Musicultura 2024: buona la prima

Musicultura 2024, atto conclusivo, in due parti. In scena ieri, la prima delle due serate finali della XXXV edizione del Festival. A fare da padrone di casa un duo al femminile: Carolina Di Domenico, che già lo scorso anno aveva calcato il palco dello Sferisterio in queste vesti, e Paola Turci, alla sua prima esperienza come presentatrice.

Che Vita Meravigliosa: deve aver pensato questo il pubblico presente in arena quando Diodato, primo ospite a esibirsi, ha intonato questo suo brano. «Grande responsabilità – ha affermato il cantante salentino – aprire una serata come questa. La musica è un’opportunità per crescere umanamente e per creare ponti con chi ci ascolta».

Lo sanno bene gli 8 vincitori di Musicultura 2024, i veri protagonisti della serata, che si sono esibiti subito dopo. A rompere il ghiaccio è stata Anna Castiglia con la sua Ghali. «L’ho chiamata così – ha spiegato – perché è un’allegoria della società contemporanea: usando come esempio i cantautori, che a volte se la prendono per i propri insuccessi con chi fa un genere musicale diverso dal loro, come il rap o la trap, volevo ricordare quanto ormai sia più semplice gettare la colpa sugli altri piuttosto che assumersi le proprie responsabilità».

Sono fatto così: a cantare il suo modo di essere, e a sprigionare tutta la sua energia, è stato poi il milanese Nyco Ferrari, che ha dichiarato: «Ho avuto la necessità di raccontare chi sono nel modo più sincero possibile. Un cantautore dovrebbe essere in grado di farsi conoscere in maniera pura e semplice».

Va tutto bene è invece il brano di una giovane cantautrice sarda che ha scelto Bruxelles come casa: Bianca Frau. «È sempre più facile – ha svelato dopo la sua performance – dire che va tutto bene piuttosto che dover spiegare cosa sta veramente accadendo nella nostra vita».

Il viaggio alla scoperta delle nuove tendenze della musica popolare è d’autore ha toccato anche la Toscana, più precisamente Il cielo del livornese Eugenio Sournia, che ha sottolineato come il tema della sofferenza sia centrale nella sua poetica: «Il cielo per me è nostalgia e dolore, ma è anche bellezza da ritrovare».

E a proposito di bellezza: quanta possono contenerne le note di una chitarra? Davvero tanta. Soprattutto se a suonarle è un musicista noto al pubblico mondiale per la sua incredibile tecnica e per il suo finger style, che gli hanno fatto guadagnare l’appellativo di “chitarrista del diavolo”: Marcin. L’artista polacco, secondo ospite della serata, ha presentato in anteprima il suo nuovo album Dragon in Harmony e dichiarato: «Non vedo l’ora di tornare in Italia il prossimo anno per raccontarvi la mia storia, che è molto legata al vostro Paese».

Riflettori di nuovo puntati sui vincitori. Il pugliese De.Stradis ha descritto al pubblico dello Sferisterio i suoi Quadri d’autore: «Nel mio brano – ha spiegato – parlo di una rottura, del dolore che si prova, ma anche della parte di noi che rimane cristallizzata nell’altro e che resta una “firma”».

Con Lisou, la sesta vincitrice a esibirsi è stata Helle. L’artista bolognese ha parlato della sua canzone come una dedica a una persona con la quale era in contatto in un periodo particolare per tutti: la pandemia. «Allora – ha ricordato – scriversi era l’unico modo per sentirsi. E malgrado io non sia molto romantica, il mio brano è un racconto molto intimo».

Racconti intimi, appunto. Che se condivisi possono diventare anche importanti messaggi di emancipazione. Come successo con la storia della terza ospite, Alessandra Campedelli. L’allenatrice della nazionale di volley femminile dell’Iran e del Pakistan ha regalato allo Sferisterio la testimonianza di un’esperienza di grande intensità: «Credo nello sport – ha affermato – perché come la musica è in grado di creare ponti; credo nello sport come agente di coesione sociale e di aiuto verso gli altri, perché per me è importante sapere di potere aiutare. Per questo, laddove le donne vengono messe in condizione di non poter far sentire la propria voce, malgrado abbia temuto per la mia incolumità, ho cercato di prestar loro la mia».

Spazio, di nuovo, ai vincitori del Festival. Con Nicareddu, Nico Arezzo ha mosso verso sud, verso la sua terra d’origine: la Sicilia. Il cantante ha anche raccontato della genesi del suo brano: «Nella mia isola ci sono tante leggende e io, un po’ per gioco, volevo scriverne una. È un onore e un onere poter portare la mia lingua su un palco del genere».

Da un capo all’altro dell’Italia: i The Snookers sono il duo lombardo composto da Anita Maffezzini e Federico Fabani, approdati a Macerata con i loro Guai – questo il titolo del loro pezzo – e un bagaglio pieno di bei ricordi. Come l’opening del concerto dei Marlene Kuntz, del quale hanno detto: «È stata un’esperienza bellissima, soprattutto perché abbiamo suonato nel nostro paese, aprendo il concerto di una band italiana di alto livello».

Poi un omaggio a uno dei mostri sacri della musica italiana. Imbracciata la chitarra, Paola Turci si è esibita ne L’avvelenata di Francesco Guccini, precedendo così il ritorno sul palco dello Sferisterio di Diodato, che ha incantato l’Arena con La mia terra e Fai Rumore.

E di rumore, applaudendo fortissimo, il pubblico dello Sferisterio ne ha fatto davvero molto, sia per questa che per la performance successiva, quella di Serena Brancale, che subito ha dichiarato: «Musicultura è un evento importantissimo non solo per coloro che sono all’interno del mondo della musica, ma per tutti coloro che credono nella sua potenza».

Potenza che si è palesata immediatamente quando si è esibita dapprima in Andamento lento di Tullio De Piscopo e Passo o tiempo di Pino Daniele, poi in Stu Caffè, ultimo suo singolo, e Baccalà, brano che ha spopolato su ogni piattaforma social.

L’ultimo ospite della serata è stato Filippo Graziani, che al pubblico ha proposto alcuni dei brani più celebri della produzione artistica del padre Ivan – Lugano addio, Il chitarrista, Pigro – e un pezzo – La Canzone del marinaio – contenuto nell’ultimo album di inediti uscito postumo. «È un piacere essere qui, in un posto così importante per il cantautorato e per la libera espressione», ha affermato.

Non sono mancati i riconoscimenti, ovviamente. A Eugenio Sournia è andato il Premio PMI – Produttori Musicali Indipendenti per il miglior progetto discografico.

Eugenio Sournia – Premio PMI

Anna Castiglia, invece, si è aggiudicata la Targa per il Miglior Testo, assegnata dalle studentesse e dagli studenti dell’Università di Macerata e dell’Università di Camerino.

Anna Castiglia – Premio Miglior Testo

 

Intervista: Il “caos etnico” dei DakhaBrakha a Musicultura 2022

Da Kiev, Ucraina, i DakhaBrakha portano il loro “caos etnico” sul palco di Musicultura. Il progetto nasce nel Kyiv Center of Contemporary Art «DAKH», nel 2004, dalla geniale idea del direttore teatrale Vladyslav Troitskyi. Il gruppo è composto da Marko Halanevych, Iryna Kovalenko, Olena Tsybulska e Nina Garenetska. Con la loro musica, tradizione e contemporaneità si incontrano; l’aggiunta di ritmi e strumenti da tutto il mondo crea immagini suggestive ed evocative: ascoltarli è come viaggiare nel tempo e nello spazio.

Nel 2016, pubblicano The Road e si esibiscono in Italia, al Triennale Milano Teatro, nell’ambito della rassegna musicale Music after Music. Nel 2020, tornano con il loro ultimo progetto Alambari, album – dal look eclettico e intrigante – registrato nel 2019, che garantisce al gruppo il premio per la categoria “Musical Arts” nell’ambito dello Shevchenko National Prize del 2020.

Conosciamo meglio questo straordinario ensemble con la nostra intervista a Marko Halanevych.

Come creatori del “caos etnico”, avete unito alla musica folk ucraina i ritmi, le sonorità e gli strumenti tradizionali di diverse nazioni del mondo. Avete intenzione di sperimentare ancora in questo senso?

Siamo sempre pronti a sperimentare, ma per noi nulla è pianificato, non abbiamo strategie. Ci affidiamo al destino: se sentiamo di fare qualcosa, semplicemente lo facciamo.

Il vostro progetto è stato creato originariamente in e per il teatro, ma in seguito avete iniziato a esibirvi anche al di fuori. Quali sono le differenze riscontrate tra i diversi contesti?

Ci sono sicuramente energie diverse. Quando ci esibiamo a teatro è sempre una magnifica esperienza, è di grande impatto e ha forte influenza sulla nostra musica. Al di fuori di esso, percepiamo il contatto diretto con il pubblico, non ci sono muri, l’interazione è immediata. In fin dei conti, però, DakhaBrakha è DakhaBrakha proprio grazie al teatro.

La musica è unione, pace, armonia. Visti i recenti avvenimenti che riguardano il vostro paese e che hanno destato l’attenzione mondiale, quanto è importante per voi far circolare un messaggio di pace attraverso questa forma d’arte?

Certamente la pace in questo momento è il nostro sogno più grande, ma per noi non è il solo obiettivo da raggiungere; vogliamo vincere questa guerra affinché ci siano pene adeguate nei confronti di chi ha invaso un paese calpestando senza pietà i diritti umani di un’intera popolazione. Quindi non è solo una questione di pace, vogliamo giustizia. La luce vince sempre sulle tenebre.

Non è la vostra prima volta in Italia; come vi sentite a tornare nel nostro paese, sul palco di Musicultura, nella cornice dello Sferisterio di Macerata?

Conosciamo il pubblico italiano, amiamo profondamente questo paese e la sua cultura. Tuttavia, non sapevamo cosa aspettarci da questa esperienza, trovarci in un contesto così ampio come quello di Musicultura è stato, per noi, singolare e magnifico.

Il vostro nome, DakhaBrakha, significa “dai/prendi” in ucraino antico; sulla base della vostra lunga esperienza, la musica cosa vi ha fatto dare e ricevere?

La musica ci ha permesso di dare e ricevere energia alle e dalle persone; è uno scambio difficile da spiegare a parole. È questa energia che ci dà la forza di continuare a suonare. Non sappiamo quello che le persone riescono a percepire e ricevere perché noi ci troviamo dall’altra parte del palco, ma spesso ci è stato detto che la nostra musica è un ponte che collega il presente alla tradizione e al passato, evoca un tipo di emozioni mai sentite prima. Questo è di grande ispirazione e ci fa capire che stiamo facendo le cose nel modo giusto.

Intervista ad Angelo Branduardi ospite a Musicultura 2022

Quasi cinquant’anni di carriera e 50 album nel segno della sperimentazione, della ricerca, dell’esplorazione muovendosi tra musica antica, pop, folk. Angelo Branduardi ha scritto e cantato di filosofia, Medioevo e testi sacri e si è lasciato ispirare da Dante, dalla poesia russa e da Donovan e Cat Stevens. Ai microfoni di Musicultura, il Maestro fornisce una spiegazione chiara e illuminante della sua concezione di musica e del senso profondo che nascondono i suoi grandi successi, capi saldi degli ultimi 40 anni di musica italiana.
“Per spiegare cosa è per me la musica, faccio mie – dice – le parole del Maestro Ennio Morricone, che sosteneva che «essendo la musica l’arte più astratta, è la più vicina all’assoluto». Mi viene in mente anche un’altra frase, questa volta di Dante, che dice «Musica è rapimento. Non ha bisogno di spiegazioni» e, io aggiungo, neanche di critici. La musica è una componente fondamentale della vita e diventa terapeutica quando riesce a sconfiggere i dolori e la paura della guerra”.
Con grande partecipazione, ironia e senso dell’umorismo, risponde poi a un paio di domande della redazione di “Sciuscià”.

Quanto crede sia importante per le nuove leve del cantautorato italiano partecipare a concorsi come Musicultura?

Quello di Musicultura è un palcoscenico particolare e come tale può essere d’aiuto soprattutto a chi non fa musica immediata. Faccio un augurio sincero ai vincitori di quest’anno e ricordo loro che per essere riconoscibili all’interno del mondo della musica bisogna avere personalità, originalità, intelligenza e tanto carattere, altrimenti non si va da nessuna parte.

Quest’anno è uscito il libro Confessioni di un malandrino, autobiografia di un cantore del mondo. Che cosa ha significato per lei mettere per iscritto la storia della sua vita e della sua straordinaria carriera?

Più che un libro musicale, di cui non frega niente a nessuno, ho voluto fare un vero e proprio racconto come fosse un piccolo romanzo. Ho avuto una vita molto particolare, dal quartiere dell’Angiporto di Genova ad avventure delle più varie e fuori dall’ordinario; addirittura per un periodo sono stato il Piccolo principe delle prostitute. Ho avuto incontri straordinari, cominciando da Franco Fortini e arrivando a Pasolini, Fellini e a un sacco di altra gente con cui ho lavorato. È stata una vita interessante. Ovviamente data la mia età, non scriverò la seconda parte del libro, che comunque sarebbe stata la più scabrosa.

Intervista: Riconoscersi nella metamorfosi. Ditonellapiaga ospite a Musicultura 2022

Dalla recitazione alla musica, dalle lunghe tavolate di donne dei suoi ricordi d’infanzia alla copertina di Camouflage, dal palco dell’Ariston a quello dello Sferisterio. Margherita Carducci, in arte Ditonellapiaga, presta la sua voce in maniera fluida e versatile a diversi generi musicali e forme d’arte: pop, soul, r&b, jazz, monologhi teatrali e/o canzoni. Lo esprime bene il suo ultimo album, un ritratto della poliedricità di quest’artista che, come il camaleonte, ama sperimentare, assumere diverse sembianze e adattarsi, colorarsi di tante sfumature musicali quante sono le sue sfaccettature pur mantenendo sempre intatta e riconoscibile la sua identità. Questo il fil rouge che tiene insieme il suo passato da attrice, il suo presente da cantante e un futuro in cui, chissà, questi due lati di lei potrebbero sovrapporsi.
Prima di un’esibizione magnetica, o forse chimica, sotto i riflettori dello Sferisterio, svela in quest’intervista a tu per tu con la redazione di “Sciuscià” gli ingredienti della sua personale soluzione: una miscela composita di autenticità, ricettività e ironia.

Per i bambini esplorare la ferita è un’esperienza sensoriale di conoscenza, sebbene possa comportare anche l’imprevedibile incontro con il dolore. È questo il significato del tuo nome d’arte?

È un’interpretazione bellissima, complimenti. Il senso del mio nome d’arte è la provocazione, l’insistere e punzecchiare, ma sempre in maniera simpatica e bonaria. Però questa interpretazione è molto bella, perché si rifà a un altro aspetto della mia musica meno simpatico e sbruffone e più riflessivo e intimo.

Camouflage (2022) è il titolo del tuo album d’esordio, che oltre a simboleggiare l’eclettismo del camaleonte, è una tecnica di trucco volta a nascondere gli inestetismi. Che rapporto hai con il trucco e con la tua immagine?

La tecnica del camouflage consiste nel nascondersi; nell’accezione del disco, però, non si tratta di nascondersi ma di adattarsi. A me piace molto sperimentare con il trucco. Per tanto tempo, soprattutto al liceo, non ho accettato il mio viso struccato: ero abituata a indossare tanto trucco perché mi divertiva, però a un certo punto questa cosa mi è sfuggita di mano e non riuscivo più a vedermi struccata. Adesso il rapporto con la mia immagine è cambiato: sono molto a mio agio con la me senza trucco, però al tempo stesso trovo che anche questa sia una forma d’arte e mi diverto molto a sperimentare e giocarci.

Il duo con Donatella Rettore sul palco dell’Ariston e la copertina dell’album appena citato, che ti vede circondata da donne meno giovani di te, mostrano una forte impronta femminile intergenerazionale. Che messaggio volevi lanciare con questa scelta?

Non era voluto, ma effettivamente forse è stata una scelta inconscia e spontanea. Io ho dei grandi riferimenti femminili nella mia famiglia, soprattutto da parte di madre sono quasi tutte donne. Mia madre, mia nonna, le amiche di mia nonna: sono tutte donne che vedo fin da quando ero bambina e a cui si legano i miei più bei ricordi d’infanzia. Ho quest’immagine nella mente di loro che stavano a casa e giocavano a carte tutte insieme. Sono da sempre abituata a vedere scene di donne numerose, solidali e unite tra loro. Inevitabilmente anche il mio disco ha una componente femminile così segnata e quindi forse l’ho voluta inconsciamente evocare anche nella copertina.

Sei laureata in teatro al DAMS. Quanto ha inciso la recitazione sulla tua musica? Hai mai pensato, in futuro, di fondere queste due passioni in un’unica forma d’arte?

Il teatro ha inciso molto sulla mia musica, perché prima di finire l’accademia scrivevo male; poi la mia scrittura è maturata con e grazie alla recitazione, risentendo della sua influenza. Molti miei pezzi sono un po’ teatrali, a volte quasi dei monologhi. La recitazione ha inciso molto soprattutto sull’interpretazione e sull’immaginazione, perché fare teatro apre tantissimo l’immaginazione. In futuro mi piacerebbe lavorare di più sui videoclip a livello recitativo, anche se è un esercizio difficile che richiede molto impegno e i videoclip, invece, vanno realizzati in poco tempo. Però, sarebbe bello intraprendere un progetto di questo tipo in futuro.

Osservando il tuo rapporto con i social, mi sembra che per te siano importanti il contatto e l’interscambio di energie tra artista e pubblico. Cosa ti piacerebbe ricevere dal pubblico dello Sferisterio e cosa, invece, vorresti lasciargli?

Mi piacerebbe ricevere “du’ applausetti”! Di base secondo me si tratta sempre di uno scambio di energie: io devo dare energia al pubblico e se il pubblico la percepisce – anche se dipende da che tipo di pubblico sia: ci sono dei pubblici ricettivi e dei pubblici un po’ più rigidi – la assorbe e poi te la restituisce. Di solito più sei energico tu e più la gente percepisce questa cosa e te la ridà indietro. Quindi spero che anche qui allo Sferisterio ci sia uno scambio di good vibes, di energie positive!

Mi sembra che nella vita, oltre che nella musica, stemperi anche le emozioni più profonde con leggerezza e divertimento. Che valore ha per te l’ironia?

L’ironia per me è un po’ uno stile di vita. Per tanto tempo ho avuto un po’ paura delle mie emozioni, quindi, reagivo sminuendole, ridendoci su o non parlandone. Però credo che anche le tragedie, a loro modo, siano comiche. Secondo me, osservandole con distacco e non nel momento in cui si sta soffrendo, ci si rende conto che si può ridere anche delle cose tristi, che non significa sminuirle ma guardarle da un’altra prospettiva. Naturalmente esistono anche delle cose molto serie sulle quali è meglio non scherzare e che bisogna invece affrontare con altrettanta serietà. In generale, l’ironia è un modo un po’ più leggero di vivere la vita, di scherzarci su e reagire positivamente al negativo. Io me la vivo meglio così!

Intervista: Il giro del mondo in musica con i Violons Barbares, ospiti a Musicultura 2022

Che cosa hanno in comune un violinista bulgaro, un cantante mongolo e un percussionista francese? È quello che abbiamo cercato di scoprire in quest’intervista ai Violons Barbares (Dimitar Gougov, Dandarvaanchig Enkhjargal e Fabien Guyot), trio internazionale che porta in giro per l’Europa i “ritmi galoppanti” prodotti dai loro strumenti tradizionali: la gadulka bulgara che assomiglia a una ghironda medievale e il morin khuur, una sorta di viola bicorde che affonda le sue radici nelle società nomadi delle steppe asiatiche. A questi si aggiungono percussioni di ogni tipo – tamburi arabi e mediterranei, scodelle, scatole, bottiglie, gong e bonghi – e le tecniche del canto gutturale. Ma nei loro tre album – Violons Barbares (2010), Saulem Ai (2014) e Wolf’s Cry (2018) – non si trova solo musica tradizionale o popolare: al contrario, emergono il rock, il jazz e perfino il metal, il tutto accompagnato da un ritmo davvero travolgente.

Tre nazionalità, tre culture, tre esperienze musicali diverse. Com’è nato il gruppo? Soprattutto, come avete fatto a trovare il vostro comune denominatore?

Io (Dimitar Gougov, gadulka ndr) abito a Strasburgo dal 2000. Anche il percussionista Fabien abitava a lì, quindi ci conoscevamo già. Qualche anno dopo sono stato invitato in Germania per partecipare a un festival che riuniva tante nazionalità diverse: i colleghi venivano dalla Cina, dalla Mongolia, dall’India, dall’Afghanistan, dall’Iran e dalla Turchia oltre che da tutta Europa. Il progetto si chiamava La via della seta e con questi musicisti abbiamo fatto cinque, sei concerti durante l’estate. In quel gruppo – che in realtà non era un vero gruppo, ma si era unito solo per il progetto – ho incontrato Epi (Dandarvaanchig Enkhjargal, morin khuur ndr). Grazie a lui ho conosciuto per la prima volta la tecnica del canto grave armonico, di cui non avevo mai sentito parlare, e del canto acuto khöömii. In più ascoltando il suo morin khuur, ho notato che suonava nella mia stessa tonalità. Le corde ricordavano molto quelle del mio strumento, però erano più gravi. Così mi sono detto: «Si possono combinare molto bene insieme. Possiamo creare un gruppo».

La musica spesso viene etichettata: gli artisti sono accostati a un genere preciso e il pubblico pensa già a cosa doversi aspettare dalle loro creazioni musicali. Il vostro tratto distintivo, invece, è la contaminazione. Quanto lavoro è dedicato alla ricerca e quanto all’improvvisazione per ottenere questo effetto?

Ognuno di noi ha appreso la musica tradizionale nel proprio paese. Di conseguenza, in Francia e in Germania, io ed Epi siamo automaticamente classificati nella “world music”. Ma è solo il punto di partenza, perché alla fine ci ritroviamo a festival di musica tradizionale o anche di impronta più attuale, ai festival di musica classica, jazz, rock e metal. Ti rendi conto che puoi suonare dolcemente, ma anche trasmettere molta energia ed è questo alla base della nostra voglia di fare. Certo, partiamo dai nostri strumenti tradizionali, ma quando ci riuniamo cerchiamo di creare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo, di andare al di là di ciò che abbiamo già imparato. Non è una vera e propria fusione: facciamo un’altra musica. Io suono la gadulka e ora anche il morin khuur. Adesso cantiamo tutti alla maniera mongola. Ognuno di noi, inoltre, ascolta musica molto diversa e questo aiuta enormemente per il futuro, per avere delle idee e dei pezzi che escono dalla tradizione e da un genere preciso.

In che senso i vostri strumenti sono “barbari”?

Ho chiamato questo gruppo Violons Barbares perché è qualcosa di impossibile. Un violino non è barbaro; un violino è il contrario di barbaro. Lo sapete, è fatto in Italia, a Cremona. Volevo che il nome saltasse all’occhio. Quelli che suoniamo, in realtà, non sono violini, ma i loro antenati. L’aggettivo “barbari”, allora, rimanda al fatto che sono strumenti di altri popoli, anticamente chiamati “barbari”.

Spesso nei vostri brani prevale la musica rispetto al testo. Anche l’utilizzo della voce per creare effetti polifonici suggerisce una propensione ai suoni piuttosto che alle parole. Nei vostri pezzi è più importante il significato o il significante?

Fino a ora, per i primi tre album, non ci siamo preoccupati tanto dei testi: molti venivano dalla tradizione, altri li abbiamo scritti noi. È vero, negli scorsi anni ci siamo soffermati maggiormente sulle sonorità e su tecniche di canto particolarmente espressive, che ci permettevano di evocare determinate sensazioni e di rendere la performance più suggestiva. Attualmente stiamo preparando qualcosa di diverso: sono delle canzoni a tema e tutti i testi ricoprono un ruolo davvero importante. Li abbiamo scritti in bulgaro, mongolo tedesco e inglese; per la prima volta anche in francese. Perché 5 lingue? Volevamo farci capire un po’ di più.

La natura è un tema ricorrente della vostra produzione. La canzone Wolf’s Cry si interroga sull’ambiente e sull’eredità da lasciare alle prossime generazioni; Fabien fa anche parte del progetto Furieuz Casrols, che utilizza percussioni riciclate; il canto gutturale trae origine da un profondo contatto con la natura; nel 2018 vi siete perfino esibiti all’interno delle grotte di Lascaux. In qualche modo la vostra musica aspira a una dimensione primitiva e primordiale?

Il nostro collega mongolo Epi è molto colpito da ciò che sta accadendo nel suo paese. Fino a poco tempo fa lì la gente viveva in armonia con la natura, era nomade e si spostava secondo i ritmi dell’ambiente circostante. Invece negli ultimi anni le persone hanno iniziato a sfruttare indiscriminatamente le risorse della terra: Epi vede ciò e prova una grande tristezza, così ha voluto inserire questo tema nelle canzoni. Aspirare a una dimensione primordiale? È da vedere, perché comunque anche i temi dei brani cambiano e non posso dire che siamo un gruppo impegnato sulle questioni dell’ecologia. Anche noi ce ne siamo occupati, certo, ma credo ci siano altri che lo fanno molto meglio di noi.

Musicultura 2021: i The Jab vincono la XXXII edizione

Ebbene sì, ci siamo. Finalmente possiamo rispondere alla fatidica domanda: chi ha vinto Musicultura 2021?

I The Jab!

The Jab vincono Musicultura 2021

È finito nelle loro mani l’assegno da 20.000 euro di Banca Macerata.
“Giovani favolosi” è la canzone preferita dal pubblico presente all’Arena Sferisterio.

Premio Banca Macerata

E il Premio per il Miglior Testo?
Ad aggiudicarselo è stato Lorenzo Lepore con “Futuro”.

Lorenzo Lepore vince il Premio Miglior Testo

Il Premio AFI (Associazione Fonografici Italiani), invece, è andato a Caravaggio grazie alla sua “Le cose che abbiamo amato davvero”.

Caravaggio vince il Premio AFI

Declinato al femminile il Premio della Critica “Piero Cesanelli”: Mille e “La Radio” sono le più apprezzate dai giornalisti presenti in sala stampa.

Mille vince il premio della critica

È donna anche l’ultimo riconoscimento, il Premio Nuovo IMAIE, che va a Elasi e al suo brano “Valanghe”.

Elasi vince il Premio Nuovo IMAIE

INTERVISTA – Nella “Tribù urbana” di Ermal Meta, ospite di Musicultura 2021

È la sua seconda volta sul palco del festival e per il suo ritorno ha scelto di regalare a Musicultura anche la sua interpretazione di Redemption Song. È così, con un “canto di redenzione”, uno dei brani più famosi di Bob Marley, che Ermal Meta ha voluto idealmente abbracciare il pubblico dello Sferisterio, che ha calorosamente risposto alla sua performance con un lungo ed emozionato applauso. Prima della sua esibizione, l’artista ha rilasciato questa intervista alla redazione di Sciuscià.

“Tribù Urbana”, il tuo ultimo album, è un lavoro che già dal titolo sembra presentare un’antitesi. E infatti contiene brani che affrontano temi anche molto diversi tra loro. Come nasce l’idea di intrecciare tante storie tra loro differenti?

In generale, le storie sono tra di loro differenti per natura, è impossibile trovare due storie uguali. E poi mi piaceva questa antitesi “tribù/urbana” perché i termini rappresentano due cose completamente diverse. “Tribù” è la necessità che sentivo di appartenere a qualcosa – soprattutto dopo quello che abbiamo passato – che mi potesse proteggere. E nell’immaginario collettivo la tribù fa proprio questo. “Urbana” perché ci troviamo tutti in realtà urbane. Cerco di fermarmi all’interno di un mondo frenetico, di fare una pausa, insomma.

Ermal Meta

“Destino Universale”, il titolo di un pezzo contenuto proprio in “Tribù Urbana”, è un’espressione che ben si adatta all’anno appena passato. Ecco, come hai vissuto questo periodo di pandemia?

L’ho passato in pausa, come tutti. In alcuni momenti è stato molto difficile, a tal punto che certe volte non riuscivo neanche a dormire e, nonostante avessi molto tempo a disposizione per me, non sapevo cosa farmene. Mi viene in mente una favola di La Fontaine, in cui protagonista è un uccellino in gabbia che per tutta la vita chiede a Dio di essere liberato. Dopo tante preghiere, una mano invisibile apre la gabbia e una voce gli dice: “Mi hai pregato per tutta la tua esistenza di liberarti, adesso puoi volare via”. L’uccellino, terrorizzato, risponde: “Sì, ma se poi resto chiuso fuori?”. Ecco, a un certo punto mi sono sentito così, spaesato, perché di tutto questo tempo a disposizione non sapevo cosa farmene. È stato molto strano.

E ora, invece, com’è tornare finalmente a esibirsi davanti al pubblico?

È sempre un’emozione bellissima e per certi versi commovente. In generale non siamo ancora del tutto tornati alla vita normale ma possiamo dire che si sta vedendo la luce in fondo al tunnel. Sicuramente è una situazione diversa rispetto all’anno scorso e mi auguro che vada sempre in crescendo, quindi speriamo di continuare così. Resta il fatto che esibirsi davanti al pubblico è sempre magico.

Ermal Meta - Musicultura

Hai scritto brani per alcuni grandi interpreti della musica italiana. Qual è la sensazione che lascia addosso sentir cantare qualcun altro un proprio pezzo?

È qualcosa di molto particolare perché ti fa sentire quello che hai scritto attraverso voci altrui. Arriva un’emozione diversa perché la persona che in quel momento sta cantando quello che hai scritto lo sta interpretando in un modo che inevitabilmente è differente dal tuo, il che non significa che sia meglio o peggio, ma semplicemente, appunto, diverso. Inoltre, ti permette di scoprire una parte di te che non conoscevi prima: se scrivo una cosa intendendola in un certo modo, per qualcun altro può essere diversa, e ciò può comportare che io provi emozioni che non avevo provato prima. Credo che questa sia una cosa molto bella.

Gli 8 vincitori di Musicultura muovono i loro passi per affacciarsi sulla scena musicale italiana. C’è un consiglio, un monito, un augurio che, se li avessi di fronte, bisbiglieresti alle loro orecchie?

Augurerei loro di non arrendersi quando è il momento di non arrendersi e di fare un passo indietro quando è il momento di fare un passo indietro. Capire quali sono questi due momenti secondo me è fondamentale. Per adesso, però, devono andare avanti.

INTERVISTA – A La Controra di Musicultura il “Progetto Infinito” di Gianmaria Coccoluto

Artista romano, classe ’94, figlio dello storico dj Claudio Coccoluto, sin da giovanissimo Gianmaria decide di seguire le impronte del padre esibendosi come dj e sviluppando rapidamente una grande passione ed un particolare talento per la musica elettronica. I suoi mix e le sue produzioni racchiudono svariati stili che viaggiano dalla musica house alla techno. A La Controra di Musicultura presenta un lavoro dedicato al padre chiamato Progetto Infinito, una sorta di “archivio Coccoluto”. “L’obiettivo – spiega Gianmaria – è quello di pubblicare tutta la musica che mio padre non è riuscito a divulgare”. In quest’intervista, racconta il suo percorso artistico e il suo desiderio di mettersi in gioco in maniera consapevole con la musica.

Nel tuo caso possiamo realmente parlare di genetica musicale: quando hai cominciato a capire che il mondo dei piatti e del mixer sarebbe stato la tua strada?

Ho iniziato a mixare musica per piacere, ma anche per necessità. All’inizio ero il dj delle feste di compleanno dei miei amici. Col tempo ho sentito il bisogno di avere la libertà di poter scegliere brani diversi consequenzialmente l’uno all’altro per poter produrre emozioni diverse; quando ho iniziato a sentire quella libertà, ovvero la capacità di suscitare delle emozioni, prima che negli altri in me stesso, con la musica che mi piaceva, ho compreso che questa era veramente la mia passione.

Negli ultimi anni, prima dello stop dettato dalla pandemia, ti sei esibito in molti club, sia in Italia che all’estero; quali similitudini e/o differenze hai riscontrato tra il pubblico del bel Paese e quello estero quanto a gusti musicali?

Ogni nazione ha il suo sound rappresentato dalla tendenza di quel momento; solitamente si tratta di macro generi facilmente catalogabili che ruotano attorno alla musica elettronica e ai posti in cui prende luce. La differenza più grande tra l’Italia e l’estero, e più in generale tra tutte le nazioni, è il modo di fruire la musica e il ballo. Per esempio, in Germania i club non hanno necessità di chiudere, possono restare aperti e mettere musica per una settimana continuativa; questo dà sicuramente l’idea di un tipo d’intrattenimento differente da quello dell’Italia, ancora abituata al clubbing relativo ad una sola notte, quindi con una durata limitata. Cambia anche il modo di divertirsi delle persone ed è molto interessante notare questi dettagli.

Gianmaria Coccoluto

Oltre a gestire la storica etichetta The Dub fondata da tuo padre, nel 2015 hai lanciato la Tête Records; come è nata l’esigenza di realizzare la tua label e qual è l’obiettivo che questo giovane progetto si prefigge di raggiungere?

Nel 2015 avevo voglia di iniziare a pubblicare musica composta da me e volevo fare di questa etichetta discografica un contenitore appunto della mia musica e della mia figura come producer, in modo che potessi sperimentare e commettere errori; è stata una sorta di playground ma adesso è ferma, “congelata”, perché ho raggiunto nel tempo un’altra consapevolezza musicale. Attualmente sto per cominciare un nuovo progetto con una nuova etichetta discografica che rappresenta artisticamente un me stesso più maturo rispetto a quegli anni. Adesso ho 27 anni, in confronto a quel periodo sento di mettermi in gioco in una maniera più profonda e più completa.

Ho letto che possiedi circa quattromila vinili. Considerando che oggi la musica si ascolta principalmente attraverso altri tipi di supporti, pensi sia possibile una sorta di rieducazione all’ascolto musicale di qualità, in particolare per le nuove generazioni?

In realtà i vinili sono molti di più, all’incirca tra i sessantamila e gli ottantamila. In tanti mi pongono questa domanda perché ora sono anche custode della collezione di mio padre. Spero davvero che avvenga qualcosa per rieducare l’ascolto musicale, chiaramente cambiato grazie ai servizi streaming. Al giorno d’oggi la fruibilità della musica è eccezionale, possiamo riascoltare un brano tutte le volte che vogliamo, in tutti i supporti e in una qualsiasi situazione. Un’educazione all’ascolto analogico come quella del vinile è un’educazione in cui l’ascoltatore è costretto a stare fermo in un posto, concentrato. Ultimamente c’è un ritorno al vinile e diverse persone si sono ricordate il feeling di comprare un disco, di guardare la copertina, di mettere e togliere il disco; è sempre un gesto molto affascinante che ti permette di toccare qualcosa di emozionante. Personalmente fruisco della musica in entrambi i modi, mi sento abbastanza completo dal punto di vista sia dell’educazione che della fruizione musicale e spero che anche le nuove generazioni possano avere l’opportunità di nutrire un legame con l’alta fedeltà.

È un conclamato divoratore di dischi, quindi la sua presenza qui a Musicultura stimola la mia curiosità riguardo al tema del cantautorato: c’è, appunto, qualche cantautore italiano a cui è particolarmente affezionato?

Tutti. Amo il cantautorato e la maggior parte dei cantautori italiani, che fanno parte della mia visione del mondo e della musica. L’album che sto ascoltando di più in questi ultimi giorni è “Il nostro caro angelo” di Battisti.

INTERVISTA – “La sensibilità umana è una, anche al di là delle definizioni”: Antonella Ruggiero a La Controra di Musicultura 2021

Ospite de La Controra, Antonella Ruggiero inebria Piazza Vittorio Veneto, a Macerata, con la sua voce inconfondibile.
Una lunga carriera dalle diverse sfumature, dalla musica elettropop e pop con lo storico gruppo dei Matia Bazar alle sperimentazioni musicali dei suoi album da solista – Libera, Amore lontanissimo, Contemporanea Tango – a Cattedrali, disco di musica sacra.
A caratterizzare la sua figura è un profondo senso di libertà e bellezza. Così si racconta in un’intervista alla redazione Sciuscià.

La sua carriera è cominciata da solista con lo pseudonimo di Matìa, da cui deriva anche il nome dei Matia Bazar, gruppo con il quale ha prodotto brani di successo che hanno accompagnato diverse generazioni. Ci parla del suo debutto?

Sono salita su un palco senza alcuna prova, senza alcuna volontà di fare ciò che faccio tuttora dopo tanti anni. La mia idea era quella di occuparmi di arti visive, invece con i ragazzi che ho conosciuto ai tempi, e che sono diventati parte del gruppo, siamo partiti all’avventura e non ci siamo fermati per quattordici anni fino a quando ho deciso, per sette anni, non tanto di smettere di occuparmi della musica ̶ perché quella l’ho sempre frequentata e amata ̶ quanto di allontanarmi da quel tipo di mondo, per poi riprendere nel ’96 con altri significati che ho voluto dare alla musica.

La musica lirica ha accompagnato la sua attività musicale per diverso tempo, rendendola protagonista, nei primi anni del 2000, di spettacoli all’interno di importanti teatri d’Italia. Qual è il suo rapporto con la scena?

La scena in fondo è il luogo del mio lavoro, della mia espressività. Ogni settore ha il suo lavoro e questo è il mio ambito naturale e inevitabile. Devo dire che non sono mai stata malata di palcoscenico, semplicemente è il mio luogo di lavoro.

Antonella Ruggiero

Il suo nome è associato a diversi generi musicali, dalle melodie medievali al pop, dal progressive rock al rhythm and blues, fino ad arrivare, lo abbiamo detto poco fa, alla lirica. Immagino quindi che “curiosità” e “sperimentazione” siano due parole a cui è molto affezionata. Ecco, quali sono le altre parole a cui Antonella Ruggiero tiene particolarmente, sia dal punto di vista professionale che da quello umano?

Sicuramente “libertà” – di pensiero, di espressione – e “sincerità”, cose per me necessarie nei rapporti con le persone con cui collaboro. Diciamo che frequento un’umanità che mi piace, proprio perché ha queste caratteristiche. E poi “impegno”: le persone – soprattutto i giovani – devono pensare che bisogna impegnarsi nel proprio lavoro, qualsiasi esso sia, e non pensare che prendendo delle strade facili, delle scorciatoie, si possa raggiungere una lunga carriera. Se vuoi lavorare in certi ambiti, in tempi lunghi, ti devi impegnare, come è sempre stato. Le scorciatoie servono a poco.

La sua carriera è costellata di diverse sfumature artistiche, che comprendono – pensiamo ad esempio al film documentario Un’avventura romantica, del 2016 – anche il cinema. Qual è il fil rouge che unisce queste forme di espressione?

È la bellezza delle cose, può trattarsi di cinema, teatro, danza, pittura, scrittura o musica, basta che ci sia quello che ognuno di noi vede come bellezza. Quello che piace a me può non piacere assolutamente a te e viceversa; ognuno nella sua mente ha le sue preferenze. Il mondo è veramente pieno di input e sollecitazioni, basta aver voglia di trovare quella che più si avvicina alla tua personalità, al tuo sentire le cose.

La sua voce è come cristallizzata, sembra resistere immutata agli anni che scorrono. C’è una cosa però che inevitabilmente, di concerto in concerto, cambia: i volti di chi assiste agli spettacoli. Ecco, qual è il suo rapporto con quei visi? Qual è il suo rapporto con il suo pubblico?

È vero che ogni persona ha delle caratteristiche ben precise ma per me c’è l’essere umano davanti e non la moltitudine. La sensibilità umana è una, quindi va bene anche al di là delle definizioni. La libertà è proprio quella di esprimere se stessi in ogni modo, possibilmente senza paura, anche se questa società può essere molto pericolosa per chi agisce con libertà. Non siamo così evoluti da accettare le caratteristiche umane per come sono, evitando quelle negative ovviamente. Evitando le persone negative e cattive dentro che fanno e hanno sempre fatto cose orrende nel mondo.