INTERVISTA – Quando il suono trasmette, le parole non servono

Se si parla di affinità musicale, quella tra Fabrizio Bosso e Julian Oliver Mazzariello non può non essere citata. Vent’anni di amicizia, di spettacoli in giro per il mondo hanno creato tra loro una connessione unica, fatta di complicità e note che si rincorrono tra loro in un dialogo che fluisce naturalmente, senza bisogno della mediazione della parola. La loro musica è un viaggio continuo, animato dalla ricerca non solo del sublime, ma anche e soprattutto dell’emozione, del sentimento che la musica riesce a veicolare senza artifici. In occasione della loro partecipazione al concerto dei finalisti di Musicultura 2025, Fabrizio Bosso ci apre le porte del suo mondo: un luogo in cui la tecnica è corpo ma dove la connessione è anima. Un luogo dove l’istinto dirige le mani ancor più della testa, e dove l’emozione è chiave. Con il ricordo affettuoso rivolto a Pino Daniele e al suo spirito jazz, e lanciando sguardo verso le nuove proposte, ci racconta cosa significhi rimanere ancorati con tenacia alla propria arte e alla propria espressività.

Lei e Mazzariello vi conoscete e collaborate da oltre vent’anni, condividendo un percorso artistico ricco di progetti, tournée e momenti di crescita. Dal 2010, il vostro dialogo musicale tra tromba e pianoforte ha trovato una sintonia che non si è più interrotta. Qual è la formula che vi ha permesso di mantenere un’intesa così solida nel tempo, continuando a lavorare insieme ai massimi livelli? Vi è mai capitato di dover ripensare il vostro modo di suonare insieme, riscoprendovi attraverso nuove sfumature e possibilità espressive?

Semplicemente, con Julian tutto questo avviene perché ci sono grande fiducia, complicità e stima, non solo a livello musicale, ma anche a livello umano. Suoniamo da tanti anni e una volta raggiunto un certo livello tecnico con lo strumento, che ti permette di fare il professionista, si inizia a cercare altre cose per riuscire a fare musica a certi livelli. Nel jazz è importante stare sul palco con persone di cui ci si fida e per cui si ha stima, una stima che deve andare anche al di fuori dell’ambito musicale. Ho visto, per esempio, progetti come le all star band, composte da tanti leader fortissimi, solisti fortissimi, che però magari messi insieme non funzionano. A un certo punto bisogna abbandonare la singolarità e cercare, se si vuole fare musica, di farla insieme agli altri. Con Julian c’è questa cosa: io so che lui è sempre connesso, come lui sa che io sono sempre connesso a lui, di conseguenza possiamo azzardare, assumerci dei rischi. Nella tua domanda hai fatto riferimento a una cosa bella: andare a cercare qualche affinità diversa negli anni. Ma avviene in modo naturale. Se suoniamo 3-4 giorni di fila anche con lo stesso repertorio, ogni sera c’è qualcosa che cambia, perché uno dà lo stimolo all’altro: modificando un po’ la velocità di un brano o anche solo il ritmo melodico, si può far prendere un’altra strada. Queste cose si possono fare solo tra musicisti tra loro molto coesi, che condividono fiducia. Per fare musica insieme serve questo tipo di complicità.

Nel jazz, il confine tra il controllo e l’abbandono è sottilissimo: bisogna avere una padronanza assoluta dello strumento, ma anche capacità di lasciarsi andare. Come si bilancia questa tensione tra disciplina e libertà? Vi è mai successo che l’istinto vi portasse in una direzione che la tecnica da sola non avrebbe mai suggerito?

Rispondo con un esempio: non che fosse un trombettista che non sapesse suonare, però rispetto ad altri Chet Baker era meno “pirotecnico”. Ma era un poeta: pur facendo cose meno tecniche, riusciva ad arrivare alla gente; ogni singola sua nota aveva un peso importante. Ecco, c’è anche questo modo di arrivare. Però per chi decide di intraprendere la professione la prima cosa è imparare a suonare bene lo strumento. E quando sei molto preparato, può accadere che si sfrutti la tecnica in maniera non musicale: puoi diventare un po’ un circense, uno che vuol far solo vedere che sa muovere le dita, che sa fare certe cose; ma non vien fuori la musica. Quello che hai detto è corretto: la cosa veramente difficile è bilanciare, riuscire a sfruttare tutto quello che si è studiato. Quanto suggerivano sempre i vecchi musicisti americani – «Studiate un sacco di armonia, studiate tutto, e poi quando salite sul palco, mi raccomando, dimenticate tutto quello che avete studiato» – era un modo per dire: «Liberate la mente da tutte le formule, suonate». Per farlo, bisogna riuscire ad assimilare talmente bene la tecnica che non ci devi più pensare, ma devi tirarla fuori solo per quello che ti serve musicalmente in quel momento. Ed è un lavoro, questo, che non finisce mai.

Quest’anno ricorrono dieci anni dalla scomparsa di Pino Daniele, artista che ha segnato profondamente la musica italiana. Lo scorso anno avete pubblicato un album tributo al suo repertorio: come siete riusciti a mantenere intatta la sua cifra stilistica, reinterpretandola, allo stesso tempo, attraverso la vostra sensibilità musicale?

Rispettando le sue melodie meravigliose. Non siamo neanche andati a stravolgerle troppo armonicamente, semplicemente in alcuni brani abbiamo creato delle strutture che ci permettessero di aprire i soli ed entrare nel mondo del jazz, suoniamo la sua musica, però poi magari i soli che normalmente nei suoi concerti erano delle piccole parentesi per noi diventano nuove piattaforme per suonare, per divertirci, per poi ricollegarci al suo tema. In alcuni casi, per esempio, non ce la siamo neanche sentita di trasformare i suoi brani in brani jazz o di fare dei soli. Perché quella melodia è così perfetta che suoniamo solo quella; facciamo un’intro libera, prima, per poi andarla a suonare, per cercare di far sentire quanto ci abbia sempre ispirato la sua musica, anche nel nostro mondo jazz. Del resto, Pino Daniele comunque era un jazzista: era un grande improvvisatore ed era appassionato di jazz. Siciliy è stata scritta da Chick Corea, uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi. Per dire, ha fatto tour anche con jazzisti italiani, quindi, è molto vicino al nostro genere. Per questo non è stato difficile entrare nel suo mondo suonando la sua musica.

Tra le vostre collaborazioni più significative, WE4 (2020) si distingue per la capacità di veicolare messaggi profondi grazie alla sola musica strumentale. One Humanity, in particolare, è un inno alla solidarietà e alla fratellanza, valori essenziali in ogni epoca e contesto, ma che in quel momento storico risuonavano con particolare urgenza. Senza l’ausilio di parole, come riuscite a veicolare concetti così universali e attuali esclusivamente attraverso le note? E come è nato quel progetto?

Il progetto è nato, innanzitutto, con un quartetto che esiste da un po’. L’idea di »quest’ultimo disco era di scrivere della musica insieme, trovarci in studio, lanciare delle idee. Così è stato. Abbiamo registrato tutto il disco in presa diretta, senza fare sovra incisioni e senza cuffie. L’idea era proprio quella di tirare fuori il suono che sentivamo in quel momento senza aggiungere altre cose sopra. Il brano One Humanity è nato in un momento particolare, in un momento abbastanza tosto che stavamo attraversando tutti. Ma anche proprio per come stava andando il mondo, è venuta fuori questa melodia. L’abbiamo mandata a Julian, lui l’ha sviluppata ed è nato questo brano che creava un sound forte, profondo. Così abbiamo pensato che fosse giusto dedicarlo all’umanità, alle ingiustizie che spesso subisce. Del resto, per me nei concerti ci deve essere tutto: il momento di allegria, il momento intenso in cui si riflette su come sta andando il mondo. Ecco, quello che mi piace è quando, proprio alla fine di un concerto, arriva gente che mi dice: «Mi hai fatto piangere, mi hai fatto ridere». È quello che proviamo a portare sul palco, un po’ tutte le emozioni che sentiamo.

Avete trasformato il vostro talento in una carriera internazionale, esibendovi sui palchi più prestigiosi e collaborando con grandi nomi della musica. Guardando al vostro percorso, quale pensate sia la chiave per distinguersi oggi? E quale consiglio dareste ai giovani finalisti di Musicultura che vogliono lasciare il segno con la propria musica?

La chiave per distinguersi è essere se stessi. Sempre. Non lasciarsi influenzare da proposte che magari non senti tue. Se uno sente che quella proposta non sta nelle sue corde, non si deve far ingannare solo perché sembra che lì possano esserci i soldi o la notorietà. Questa cosa di Musicultura mi piace, perché i ragazzi non vengono qui sperando di entrare a X-Factor o di andare a Sanremo: vengono qui per portare la loro musica, far ascoltare quello che sentono. Si respira una bella atmosfera qua, anche di fratellanza, e questa cosa è molto bella. Io Sanremo l’ho fatto, 6-7 volte; è stato divertente perché ovviamente vestivo sempre i panni dell’ospite, facevo i miei soli, le mie cose, la vivevo un po’ da esterno. Però mi rendevo conto dello stress. Fare televisione e cose con un ritmo così, per 7-8 ore, può anche arrivare a distoglierti un po’ dalla musica. Quindi il consiglio che do ai giovani è, se sentono qualcosa di vero, di portarlo avanti. Poi ci vuole anche un po’ di fortuna, però sicuramente la tenacia aiuta.


 

Il concerto dei 16 finalisti – Il racconto della seconda serata di live

Dopo il successo della prima serata, il Teatro Persiani di Recanati apre le sue porte al secondo appuntamento con il concerto dei finalisti della XXXVI edizione di Musicultura. A fare gli onori di casa sono di nuovo John Vignola, Marcella Sullo e Duccio Pasqua, conduttori di Rai Radio 1; a esibirsi sono altre otto nuove leve del panorama cantautorale italiano e due ospiti d’eccezione.

Come ieri sera, spetta infatti al trombettista Fabrizio Bosso e al pianista Julian Oliver Mazzariello inaugurare l’appuntamento. Lo fanno con un omaggio a Pino Daniele, regalando al pubblico del Festival uno dei brani più celebri dell’artista napoletano: Je so’ pazzo.

Poi, Overture: ad aprire le performance dei finalisti è il brano di Alessandra Nazzaro, che affronta il palco con la stessa grazia con cui il suo pezzo svela alcune delle pieghe dell’animo umano. Il testo, struggente e profondo, narra di un addio che, in realtà, avrebbe dovuto essere pronunciato fin dal principio. Per Alessandra, ogni parola ha un peso fondamentale, tanto che si definisce «un’affezionata del testo».

Segue Ibisco, che si esibisce con una voce piena e una musicalità che fonde elettronica, spoken word e testi cantautorali. La sua canzone, Languore, è un viaggio tra sperimentazione e introspezione nell’ambito del quale ogni nota e ogni parola conducono verso un paesaggio emotivo ricco di sfumature. Il suo approccio alla musica è guidato da un’autenticità profonda, come afferma lui stesso: «Cerco sempre di scrivere cose che mi rappresentano, senza mai dover fingere».

Con Apatia, Distemah esplora temi di vulnerabilità e relazioni complesse; la sua presenza sul palco si caratterizza per una vocalità intensa e una produzione minimalista che enfatizza l’emotività del testo. La sua musica si distingue per un equilibrio tra delicatezza e forza espressiva, creando un’atmosfera coinvolgente e riflessiva. «Cerco la verità – afferma – e spero di portarla nelle mie canzoni».

La pace, il brano proposto dal duo Frammenti, è un inno alla festa, alla gioia, alla fratellanza. Alla non belligeranza. E suona davvero bene in questo 25 aprile, nonostante Francesco e Antonio, i due protagonisti di questo progetto che fonde cantautorato ed elettronica, raccontino di una conoscenza nata in una sala prove all’insegna di un’antipatia reciproca: «L’odio – scherzano rispondendo alle domande di Vignola – non è finito, ma a un certo punto abbiamo capito che per non litigare avremmo dovuto smettere di parlare e suonare di più».

Sale poi sul palco Giancarlo Giulianelli, Garante regionale dei Diritti della Persona, per presentare il progetto La casa in riva al mare, quest’anno alla sua seconda edizione, che offre a un gruppo di detenuti dell’istituto penitenziario Barcaglione di Ancona l’opportunità di partecipare a laboratori musicali curati dall’associazione Musicultura.

È poi la volta di NILO, il cui brano Tutti-nessuno è un atto di resistenza emotiva, costruito da un sound intimo e toccante che riesce ad arrivare dritto al cuore. Il pezzo è uno spunto per far riflettere chi ascolta attraverso le mille storie che racconta: «Il mio obiettivo – spiega l’artista – è di lasciare spazio alla libera interpretazione.  Il bello della musica è proprio questo: può suscitare emozioni completamente diverse in ciascuno di noi».

Segue ULULA con Pelle di Lupo, brano dalla carica sensuale molto esplicita, in grado di creare un’atmosfera suggestiva e coinvolgente, caratterizzato da sonorità alternative rock, con una costruzione melodica che fonde chitarra elettrica e sintetizzatori. «Il lupo è il mio animale guida. Mi rivedo anche nella sua solitudine» racconta a proposito del titolo del pezzo.

Ora è tempo di una nuova, graditissima, incursione sul palco dei due ospiti d’eccezione delle serate: Fabrizio Bosso e Julian Oliver Mazzariello tornano a omaggiare Pino Daniele attraverso altri due classici del suo repertorio, Allora Sì e Quando. La complicità tra i due musicisti dà nuova vita alle melodie del cantautore partenopeo; la loro interpretazione dimostra quanto la produzione di Daniele fosse naturalmente predisposta all’improvvisazione: «Suonare la sua musica – afferma infatti Mazzariello – è come suonare un pezzo jazz, è come se lui creasse nei suoi brani una piattaforma per improvvisare».

Penultima tra i finalisti a esibirsi è Silvia Lovicario, la cui musicalità si distingue per una raffinata fusione di alternative rock, pop, influenze ambient e un tocco di soul, creando un’esperienza sonora intensa e coinvolgente. Nel brano Notte la sua voce si muove con delicatezza e profondità, restituendo un’atmosfera intima e suggestiva. «Il percorso che accompagna le mie canzoni – spiega – è stato lungo. Racconto storie che ho dentro, suscitando delle emozioni che provo quando suono».

A chiudere la serata sono i Nakhash, gruppo il cui brano in concorso, Gonna si distingue per una sonorità che intreccia elementi elettronici e cantautorali, creando un’atmosfera intensa, esplosiva. Forte è l’emozione, sia in platea che sul palco: «Mi tremano ancora adesso le gambe», svela a fine esibizione Elisabetta Rosso, voce della band, che poi prosegue: «Suonare a Musicultura porta all’incontro tra artisti. Comunque vada sarà stata un’esperienza formativa».

Ecco, appunto: come andrà? A deciderlo sarà ora il Comitato Artistico di Garanzia di Musicultura, costituito da Francesco Amato, Enzo Avitabile, Claudio Baglioni, Diego Bianchi, Francesco Bianconi, Maria Grazia Calandrone, Giulia Caminito, Luca Carboni, Guido Catalano, Ennio Cavalli, Carmen Consoli, Simone Cristicchi, Gaetano Curreri, dardust, Teresa De Sio, Cristina Donà, Giorgia, La Rappresentante di Lista, Ermal Meta, Mariella Nava, Susanna Nicchiarelli, Piero Pelù, Vasco Rossi, Ron, Sydney Sibilia, Tosca, Paola Turci, Roberto Vecchioni, Sandro Veronesi, Margherita Vicario.

Saranno loro, una volta ascoltati tutti i pezzi in concorso, a scegliere gli artisti che entreranno a far parte della rosa degli 8 vincitori del Festival, che il 20 e il 21 giugno si esibiranno, poi, sul palco dello Sferisterio.  Non ci resta che aspettare di conoscere le loro preferenze.


 

Il concerto dei 16 finalisti – Le esibizioni della prima serata

Il tour musicale della XXXVI edizione di Musicultura prosegue il suo viaggio a Recanati, la città di Giacomo Leopardi, dove il Teatro Persiani apre le porte a una due giorni di musica e talento. Dopo un lungo percorso di selezione tra 1.176 proposte, il festival dà ora spazio ai 16 finalisti dell’edizione 2025 con due concerti di presentazione in anteprima, trasmessi in diretta sui canali social di Musicultura e sulle frequenze di Rai Radio 1. Non a caso, a condurre i due appuntamenti sono le storiche voci dell’emittente: John Vignola sul palco, Marcella Sullo e Duccio Pasqua in collegamento.

Quest’anno, a impreziosire l’atmosfera con le loro esibizioni raffinate e coinvolgenti, due ospiti d’eccezione: il trombettista Fabrizio Bosso e il pianista Julian Oliver Mazzariello. I due maestri aprono la prima serata interpretando un brano di Gorni Kramer, tratto dal film Domenica è Sempre Domenica di Mario Riva. Con una straordinaria sintonia sonora, regalano al pubblico un jazz ricco e scoppiettante, dai toni swing, riscaldando l’atmosfera in vista dell’esibizione dei giovani artisti, a cui lasciano un suggerimento: «Salite sul palco e tirate fuori tutto ciò che avete dentro, senza pensare di dover piacere a tutti. Dovete prima di tutto piacere a voi stessi. Fate musica insieme, e ricordatevi che proprio sul palco vi dovete volere ancora più bene».

E sembrano prendere alla lettera questo consiglio i primi finalisti a esibirsi, gli Abat-Jour, che presentano il loro brano Oblio. Nomen omen: la loro performance è come una lampada che si accende in una stanza buia. La musica esplode, riempiendo l’aria e illuminando la platea, per poi affievolirsi gradualmente, come una luce che si spegne piano, lasciando un silenzio che avvolge tutto. Del resto, spiegano, «l’umore di chi sta sopra al palco condiziona tutto il pubblico», trasformando ogni performance in una comunicazione diretta e intensa con chi ascolta.

Segue Moonari, con Funamboli, la cui voce delicata accompagna un brano dal sound jazz, ben scandito da chitarra elettrica e batteria acustica, creando un’atmosfera quasi fluttuante, che riflette perfettamente il sentimento di tensione, umano e profondo, sospeso tra il desiderio di mollare tutto e la spinta verso il sublime. In questo brano, la musica diventa ricerca continua, sperimentazione e, a volte, errore creativo: «Magari – spiega l’artista – c’è un momento in cui ti sbagli o decidi di farlo, all’ultimo, e nasce una versione nuova».

Con Bimbapazza, poi, sonoalaska affronta il tema della violenza di genere, esprimendolo attraverso la sua voce delicata che, unita all’impatto sonoro della batteria, crea un vivido contrasto, come il chiaro-scuro di un ritratto. Non a caso, racconta di come il disegno sia un’altra delle sue forme di espressione, strettamente collegata alla composizione dei suoi brani: «Scrivo per immagini», confida. La sua musica, così come i vivaci canali social su cui la condivide, diventa uno spazio di educazione sociale, fungendo da vetrina per temi che, troppo spesso, non ricevono la giusta attenzione.

È poi la volta di ME, JULY e del brano Mundi, che si trasforma in un viaggio tra suoni popolari e sperimentazione elettronica, mescolando il sogno onirico alla memoria, l’italiano al dialetto. Il pezzo abbraccia una vasta gamma di sensazioni, mantenendo però sempre al centro l’amore profondo e primordiale per la terra d’origine. La sua esplorazione del Sud Italia – dal Salento alla Sicilia, passando per Napoli e la Calabria – affonda le radici in una formazione classica acquisita al conservatorio, ma anche in una ricerca più autonoma: «Una volta tornato a casa – racconta il giovane cantautore – sperimentavo con sintetizzatori e tastiere. Nel tempo ho iniziato a produrre i miei brani e anche quelli di altri, riuscendo a unire questa prospettiva con la mia formazione classica».

Tocca poi a Simona Boo e i Bimbi di Fumo, che con il brano Simun portano una ventata di estate mediterranea sul palco. La canzone, con suoni arabeggianti e avvolgenti, si fonde con il jazz creando un’atmosfera ipnotica e suggestiva. Il loro approccio alla musica è artigianale e coraggioso, un vero e proprio atto di ricerca sonora: «A volte, se qualcosa non ci convince davvero, decidiamo di scartare un intero progetto», affermano dando prova del loro impegno nel realizzare solo ciò che rispecchia pienamente la loro visione creativa.

Successivamente, i maestri Bosso e Mazzariello tornano in scena per un elegante intermezzo, eseguendo Moon Blue di Stevie Wonder. Il loro tocco trasporta il pubblico in un’atmosfera calda e avvolgente, dalle sfumature notturne e a tratti eteree, in una magia che continua con Rumba for Kampei di Fabrizio Bosso, esibizione costruita in un delicato gioco di contrasti: un dialogo tra suoni sfuggenti e ritmi intensi, che si apre e si chiude con una leggerezza sorprendente, lasciando il pubblico sospeso tra il lirismo e l’energia pura della musica.

E poi, ancora finalisti: Kyoto propone Frontiera, un brano dai toni elettronici e scuri, attraversato da echi punk e da un’estetica quasi gotica, senza però rinunciare a un’originale impronta cantautorale. Al termine dell’esibizione racconta la genesi del progetto: «Sono nata come batterista, ma nel 2020 mi sono avvicinata all’elettronica, cercando subito di unire alle mie basi testi parlati. In questo percorso ho incontrato il producer Truemantic, di cui ero fan, e da lì abbiamo iniziato a lavorare insieme».

Segue Elena Mil: il suo rapporto con la musica affonda le radici in un’infanzia in cui canticchiava a bassa voce tra i banchi, guadagnandosi i rimproveri delle maestre. «Ho imparato a cantare e parlare insieme», svela. A Musicultura porta La ballata dell’Inferno, un brano che con solo voce e ukulele riesce a toccare corde profonde. L’arrangiamento, essenziale ma curato, è una scelta poetica e consapevole: ogni nota è necessaria, nulla è superfluo. È proprio nel vuoto lasciato da ciò che non c’è che la canzone respira, trovando la sua forza in un equilibrio delicato tra forma e contenuto.

A chiudere il sipario del primo appuntamento recanatese sono Belly Button e il Coro Onda con Credo, un brano rap dall’anima gospel, che si muove su un ritmo accattivante e sfumature soul. La nascita del gruppo affonda le radici in un semplice post su Facebook, ma da quell’idea estemporanea è germogliato un progetto con un’anima profonda, inclusiva e sociale, che oggi punta «a dare voce a chi non ha voce, e a creare uno spazio per chi non ce l’ha».

Il viaggio nella musica d’autore prosegue domani, stessa ora e stesso posto, con gli altri otto finalisti pronti a salire sul palco di Musicultura per raccontarsi tra note, parole e nuove emozioni.


 

INTERVISTA – Kyoto e una Frontiera per abbattere muri

Tra club underground e palchi internazionali, ha oltre 100 concerti all’attivo Roberta Russo, in arte Kyoto, che ora approda tra i 16 finalisti di Musicultura con il suo brano Frontiera. Il pezzo – che è parte di un progetto che fonde industrial, post-punk ed
elettronica scura con spoken music e testi cantautorali – racconta di «quei confini invisibili che ci troviamo ad attraversare nei momenti di trasformazione, ma anche di frontiere reali, fisiche». Questa l’intervista rilasciata alla redazione di “Sciuscià”.

Kyoto alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Il tuo progetto nasce dalla fusione tra beatbox ed elettronica, ed è caratterizzato da un sound che oscilla tra atmosfere oscure e richiami alla tradizione. Partendo dalla batteria, hai trasformato il ritmo in un elemento focalizzante, costruendo un linguaggio musicale fatto di ripetizioni martellanti e testi che arrivano dritti allo stomaco. In che modo questa evoluzione sonora ha influenzato la produzione del tuo EP? Ti senti più alla ricerca di un’identità musicale precisa o preferisci sfuggire ogni tipo di staticità, lasciando che il tuo percorso resti sempre in movimento?
L’evoluzione sonora è stata un processo naturale, nato dal desiderio di trasformare il ritmo – da sempre il mio punto di partenza – in un linguaggio più articolato. Prima la batteria, poi il beatbox, e infine l’elettronica, che ha aperto uno spazio espressivo nuovo, dove suono e parola possono convivere e contaminarsi. In tutto questo percorso, l’incontro con Truemantic è stato determinante. La sua visione e la sua capacità di lavorare sul dettaglio sonoro hanno dato all’EP una struttura più solida e insieme più libera. Non è stato solo un co-produttore: oggi rappresenta almeno il 50% del progetto Kyoto, anche nei live, dove costruiamo insieme un suono che cambia da palco a palco. Non c’è la volontà di fissare un’identità chiusa. Al contrario, il progetto vive di movimento, di attraversamenti continui. Ogni brano è un punto in un percorso più grande, che ancora non ha una forma definitiva – e forse è proprio questo il suo senso.

Sei tra i 16 finalisti di Musicultura con Frontiera, brano intenso sia nel testo che nell’arrangiamento. Cosa rappresenta per te questa canzone? Perché, secondo te, è ricaduta proprio su questo pezzo la scelta della giuria del Festival?
Frontiera è un brano che lavora per stratificazioni. Parla di limiti interiori – quei confini invisibili che ci troviamo ad attraversare nei momenti di trasformazione – ma anche di frontiere reali, fisiche. Quelle attraversate da popoli in fuga, da chi è costretto a lasciare tutto, da chi vive la guerra o la perdita come condizione quotidiana. Il testo non racconta in modo esplicito, ma evoca: immagini, tensioni, movimenti. L’arrangiamento, costruito insieme a Truemantic, segue questa logica. Non c’è una vera esplosione, ma una tensione che si accumula e resta sospesa. È un brano che lavora in sottrazione, lasciando che siano il ritmo e la voce a tenere il centro, senza sovraccarichi. Forse ha colpito per questo: riesce a parlare di qualcosa di universale partendo da un’emozione molto concreta, molto umana. Frontiera non dà risposte, ma apre uno spazio di riflessione, un varco dentro cui ognuno può portare la propria storia; il fatto che sia stata selezionata da Musicultura rappresenta un segnale forte: c’è un’attenzione crescente verso forme di scrittura che cercano un linguaggio personale, anche quando questo non segue percorsi immediatamente riconoscibili.

Quella sul palco del Teatro Lauro Rossi, durante le Audizioni Live, non è stata la tua prima volta a Macerata: l’anno scorso sei stata ospite in un circolo ARCI, un ambiente intimo e underground. Come cambia il tuo approccio quando ti trovi di fronte a platee così differenti? E cosa significa per te portare la tua musica in ambienti, come può essere quello di un teatro, appunto, meno abituati alle sonorità e all’energia dei tuoi live?
Ogni spazio ha il suo linguaggio. In un club, o in un circolo, si crea subito una relazione orizzontale: il suono è più sporco, diretto, c’è contatto fisico. In un teatro, invece, l’energia va mediata, trasformata. L’ascolto è più rarefatto, ma non meno intenso. Serve un altro tipo di presenza. Il lavoro live con Truemantic è fondamentale in questo: ci permette di adattare il set in modo fluido, modificando dinamiche, texture, strutture. Il nostro obiettivo è mantenere intatta l’identità del progetto, ma farla dialogare con lo spazio. Portare un set elettronico in un teatro è una sfida: significa capire se quella tensione costruita sul dettaglio riesce a reggere anche in un contesto più distante, più formale. E ogni volta che succede, qualcosa si apre.

Parlando sempre di concerti, hai calcato palchi importanti: oltre alla tua partecipazione al Rockin’1000, in cui ti sei esibita come batterista per artisti affermati, hai anche rappresentato l’Italia all’Eurosonic Festival in Olanda. Queste esperienze hanno in qualche modo influenzato il tuo modo di vivere la musica e il tuo progetto solista?
Sono state esperienze molto diverse tra loro, ma entrambe importanti. Il Rockin’1000 è stato un momento di energia collettiva unica, in cui la musica è diventata strumento di connessione, al di là del singolo. Lì ho capito quanto conti il suonare insieme, ascoltarsi, cedere il controllo. L’Eurosonic, invece, è stato uno specchio internazionale, un confronto con progetti provenienti da tutta Europa, ognuno con il proprio linguaggio. Portare il mio set in un contesto del genere ha reso ancora più evidente quanto sia importante avere un’identità sonora chiara, ma anche aperta. Lì non puoi fingere: o hai qualcosa da dire, oppure no. Queste esperienze mi hanno aiutato a vedere il progetto Kyoto in una dimensione più ampia, non solo come espressione personale, ma come qualcosa che può dialogare con linguaggi, culture e pubblici diversi.

Guardando al futuro, qual è il sogno che ancora non hai realizzato? C’è un obiettivo che senti ancora lontano, ma che speri di raggiungere con la tua musica?
L’obiettivo più grande, oggi, è quello di abbattere qualsiasi tipo di muro – geografico, linguistico, culturale – e far arrivare questo progetto a quante più persone possibile, in Italia e fuori. Kyoto nasce da un’urgenza espressiva, ma non vuole restare chiuso in una nicchia. Al contrario: l’idea è costruire, passo dopo passo, un pubblico affezionato che riconosca un’identità forte nel progetto, che lo segua e che ne condivida il percorso. La speranza è che ciò che raccontiamo – con la musica, con i testi, con i live – riesca a toccare corde universali. E se questo avviene, se riesce a creare un legame autentico con chi ascolta, allora significa che la direzione è quella giusta.

INTERVISTA – Musicultura 2025 ULULA

Cita il commediografo latino Plauto e il De cive di Thomas Hobbes; esplora il mondo in bicicletta e i generi musicali con la sua chitarra – ma anche con molti altri strumenti -; ha alle spalle una laurea in filosofia e un percorso di studi all’accademia musicale CPM; è sempre in movimento, ma ha lasciato andare l’idea di dover arrivare, di dover raggiungere, di dover chiudere: questo il ritratto variopinto di ULULA, all’anagrafe Lorenzo Garofalo, già tra i 16 finalisti di Musicultura nel 2020 con la formazione LaForesta. Il giovane cantautore torna ora sul palco del Festival con il suo progetto solista e con la sua Pelle di Lupo.

ULULA alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Partiamo da un verso de L’avvelenata di Guccini: “Mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più di un cantante”. E tu, invece, dopo una Laurea in Filosofia, hai deciso di dedicarti alla carriera musicale. Quanto i due ambiti – musica e filosofia, appunto – sono per te collegati? Il tuo percorso di studi gioca un qualche ruolo nella tua produzione artistica?
Sono profondamente legati, è un meccanismo automatico, nel pensiero prima e nella scrittura poi. La forza della filosofia, per me, vive nel modo di approcciarsi ai contenuti e non nei contenuti stessi. Spesso mi capita di far coincidere la filosofia con l’assenza di contenuti. Oggi che le orecchie, gli occhi, i nasi e le bocche sono ricolmi di contenuti, l’assenza è una preziosa medicina. Il mio percorso di studi è assolutamente intrecciato con la produzione di tutto quello che faccio. Mi piace pensare che quello che ho in mano oggi sia stato piantato anni fa nel fertile terreno tra i banchi del liceo artistico o nelle aule dell’università. E ora me ne sto soltanto prendendo cura. Ovviamente sto piantando anche adesso, e poi raccoglierò ancora, e ancora.

Durante le Audizioni Live, parlando della tua precedente esperienza al Festival, quando con la formazione LaForesta sei stato selezionato tra i 16 finalisti del concorso, hai parlato della necessità di fiorire anche in altri contesti e dimensioni. Cosa hai lasciato andare con il tempo? Da quali schemi sei riuscito a liberarti e quali, invece, continuano a tenerti intrappolato?
Con il tempo ho lasciato andare l’idea di dover arrivare, di dover raggiungere, di dover chiudere. L’idea che ci fosse un tempo specifico per fare o non fare. Ho invece accolto l’idea che anche le cose più importanti, a cui siamo più legati, a cui abbiamo dedicato la maggior parte delle nostre energie, della nostra volontà, del nostro amore, possano lasciarci, finire, dissolversi. E non saranno quelle che arriveranno con noi alla fine. Sono sicuramente intrappolato nella velocità con cui, anche il settore della musica, viaggia in questo momento. Spesso, per fortuna, non sto al passo, mi piace il fuoristrada, ma in ogni caso riconosco che influenza indirettamente il mio stato presente.

Hai vissuto alcune esperienze che pochi possono dire di aver fatto: due viaggi in bicicletta, uno in Marocco, l’altro dai Balcani alla Turchia. C’è qualcosa di quei giorni, di quegli odori, di quei suoni che ha influenzato, o pensi influenzerà, la tua produzione artistica?
Moltissimo di quello che succede in viaggio ritorna in quello che faccio. Viaggiare da solo in bici, per lunghissime tratte, mi mette davvero a nudo. Risulto vulnerabile, straniero ed esposto, ma anche curioso, innamorato di tutto e commosso. Ricordo bene i visi e le mani di chi mi ha aiutato, di chi ho incontrato sulla strada e con cui ho fatto un pezzetto di viaggio. Tutti i paesi, le cittadelle, i posti “di mezzo”, che mai avrei attraversato viaggiando in un altro modo. Ogni tanto mi succede di confondere i ricordi di un viaggio con quelli di un altro, i chilometri accumulati cominciano a essere davvero parecchi. Non ho mai scritto nulla di quello che vivevo in viaggio, né durante né dopo, non c’è traccia dei miei viaggi, se non dentro di me o in qualche finestrella aperta nelle mie canzoni.

Restiamo in qualche maniera all’estero: nel tuo brano Africano, canti: “Nasci dove nasci e muori dove vuoi”. Ecco, quanto ritieni relative le proprie origini e le destinazioni a cui si approda rispetto a tutto ciò che c’è nel mezzo, rispetto a un intero percorso di vita?
Le origini sono una ricchezza immensa, che forse stiamo perdendo senza accorgercene. Ovunque nel mondo, intendo. Magari è una mia sensazione, e sto sbagliando, ma la percezione che tutto stia diventando piatto, simile, sotto un unico grande tetto, è un sentimento che mi si ripropone ogni tanto. Non è ancora così, ovviamente, mi sembra però che la strada sia quella. Sarò contento, eventualmente, di essermi sbagliato. Poi chissà, le origini ci capitano addosso, non dipendono da noi ma da dove nasciamo, da chi nasciamo, però possiamo morire dove vogliamo creando nuove origini per chi verrà dopo. Allora siamo il principio e la fine al tempo stesso. Divino.

Pelle di lupo, selezionato dalla giuria di Musicultura per il tuo approdo tra i 16 finalisti del Festival, è invece un brano dalla carica sensuale molto esplicita. Perché hai scelto di dar voce senza filtri a un sentire tanto intimo come quello relativo alla sfera erotica, di cui spesso, al contrario di quanto fai tu nella tua canzone, si parla in maniera decisamente velata?
Parto dalla “pelle”, che è la prima a sentire del mondo: onesta, vera, finita, mortale, rovinata, usata. Mi immagino che parlerebbe così, senza filtri, come dice la domanda. Poi sono la testa e il cuore, che sono sotto la pelle, a fare casino. La natura più profonda che abita dentro di noi è come una bestia da domare. Parla un linguaggio diverso da quello umano, con modalità espressive differenti, che vengono spesso fraintese perché lontane dal processo evolutivo della nostra specie. Ogni tanto, però, nell’intimità di un gesto o di una confidenza, quella bestia si fa sentire forte e prepotente, lasciando le impronte del suo passaggio nella nostra vita e in quella di chi ci circonda. “Homo homini lupus”, dall’Asinaria di Plauto al De cive di Hobbes: oggi, chi siamo noi davvero, persone o ancora bestie?

INTERVISTA – Musicultura entra nella Notte di Silvia Lovicario

Nel percorso di Silvia Lovicario, la musica antica e quella contemporanea si fondono in una ricerca timbrica che si esprime anche nella scrittura dei suoi brani, sempre ricca di spazio per l’immaginazione. Con Notte, brano finalista di questa edizione di Musicultura, ha catturato l’attenzione per la sua capacità di trasformare l’ansia e il mistero dell’esistenza in una melodia che parla di relazioni, di scelte e di rinascita. In questa intervista, l’artista ci racconta il suo mondo, tra influenze musicali e futuro, in cui si immagina immersa nella natura, ma soprattutto, immersa ancora nella musica.

Silvia Lovicario alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Partiamo dalla tua formazione: hai studiato al Conservatorio di Brescia e alla Hochschule für Musik und Theater di Monaco, fondendo gli insegnamenti di canto moderno e contaminazioni Jazz allo studio di uno strumento particolare come la viola da gamba. Come si traduce questa varietà di influenze sul palco?
Sicuramente la trasposizione nel live avviene a livello timbrico. La viola da gamba – per come è stata concepita, ovvero sia strumento melodico che armonico – è molto versatile e la gamma sonora si può ampliare con pochi accorgimenti tecnici; ma al di là della questione “fisiologica” dello strumento, probabilmente la “differenza” stilistica di ogni musicista e/o autore è data dagli ascolti e dalle esperienze musicali. Avendo avuto la fortuna di potermi affacciare su due mondi che sembrano essere molto distanti, il jazz e la musica antica, ho notato che le matrici di provenienza erano simili. Le tradizioni popolari da cui si sono poi formate le correnti stilistiche che noi adesso possiamo catalogare – Rinascimento, Barocco, Opera, Swing, Be Bop, Free Jazz ecc. – sono uno fulcro importante, soprattutto per quanto riguarda una ricerca timbrica e ritmica. La musica antica e soprattutto il repertorio per viola da gamba fondano le loro radici nella musica mediterranea e medio orientale, il jazz nella musica africana – con tutte le sue declinazioni -, sudamericana ed europea. In tutto ciò ovviamente sono figlia del XX secolo e il rock è un’espressione che mi ha sempre affascinato; perciò, in un qualche modo potrei definirlo la mia matrice di provenienza.

Notte è un brano ricco di immagini evocative e accenna a una relazione tra due persone, tra sorte ed eternità. Evocare, appunto, lasciar spazio al non detto: pensi che questo sia uno dei motivi per cui la giuria di Musicultura ha scelto proprio questo pezzo selezionandoti tra i 16 finalisti del concorso?
Credo, e spero, che Notte sia un brano più accessibile. Rispetto a Prima, per esempio, che è un brano molto ermetico e rivolto più all’interiore che all’esteriore, Notte l’ho scritto proprio rivolgendomi all’ altr*. L’ho scritto in un periodo di forte agitazione e ansia: stiamo vivendo veramente un periodo degno di un film distopico- fantascientifico; la notte è il momento del riposo, è il mistero, il paradosso dell’esistenza, il morire per rinascere. Ma cosa succede quando la luce non arriva più a svegliarci?

L’altro brano che hai presentato sul palco al Festival, in occasione delle Audizioni Live, è appunto Prima. Stavolta il testo si fa quasi enigmatico: cosa intendi quando parli di “linea di vita” che ti porta a scegliere?
Prima è un brano che parla del coraggio delle nostre scelte, di scegliere attivamente chi siamo e chi vogliamo essere. La “linea di vita” è quel momento in cui capiamo che siamo qui e abbiamo noi le redini del nostro progetto, nessuno verrà al posto nostro per decidere cosa fare, e questa presa di coscienza è molto forte, sembra difficile ma in realtà è naturale. La “linea di vita” è il dono che abbiamo ricevuto col nostro primo respiro, magari non l’avevamo chiesto e facciamo fatica a prendere questo “incarico”, ma, in fondo, è la direzione più naturale che possiamo perseguire.

La tua scrittura, ancora. E di nuovo i tuoi testi, brevi e metaforici, che lasciano molto spazio alla composizione musicale. Perché questa scelta?
Quando scrivo sento il bisogno di lasciare molto spazio alla musica, alle frequenze e alle evocazioni timbriche; così provo a concentrare in pochi versi il messaggio della canzone. Mi piace dare spazio all’ ascoltatore e rendere l’esperienza polivalente a livello semantico, così che ognuno possa leggere nei miei brani qualcosa di personale ma non troppo esplicito nei contesti.

Chiudiamo guardando al futuro: Silvia Lovicario tra 20 anni si vede a…
Aiuto, domanda difficilissima. Mhm, tra 20 anni avrò 52 anni. Dove mi vedo? Magari in una bella casa immersa nella natura, con la mia compagna e, visto che sto sognando, ci sarà ancora Lemi, il nostro cagnolino. Sicuramente starò preparando un nuovo tour.

INTERVISTA – L’eco delle radici di ME, JULY a Musicultura 2025

Tra paesaggi interiori e sonorità elettroniche, ME, JULY è il nome d’arte dietro cui si cela una scrittura che è insieme racconto di sé e canto corale, esplorazione del presente e ritorno alle origini. Nato nella campagna campana e cresciuto tra studi da musicista e produzioni d’autore, Giuseppe Fuccio – questo il nome all’anagrafe dell’artista – si affaccia oggi al panorama musicale con Mundi, un EP che vibra di evocazioni dialettali, memorie ancestrali e una tensione costante tra intimità e spazialità sonora. A emergere in questa intervista della Redazione di Sciuscià è la figura di un trentenne che ha smesso di rincorrere affannosamente obiettivi e ha iniziato a raccontarsi, trovando nella musica un linguaggio aperto, poetico, profondamente radicato: «Mundi è nato dall’esigenza di sentirsi parte di qualcosa di incandescente e senza tempo». Ed è anche l’omonimo brano con cui ME, JULY prosegue il viaggio a Musicultura 2025, tra i 16 finalisti del Festival.

ME, JULY alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Il tuo progetto fonde sonorità che spaziano dal cantautorato all’elettronica, creando un equilibrio tra intimità e sperimentazione. Come hai costruito questa identità musicale? Ci sono stati momenti o influenze che hanno segnato particolarmente il tuo percorso?
Quando ho iniziato la scrittura dei brani dell’EP, l’immaginario ME, JULY, dal punto di vista artistico, è emerso lentamente. In questo progetto ho riversato la mia condizione di trentenne in preda a una rivelazione personale, non più legata al dover rincorrere un obiettivo con affanno bensì al raccontarmi e raccontare nel modo più sincero possibile. Nel ricercare ciò, i brani sono nati principalmente sperimentando sulla chitarra, che è il mio strumento principale, che in un secondo momento ho unito alle mie idee di contaminazione elettronica per descrivere al meglio le immagini delle canzoni.

Il legame con la Campania emerge con forza nel tuo EP Mundi, sia nei testi che nelle atmosfere sonore. Quanto la tua terra d’origine influenza il tuo modo di scrivere e raccontare? È una fonte di ispirazione concreta o un filo invisibile che ti accompagna ovunque?
Il legame più forte lo avverto con i luoghi strettamente di contorno alla casa di campagna in cui sono nato e cresciuto: i paesaggi, gli scorci, i colori, l’aria e lo spazio che la circondano sono stati per me sempre un luogo d’ispirazione, una dimensione in cui raccogliermi e dar vita ogni volta a qualcosa di nuovo. Il mio modo di raccontare si basa spesso sulla volontà di descrivere le emozioni e le immagini in modo “ampio” dal punto di vista sonoro, in cui riconosco fondamentale la spazialità che ho sempre contemplato nei luoghi della mia origine.

Il brano con cui sei stato selezionato tra i 16 finalisti di Musicultura è Mundi, omonimo del tuo EP, un pezzo che intreccia immagini evocative e una forte componente identitaria, alternando italiano e dialetto; trasmette un senso di radicamento, ma anche di trasformazione. Come è nato e cosa rappresenta per te? Il dialetto è una scelta stilistica o un’esigenza espressiva che amplifica certe emozioni?
Il brano Mundi, che appunto dà il titolo al mio primo EP, rappresenta per me un momento di profonda meditazione emotiva e di consapevolezza artistica. Negli ultimi tre anni vissuti a Milano, ho avvertito un forte richiamo delle sonorità popolari meridionali che fino ad allora non avevo mai pensato potessero appartenere al mio modo di raccontare. Il periodo di lontananza da quelle sonorità ha reso catartica la mia riscoperta della musica popolare e del suono dei dialetti del sud che ho avuto modo di scoprire in nuove forme. In Mundi ho cercato di esprimere poeticamente e musicalmente l’amore viscerale della terra verso i propri figli, il prendersi cura senza pretendere nulla in cambio. Una canzone nata dall’esigenza di sentirsi parte di qualcosa di incandescente e senza tempo. Le varie influenze dialettali del ritornello – tra cui il campano, il salentino, il siciliano e il calabrese – amplificano l’urgenza espressiva di questo sentimento.

Musicultura è un festival che valorizza progetti con una forte identità e lontani dalle logiche prettamente commerciali. Come hai vissuto questa esperienza? Ti ha fatto scoprire qualcosa di nuovo su te stesso o sul tuo modo di portare la tua musica dal vivo?
Assolutamente sì. Esibirsi sul palco del teatro Lauro Rossi, durante le Audizioni, è stato incredibile. Ho vissuto quell’esperienza con grande concentrazione e consapevolezza, senza appesantirmi di pressioni immotivate. Ho molto ben chiaro il tipo di crescita e di percorso che ho fatto prima di scrivere l’EP Mundi, per questo mi sono sentito totalmente a mio agio nel momento del confronto con quel palco. Certo, non potevo esserne pienamente sicuro prima di esibirmi, ma è stato un momento di piacevole introspezione.

Se dovessi immaginare il tuo percorso musicale nei prossimi anni, cosa speri di costruire? C’è un suono o una direzione artistica che senti di voler esplorare maggiormente, o un aspetto del tuo progetto che vorresti sviluppare in modo più profondo?
Il mio linguaggio musicale è il risultato di un percorso artistico fatto di varie esperienze come musicista, autore e producer. Questo primo lavoro in studio da solista mi sta portando in una direzione che si lega inevitabilmente alla necessità di comunicare a un pubblico la mia personale visione musicale. Spero di evolvere, col tempo, proprio quella capacità comunicativa, continuando a sperimentare sia dal punto di vista poetico che sonoro.

INTERVISTA – Simona Boo e Bimbi di Fumo: un’intesa fatta di ideali comuni e libertà espressiva

Sono bastati tre anni per portare Simona Boo e Bimbi di Fumo a una sintonia artistica che, nonostante la giovane età del gruppo, formatosi nel 2022, sembra scaturire da una vita insieme. La connessione del trio – composto oltre che da Simona da Luigi Di Costanzo e Luigi Orlando – nasce dal comune amore per la musica e dalla condivisione degli stessi ideali, cementificati dalla libertà artistica, e pratica, di non doversi porre limiti nella ricerca e nell’esecuzione, nonché dalla volontà di voler produrre musica che piaccia in primis a loro stessi. Il racconto musicale che ne scaturisce è un dipinto in cui notevole è la capacità di delineare chiare immagini sonore, tratteggiando spaccati di realtà, poi tramutati in brani, che vanno al di là delle parole, non relegando mai il suono a semplice accompagnamento, ma anzi mettendolo in primo piano. Un esempio di questa fusione è Simun, il pezzo col quale sono stati selezionati tra i 16 finalisti di Musicultura, che porta in scena, grazie alla delicata elettronica e all’arpeggio fluido delle chitarre, l’idea
del deserto come immaginario di un tempo che scorre lento e sinuoso, contrapposto ai ritmi incalzanti e spezzati tipici della realtà urbana.

Simona Boo e I Bimbi di fumo alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Simona Boo e Bimbi di Fumo è un progetto nato solo tre anni fa, ma sul palco delle Audizioni Live avete mostrato una notevole affinità, fondendo raffinatezza e intensità espressiva, grazia e passione, tanto che sembrava vi conosceste da molto più tempo. Come è nato il vostro trio e da dove arriva questa connessione così forte?
Il trio nasce dall’unione di due realtà che hanno come comune denominatore Luigi Di Costanzo, e dalla volontà di tutti e tre di cercare qualcosa di nuovo, un suono caratteristico; la forte connessione nasce sia dalla ricerca collettiva di un determinato timbro – riuscendo a vedersi e a lavorare in maniera autoprodotta, quindi senza porsi limiti di tempo e di sperimentazione ed essendo disposti anche a cestinare tutto dopo una giornata intera -, sia dal fatto che, fuori dalle “mura musicali”, ci troviamo bene insieme e riusciamo a
condividere diversi momenti belli. Insomma, tutto parte dal desiderio comune di creare una musica per noi, che piacesse prima di tutto a noi, e da ciò che ci lega: la passione per la musica, appunto, e la voglia di voler comunicare messaggi di pace, di amore e di fratellanza da contrapporre a questo mondo violento, scorretto, incoerente e falso.

Il vostro nome d’arte prende ispirazione dalla canzone Il Bambino di Fumo di Lucio Dalla, che affronta il contrasto tra la città e la natura, simbolizzando la fragilità e il desiderio di ritorno alla purezza. Come mai avete scelto questo riferimento e in che modo rispecchia il vostro percorso musicale e il messaggio che volete trasmettere?
Ci sono tante motivazioni. La canzone Il Bambino di Fumo apre e chiude con i suoni della città, il traffico, i clacson, e un rumore di passi; descrive una città indefinita che potrebbe essere anche Napoli e a rafforzare quest’idea è il canto a fronn’ ‘e limone – canto libero – sul finale. Ma più che allo smog ci è piaciuto molto associare l’idea di fumo alle fumarole vulcaniche dei Campi Flegrei, che è il territorio sul quale viviamo tutti e tre. Inoltre, tutti e tre siamo decisamente dei bambini che amano ancora giocare e sognare e che
condividono appunto la stima per Lucio Dalla, per cui la scelta di questo nome ci è sembrata coerente coi nostri gusti. E anche con i nostri ideali: il brano è attualissimo nella sua denuncia ai problemi ambientali di inquinamento provocati dall’uomo.

I vostri brani nascono dall’intreccio delle idee di tutti e tre i componenti. Come funziona concretamente il vostro processo creativo? Come riuscite a bilanciare le vostre diverse influenze musicali e a far confluire nel progetto le esperienze artistiche che avete maturato nei vostri percorsi precedenti?
I modi in cui nascono i nostri pezzi fino a oggi sono stati sempre tutti diversi. Il processo creativo cambia a seconda dei brani, che partono da scheletri definiti dal rapporto tra melodia, accordi e testo; la fase di produzione, poi, spesso prende piede da un’idea di timbro, di suono, ma anche di immagini, o di scenari. Diventano fondamentali, dunque, le varie influenze musicali e i diversi ascolti, perché il risultato finale è una commistione di tutti questi ingredienti, con la continua sfida di creare qualcosa di nuovo ma soprattutto
di identitario.

Uno dei brani che avete presentato alle Audizioni di Musicultura, Tutt’ e Culure, trasmette un forte messaggio di inclusione e apertura al mondo, e lo fa in napoletano, la lingua legata alle vostre radici. Per voi, usare il dialetto è un modo per rafforzare la vostra identità o lo sentite come un ponte verso l’universalità, anziché un confine?
Il napoletano, in generale, è una lingua particolarmente musicale, ha al suo interno dei suoni che in maniera onomatopeica già ti riportano al senso della parola; ha una sua scansione metrica e melodica già nel parlato e i tipici ornamenti a “fronna” avvicinano la voce a uno strumento non ben definito, e viceversa uno strumento suonato in un certo modo può assomigliare a una voce umana. La lingua napoletana è fortemente identitaria, e rafforzare la nostra identità attraverso il suo utilizzo è sicuramente una nostra prerogativa.

Sempre in Tutt’ e Culure parlate di unire i colori, senza paura di mescolare culture diverse. Musicultura raccoglie artisti da background, stili e origini differenti, rappresentando un po’; questo stesso incontro. Ora siete tra i sedici finalisti del Festival con il brano Simun: cosa vi aspettate da questa esperienza in termini di crescita e scambio musicale?
Già prima di partire, alcuni colleghi che avevano partecipato alle edizioni precedenti ci avevano descritto una meravigliosa atmosfera tra i concorrenti, dietro le quinte, con il pubblico, la giuria e lo staff tecnico. Questa descrizione non è stata smentita dall’esperienza delle Audizioni, durante la quale abbiamo scoperto degli artisti di grande talento e originalità con i quali, a prescindere
dall’esito del concorso, sarebbe un piacere collaborare e scambiare idee. E poi ci fa molto piacere aver avuto un riscontro così positivo da farci arrivare tra i 16 finalisti. L’aspettativa, o la speranza, è ora quella di poter riuscire a vivere di musica in un’epoca sempre più difficile per questo ambito e non solo. Poi, sicuramente, è anche quella di continuare a scrivere per portare la nostra musica e il nostro messaggio a tanti.

INTERVISTA – La Ballata dell’Inferno di Elena Mil

Cresciuta tra folk e tango argentino, Elena Mil porta con sé una grande eredità artistica. Da sempre divisa tra il teatro e la musica, ha saputo trarre da entrambe le discipline un’energia unica, che oggi la guida nella la sua carriera musicale. Con la canzone Ballata dell’Inferno, è tra i finalisti di Musicultura XXXVI, un traguardo che segna solo l’inizio di un progetto artistico più ampio. In questa intervista, ci racconta del suo percorso, delle influenze familiari, della sua passione per le parole e del suo debutto imminente con un album che promette di essere un viaggio emozionante e personale.

Elena Mil alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Provieni dal teatro e con la compagnia teatrale del tuo liceo hai girato l’Italia. Nel 2019 hai ottenuto una menzione d’onore per l’interpretazione del Corifeo nell’Antigone di Sofocle. Cosa ti porti dietro di quell’esperienza artistica? Ti ha insegnato qualcosa che ti è stato utile per la tua carriera musicale?
Il teatro è una dimensione per me fondamentale. L’esperienza come attrice mi ha fatto scoprire l’intensità del contatto con il pubblico dal vivo in un modo a cui non riesco più a rinunciare. Ciò che amo di più quando mi esibisco è proprio questa connessione, unica ed estemporanea, che a volte s’instaura con gli ascoltatori presenti. Mi diverte molto registrare in studio, ma quando scrivo parto sempre dalla necessità di dire qualcosa a qualcuno. In questo senso, un aspetto che porto dal teatro alla musica è il desiderio di raccontare storie e personaggi – o, meglio ancora, persone – attraverso le mie canzoni. Essere abituata alla necessità che in teatro sia “buona la prima” è sicuramente una grande risorsa sul palco, che mi permette di coinvolgere l’audience in modo autentico. Forse sono ancora quel Corifeo, che sente il compito e l’onore di narrare a chi ha di fronte qualcosa di importante.

L’arte ti accompagna da sempre: sei cresciuta immersa nella musica folk e nel tango argentino, sulle orme di un padre musicista e di una madre ballerina. Com’è stato vivere un ambiente così stimolante? Quale il valore aggiunto al tuo percorso?
I miei genitori sono stati insieme per poco, ma quei cinque anni hanno lasciato un’impronta profonda. Vivere nella musica e in un continuo dinamismo per me era la normalità, fra i concerti di papà seguiti da dietro le quinte e le milonghe dove si ballava tango fino a tarda sera. Non ricordo la mia casa di allora come un luogo, ma come quelle intense emozioni che in tre condividevamo, soprattutto la gioia. Senza che volessero insegnarmi qualcosa, entrambi mi hanno mostrato il proprio modo di esprimersi attraverso la musica e nella performance dal vivo. Questa necessità di dire me stessa attraverso l’arte ha abitato anche me in modo spontaneo fin da piccolissima e ancora oggi mi sembra l’unico modo possibile di vivere.

Il brano con cui hai avuto accesso alla finale di Musicultura, La Ballata dell’Inferno, racconta della discesa agli inferi di una ragazza che afferma di essere “morta di niente”: volevi confrontarti col senso di colpa e l’innocenza che sembrano risuonare per tutto il brano?
Adoro il fatto che ogni persona che ha ascoltato La Ballata mi abbia restituito un’interpretazione diversa; per questo cercherò di non spiegare un significato. Quando l’ho scritta avevo sedici anni ed ero attraversata da un grande senso di smarrimento. Anche oggi i dubbi mi rincorrono e spesso mi lasciano senza una spiegazione di fronte al dolore. Non so se la ragazza “dalla bella voce” si senta in colpa, ma di sicuro si sente accusata. Quel “niente” con cui si confronta è un vuoto incomprensibile: origine di un dolore che in qualche modo la giustifica -“qui c’è chi ha ammazzato la gente, io non ho fatto niente” – , ma allo stesso tempo è proprio ciò da cui vuole fuggire. È innocente o ha perso quest’innocenza quando ha scelto l’inferno? Quale che sia la risposta, la sua condanna finale lascia sconcertati: c’è una stortura nel mondo da cui nemmeno morendo si riesce a scappare.

Nei tuoi pezzi appare evidente la ricerca sul significato delle parole e sul loro suono: quando componi parti dal testo per poi costruire intorno la melodia o viceversa? Componi e scrivi sempre da sola o collabori anche con altri autori?
Non ho mai collaborato con altri, ma deve essere divertente e voglio presto provare. Finora ho composto sempre da sola, lontana da tutti, in uno stato di tale concentrazione che, anche se qualcuno mi parla, non me ne accorgo. Se mi metto a dar forma a un nuovo pezzo è per dire qualcosa di intimo e questa solitudine mi permette di mantenere pieno controllo creativo sia sul testo che sull’idea musicale. Di fatti, quando scrivo parto sempre da un’emozione ed è da questa che sgorgano insieme testo e melodia: per me non esistono parole giuste a prescindere dal loro suono, e suoni giusti a prescindere dalla nota in cui respirano. La voce e lo strumento hanno la funzione di esprimere con la maggior fedeltà possibile l’emozione da cui sono partita. In questo senso, assonanze, consonanze, rime e ritmo all’interno dei testi, oltre a fare da controcanto alla melodia, costituiscono una parte essenziale del significato del brano a cui dedico molta attenzione.

Nella tua nota biografica parli di un disco quasi pronto, con 14 canzoni già scritte. Puoi anticiparci qualcosa di questo progetto?
Anche se scrivo nell’ombra da tanti anni, il mio progetto musicale è giovane: ha appena compiuto un anno. C’è molto che voglio imparare, soprattutto attraverso le collaborazioni – in parte già avviate- per arricchire gli arrangiamenti dei brani. Mentre il mio stile vocale è riconoscibile, sperimentare con altri musicisti mi sta aiutando a trovare la stessa personalità anche in ambito strumentale. Ciò su cui credo di avere una visione già abbastanza matura sono i contenuti: dietro a tutte le canzoni scritte finora c’è una direzione coerente. L’album sarà la forma più adatta per raccontare quest’unica grande storia, i cui protagonisti sono donne in conflitto più o meno aperto con la società e uomini che vogliono, ma non sanno come amare.

INTERVISTA – Belly Button e il Coro Onda a Musicultura

Belly Button, nome d’arte di Sergio Gabriele Bruni, è un progetto musicale che affonda le radici nel potere catartico della musica. Il suo stesso pseudonimo, che in inglese significa “ombelico”, richiama la prima ferita di ogni essere umano: il distacco dalla madre con il taglio del cordone ombelicale. Ed è proprio dalla necessità di elaborare e trasformare le proprie fragilità che nascono la sua musica e un percorso artistico che si fa strumento di riscatto e consapevolezza. Il suo sound fonde le sonorità urban rap con l’intensità evocativa del gospel, dando vita a un’identità stilistica capace di coniugare l’espressione personale e collettiva con l’impatto emotivo. Dall’esigenza di arrangiare la musica in questa chiave, nel 2023 prende forma il Coro Onda, una formazione diretta da Asja Martorelli e composta da giovani della periferia romana, con l’obiettivo di amplificare la forza del messaggio grazie all’armonia delle voci. Oggi,Belly Button e il Coro Onda sono tra i 16 finalisti di Musicultura con Credo, un brano che, attraverso un’ironia pungente, denuncia le difficoltà delle nuove generazioni nel costruirsi un futuro in un contesto sempre più precario e complesso.

Belly Button e il Coro Onda alle Audizioni di Musicultura 2025

Belly Button nasce come progetto solista e, nel febbraio 2023, si unisce al Coro Onda, diretto da Asja Martorelli, pubblicando il singolo Credo. Abituato a un processo creativo da solista, come ti sei trovato a lavorare in team con il coro?
Ho iniziato a scrivere canzoni a 14 anni per l’esigenza di esprimermi e di trovare un posto nel mondo. Il mio progetto solista mi ha permesso negli anni di scrivere moltissimo e di trovare la mia dimensione artistica, maturando la solidità necessaria per lasciarmi influenzare da idee e persone, senza per questo perdere la mia identità. Il Coro Onda ha rappresentato e rappresenta il
punto di arrivo di questo percorso, ma anche un punto di partenza per arricchire la mia musica di sonorità sempre nuove e complesse.

Il genere con cui ti sei proposto a Musicultura, l’urban gospel, è poco comune nella scena cantautorale contemporanea. Davanti al tuo stile così distintivo, come ti è sembrata la risposta che hai ricevuto dal pubblico del Festival?
La risposta del pubblico davanti al nostro spettacolo è sempre un’incognita per noi. L’esibizione è piuttosto inusuale, soprattutto in Italia, dove non esiste nel DNA culturale la musica gospel. Per esempio, durante un’esibizione, indossando le tuniche che io stesso ho disegnato per la performance, un ascoltatore ha urlato: “Ecco le suore!”. Poi però parte la musica e inizia la magia! Il pubblico di Musicultura ci è sembrato molto aperto e disponibile a confrontarsi con qualcosa di diverso.

Nel gospel, il corpo e il movimento sono parte integrante dell’espressione musicale. Come vivi l’aspetto della performance sul palco? E in che modo, secondo te, il gospel moderno si sta evolvendo dal punto di vista scenico?

Per noi è un aspetto essenziale. Ascoltare su Spotify la nostra musica trasmette energia ed una forte carica, ma assistere al nostro spettacolo, guardare 20 persone cantare e ballare, è un’esperienza. Il gospel moderno, soprattutto all’estero, sta evolvendo aumentando il numero di persone che si esibiscono sul palco. L’effetto è bellissimo. Noi abbiamo scelto di andare ancora oltre, inserendo coreografie che arricchiscano ulteriormente lo spettacolo, disegnando la nostra musica. Inizialmente il coreografo con il quale collaboriamo doveva aiutarci solo a coordinarci, ma alla fine ci siamo trasformati ed evoluti in ballerini – i membri del coro decisamente più di me!-.

Nei tuoi brani, nei quali ritmo, melodie e cori giocano un ruolo fondamentale, quanto peso ha la parola? Preferisci modellarla in funzione della sua musicalità, integrandola nel suono, o darle un peso più poetico per trasmettere un messaggio più chiaro?
La musica per me è un’esigenza pura di espressione, per questo i testi restano centrali. Nasco cantautore, ascoltatore e amante del cantautorato italiano, non posso quindi non portare quel background nella mia musica. Al contempo, oggi è possibile anche veicolare un messaggio tramite altri linguaggi, spesso molto efficaci, come quello visivo. Secondo me sono tutti ingredienti che devono coesistere ed essere strumentali gli uni agli altri.

Nella vostra biografia si parla di una missione che mira a dare voce a chi spesso non ne ha. In che modo questo principio si riflette nel tuo percorso artistico? Cerchi ispirazione dalla realtà che ti circonda per trasformarla in musica?

Certo. Fin dalle prime esibizioni, in maniera ancora non totalmente comprensibile, il progetto ha attratto persone che sentono il reale bisogno di potersi esprimere ed avere una propria voce, che percepivano di aver perso come singoli e hanno ritrovato come membri di questa famiglia. La magia è che questo trasporto emotivo viene trasmesso ai nostri ascoltatori: così i nostri concerti diventano una casa per chi non ha un luogo per sentirsi semplicemente bene essendo se stesso; diventano, insomma, “un posto per chi non ha posto”.