Se si parla di affinità musicale, quella tra Fabrizio Bosso e Julian Oliver Mazzariello non può non essere citata. Vent’anni di amicizia, di spettacoli in giro per il mondo hanno creato tra loro una connessione unica, fatta di complicità e note che si rincorrono tra loro in un dialogo che fluisce naturalmente, senza bisogno della mediazione della parola. La loro musica è un viaggio continuo, animato dalla ricerca non solo del sublime, ma anche e soprattutto dell’emozione, del sentimento che la musica riesce a veicolare senza artifici. In occasione della loro partecipazione al concerto dei finalisti di Musicultura 2025, Fabrizio Bosso ci apre le porte del suo mondo: un luogo in cui la tecnica è corpo ma dove la connessione è anima. Un luogo dove l’istinto dirige le mani ancor più della testa, e dove l’emozione è chiave. Con il ricordo affettuoso rivolto a Pino Daniele e al suo spirito jazz, e lanciando sguardo verso le nuove proposte, ci racconta cosa significhi rimanere ancorati con tenacia alla propria arte e alla propria espressività.
Lei e Mazzariello vi conoscete e collaborate da oltre vent’anni, condividendo un percorso artistico ricco di progetti, tournée e momenti di crescita. Dal 2010, il vostro dialogo musicale tra tromba e pianoforte ha trovato una sintonia che non si è più interrotta. Qual è la formula che vi ha permesso di mantenere un’intesa così solida nel tempo, continuando a lavorare insieme ai massimi livelli? Vi è mai capitato di dover ripensare il vostro modo di suonare insieme, riscoprendovi attraverso nuove sfumature e possibilità espressive?
Semplicemente, con Julian tutto questo avviene perché ci sono grande fiducia, complicità e stima, non solo a livello musicale, ma anche a livello umano. Suoniamo da tanti anni e una volta raggiunto un certo livello tecnico con lo strumento, che ti permette di fare il professionista, si inizia a cercare altre cose per riuscire a fare musica a certi livelli. Nel jazz è importante stare sul palco con persone di cui ci si fida e per cui si ha stima, una stima che deve andare anche al di fuori dell’ambito musicale. Ho visto, per esempio, progetti come le all star band, composte da tanti leader fortissimi, solisti fortissimi, che però magari messi insieme non funzionano. A un certo punto bisogna abbandonare la singolarità e cercare, se si vuole fare musica, di farla insieme agli altri. Con Julian c’è questa cosa: io so che lui è sempre connesso, come lui sa che io sono sempre connesso a lui, di conseguenza possiamo azzardare, assumerci dei rischi. Nella tua domanda hai fatto riferimento a una cosa bella: andare a cercare qualche affinità diversa negli anni. Ma avviene in modo naturale. Se suoniamo 3-4 giorni di fila anche con lo stesso repertorio, ogni sera c’è qualcosa che cambia, perché uno dà lo stimolo all’altro: modificando un po’ la velocità di un brano o anche solo il ritmo melodico, si può far prendere un’altra strada. Queste cose si possono fare solo tra musicisti tra loro molto coesi, che condividono fiducia. Per fare musica insieme serve questo tipo di complicità.
Nel jazz, il confine tra il controllo e l’abbandono è sottilissimo: bisogna avere una padronanza assoluta dello strumento, ma anche capacità di lasciarsi andare. Come si bilancia questa tensione tra disciplina e libertà? Vi è mai successo che l’istinto vi portasse in una direzione che la tecnica da sola non avrebbe mai suggerito?
Rispondo con un esempio: non che fosse un trombettista che non sapesse suonare, però rispetto ad altri Chet Baker era meno “pirotecnico”. Ma era un poeta: pur facendo cose meno tecniche, riusciva ad arrivare alla gente; ogni singola sua nota aveva un peso importante. Ecco, c’è anche questo modo di arrivare. Però per chi decide di intraprendere la professione la prima cosa è imparare a suonare bene lo strumento. E quando sei molto preparato, può accadere che si sfrutti la tecnica in maniera non musicale: puoi diventare un po’ un circense, uno che vuol far solo vedere che sa muovere le dita, che sa fare certe cose; ma non vien fuori la musica. Quello che hai detto è corretto: la cosa veramente difficile è bilanciare, riuscire a sfruttare tutto quello che si è studiato. Quanto suggerivano sempre i vecchi musicisti americani – «Studiate un sacco di armonia, studiate tutto, e poi quando salite sul palco, mi raccomando, dimenticate tutto quello che avete studiato» – era un modo per dire: «Liberate la mente da tutte le formule, suonate». Per farlo, bisogna riuscire ad assimilare talmente bene la tecnica che non ci devi più pensare, ma devi tirarla fuori solo per quello che ti serve musicalmente in quel momento. Ed è un lavoro, questo, che non finisce mai.
Quest’anno ricorrono dieci anni dalla scomparsa di Pino Daniele, artista che ha segnato profondamente la musica italiana. Lo scorso anno avete pubblicato un album tributo al suo repertorio: come siete riusciti a mantenere intatta la sua cifra stilistica, reinterpretandola, allo stesso tempo, attraverso la vostra sensibilità musicale?
Rispettando le sue melodie meravigliose. Non siamo neanche andati a stravolgerle troppo armonicamente, semplicemente in alcuni brani abbiamo creato delle strutture che ci permettessero di aprire i soli ed entrare nel mondo del jazz, suoniamo la sua musica, però poi magari i soli che normalmente nei suoi concerti erano delle piccole parentesi per noi diventano nuove piattaforme per suonare, per divertirci, per poi ricollegarci al suo tema. In alcuni casi, per esempio, non ce la siamo neanche sentita di trasformare i suoi brani in brani jazz o di fare dei soli. Perché quella melodia è così perfetta che suoniamo solo quella; facciamo un’intro libera, prima, per poi andarla a suonare, per cercare di far sentire quanto ci abbia sempre ispirato la sua musica, anche nel nostro mondo jazz. Del resto, Pino Daniele comunque era un jazzista: era un grande improvvisatore ed era appassionato di jazz. Siciliy è stata scritta da Chick Corea, uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi. Per dire, ha fatto tour anche con jazzisti italiani, quindi, è molto vicino al nostro genere. Per questo non è stato difficile entrare nel suo mondo suonando la sua musica.
Tra le vostre collaborazioni più significative, WE4 (2020) si distingue per la capacità di veicolare messaggi profondi grazie alla sola musica strumentale. One Humanity, in particolare, è un inno alla solidarietà e alla fratellanza, valori essenziali in ogni epoca e contesto, ma che in quel momento storico risuonavano con particolare urgenza. Senza l’ausilio di parole, come riuscite a veicolare concetti così universali e attuali esclusivamente attraverso le note? E come è nato quel progetto?
Il progetto è nato, innanzitutto, con un quartetto che esiste da un po’. L’idea di »quest’ultimo disco era di scrivere della musica insieme, trovarci in studio, lanciare delle idee. Così è stato. Abbiamo registrato tutto il disco in presa diretta, senza fare sovra incisioni e senza cuffie. L’idea era proprio quella di tirare fuori il suono che sentivamo in quel momento senza aggiungere altre cose sopra. Il brano One Humanity è nato in un momento particolare, in un momento abbastanza tosto che stavamo attraversando tutti. Ma anche proprio per come stava andando il mondo, è venuta fuori questa melodia. L’abbiamo mandata a Julian, lui l’ha sviluppata ed è nato questo brano che creava un sound forte, profondo. Così abbiamo pensato che fosse giusto dedicarlo all’umanità, alle ingiustizie che spesso subisce. Del resto, per me nei concerti ci deve essere tutto: il momento di allegria, il momento intenso in cui si riflette su come sta andando il mondo. Ecco, quello che mi piace è quando, proprio alla fine di un concerto, arriva gente che mi dice: «Mi hai fatto piangere, mi hai fatto ridere». È quello che proviamo a portare sul palco, un po’ tutte le emozioni che sentiamo.
Avete trasformato il vostro talento in una carriera internazionale, esibendovi sui palchi più prestigiosi e collaborando con grandi nomi della musica. Guardando al vostro percorso, quale pensate sia la chiave per distinguersi oggi? E quale consiglio dareste ai giovani finalisti di Musicultura che vogliono lasciare il segno con la propria musica?
La chiave per distinguersi è essere se stessi. Sempre. Non lasciarsi influenzare da proposte che magari non senti tue. Se uno sente che quella proposta non sta nelle sue corde, non si deve far ingannare solo perché sembra che lì possano esserci i soldi o la notorietà. Questa cosa di Musicultura mi piace, perché i ragazzi non vengono qui sperando di entrare a X-Factor o di andare a Sanremo: vengono qui per portare la loro musica, far ascoltare quello che sentono. Si respira una bella atmosfera qua, anche di fratellanza, e questa cosa è molto bella. Io Sanremo l’ho fatto, 6-7 volte; è stato divertente perché ovviamente vestivo sempre i panni dell’ospite, facevo i miei soli, le mie cose, la vivevo un po’ da esterno. Però mi rendevo conto dello stress. Fare televisione e cose con un ritmo così, per 7-8 ore, può anche arrivare a distoglierti un po’ dalla musica. Quindi il consiglio che do ai giovani è, se sentono qualcosa di vero, di portarlo avanti. Poi ci vuole anche un po’ di fortuna, però sicuramente la tenacia aiuta.