, ma ha lasciato andare l’idea di dover arrivare, di dover raggiungere, di dover chiudere: questo il ritratto variopinto di ULULA, all’anagrafe Lorenzo Garofalo, già tra i 16 finalisti di Musicultura nel 2020 con la formazione LaForesta. Il giovane cantautore torna ora sul palco del Festival con il suo progetto solista e con la sua Pelle di Lupo.

ULULA alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Partiamo da un verso de L’avvelenata di Guccini: “Mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più di un cantante”. E tu, invece, dopo una Laurea in Filosofia, hai deciso di dedicarti alla carriera musicale. Quanto i due ambiti – musica e filosofia, appunto – sono per te collegati? Il tuo percorso di studi gioca un qualche ruolo nella tua produzione artistica?
Sono profondamente legati, è un meccanismo automatico, nel pensiero prima e nella scrittura poi. La forza della filosofia, per me, vive nel modo di approcciarsi ai contenuti e non nei contenuti stessi. Spesso mi capita di far coincidere la filosofia con l’assenza di contenuti. Oggi che le orecchie, gli occhi, i nasi e le bocche sono ricolmi di contenuti, l’assenza è una preziosa medicina. Il mio percorso di studi è assolutamente intrecciato con la produzione di tutto quello che faccio. Mi piace pensare che quello che ho in mano oggi sia stato piantato anni fa nel fertile terreno tra i banchi del liceo artistico o nelle aule dell’università. E ora me ne sto soltanto prendendo cura. Ovviamente sto piantando anche adesso, e poi raccoglierò ancora, e ancora.

Durante le Audizioni Live, parlando della tua precedente esperienza al Festival, quando con la formazione LaForesta sei stato selezionato tra i 16 finalisti del concorso, hai parlato della necessità di fiorire anche in altri contesti e dimensioni. Cosa hai lasciato andare con il tempo? Da quali schemi sei riuscito a liberarti e quali, invece, continuano a tenerti intrappolato?
Con il tempo ho lasciato andare l’idea di dover arrivare, di dover raggiungere, di dover chiudere. L’idea che ci fosse un tempo specifico per fare o non fare. Ho invece accolto l’idea che anche le cose più importanti, a cui siamo più legati, a cui abbiamo dedicato la maggior parte delle nostre energie, della nostra volontà, del nostro amore, possano lasciarci, finire, dissolversi. E non saranno quelle che arriveranno con noi alla fine. Sono sicuramente intrappolato nella velocità con cui, anche il settore della musica, viaggia in questo momento. Spesso, per fortuna, non sto al passo, mi piace il fuoristrada, ma in ogni caso riconosco che influenza indirettamente il mio stato presente.

Hai vissuto alcune esperienze che pochi possono dire di aver fatto: due viaggi in bicicletta, uno in Marocco, l’altro dai Balcani alla Turchia. C’è qualcosa di quei giorni, di quegli odori, di quei suoni che ha influenzato, o pensi influenzerà, la tua produzione artistica?
Moltissimo di quello che succede in viaggio ritorna in quello che faccio. Viaggiare da solo in bici, per lunghissime tratte, mi mette davvero a nudo. Risulto vulnerabile, straniero ed esposto, ma anche curioso, innamorato di tutto e commosso. Ricordo bene i visi e le mani di chi mi ha aiutato, di chi ho incontrato sulla strada e con cui ho fatto un pezzetto di viaggio. Tutti i paesi, le cittadelle, i posti “di mezzo”, che mai avrei attraversato viaggiando in un altro modo. Ogni tanto mi succede di confondere i ricordi di un viaggio con quelli di un altro, i chilometri accumulati cominciano a essere davvero parecchi. Non ho mai scritto nulla di quello che vivevo in viaggio, né durante né dopo, non c’è traccia dei miei viaggi, se non dentro di me o in qualche finestrella aperta nelle mie canzoni.

Restiamo in qualche maniera all’estero: nel tuo brano Africano, canti: “Nasci dove nasci e muori dove vuoi”. Ecco, quanto ritieni relative le proprie origini e le destinazioni a cui si approda rispetto a tutto ciò che c’è nel mezzo, rispetto a un intero percorso di vita?
Le origini sono una ricchezza immensa, che forse stiamo perdendo senza accorgercene. Ovunque nel mondo, intendo. Magari è una mia sensazione, e sto sbagliando, ma la percezione che tutto stia diventando piatto, simile, sotto un unico grande tetto, è un sentimento che mi si ripropone ogni tanto. Non è ancora così, ovviamente, mi sembra però che la strada sia quella. Sarò contento, eventualmente, di essermi sbagliato. Poi chissà, le origini ci capitano addosso, non dipendono da noi ma da dove nasciamo, da chi nasciamo, però possiamo morire dove vogliamo creando nuove origini per chi verrà dopo. Allora siamo il principio e la fine al tempo stesso. Divino.

Pelle di lupo, selezionato dalla giuria di Musicultura per il tuo approdo tra i 16 finalisti del Festival, è invece un brano dalla carica sensuale molto esplicita. Perché hai scelto di dar voce senza filtri a un sentire tanto intimo come quello relativo alla sfera erotica, di cui spesso, al contrario di quanto fai tu nella tua canzone, si parla in maniera decisamente velata?
Parto dalla “pelle”, che è la prima a sentire del mondo: onesta, vera, finita, mortale, rovinata, usata. Mi immagino che parlerebbe così, senza filtri, come dice la domanda. Poi sono la testa e il cuore, che sono sotto la pelle, a fare casino. La natura più profonda che abita dentro di noi è come una bestia da domare. Parla un linguaggio diverso da quello umano, con modalità espressive differenti, che vengono spesso fraintese perché lontane dal processo evolutivo della nostra specie. Ogni tanto, però, nell’intimità di un gesto o di una confidenza, quella bestia si fa sentire forte e prepotente, lasciando le impronte del suo passaggio nella nostra vita e in quella di chi ci circonda. “Homo homini lupus”, dall’Asinaria di Plauto al De cive di Hobbes: oggi, chi siamo noi davvero, persone o ancora bestie?