Quintorigo e Gino Castaldo, jazz sotto le stelle a Lunaria 2023

L’edizione 2023 di Lunaria, la rassegna estiva recanatese, inizia sull’Orto sul Colle dell’Infinito con “Mingus, la storia di un mito”, lo spettacolo che, con i poliedrici Quintorigo e il giornalista Gino Castaldo, rievoca la spiritualità di Charles Mingus, l’intramontabile leggenda del jazz.

Quintorigo

Quintorigo è un ensemble di talentuosi musicisti e cantanti formatosi nel 1996, che operano nelle vie infinite del jazz.

La loro carriera nasce come cover band ma è nel ’98 con il disco autoprodotto Dietro le quinte che trovano la vera identità musicale del gruppo. Al Festival di Sanremo 1999 si fanno conoscere al grande pubblico con Rospo e si aggiudicano il Premio della Critica nella sezione “Giovani” e quello della Giuria di qualità. Lo stesso anno grazie a Rospo vincono la Targa Tenco per la miglior opera prima.
Mingus, la storia di un mito è una trasposizione del progetto Play Mingus, che nasce come nasce il jazz, ovvero suonando dal vivo, mentre si celebra l’amore incondizionato da parte del gruppo nei confronti di Charles Mingus.

Gino Castaldo

La dialettica tra musica ed effetto nostalgia dello spettacolo è nelle mani di Gino Castaldo, critico musicale, scrittore per Repubblica e curatore del settimanale Musica insieme ad Ernesto Assante.

I suoi aneddoti, che abbiamo ritrovato anche all’interno dello spettacolo, sono il frutto di una lunga carriera, fatta di radio, tournée, televisione, rubriche specializzate, libri e molto altro ancora.

L’intervista

Quintorigo, nel 2008 avete realizzato Quinto – Play Mingus il vostro primo album dedicato alle composizioni di Charles Mingus. In occasione del centenario della sua nascita è arrivato il secondo disco Play Mingus vol.2. Com’è stato riprendere in mano una figura del genere, selezionare le canzoni da inserire nel nuovo album e farle vostre?

Valentino Bianchi, sassofonista dei Quintorigo: «Beh, certo. Il primo lavoro fu pionieristico e fu una scommessa. Non ci credevamo molto neanche noi per quanto la figura di Mingus ci attraesse magneticamente fin da ragazzini. In quel mondo era l’autore che ci diceva di più e che ci risuonava di più anche per il suo approccio così sperimentale, contaminato, libero. Invece, il disco andò molto bene, vinse anche qualche premio e suonammo tanto in giro. Ci è tornata la voglia semplicemente, anche perché una discografia smisurata come la sua non può essere riassunta da 12 tracce. Quindi approfittando effettivamente del centenario, l’anno scorso, abbiamo deciso di realizzare un Quintorigo – Play Mingus vol.2. Ci sarà forse anche un terzo, perché non basta mai. Però anche con un approccio, se vogliamo, un po’ diverso nell’arrangiamento, nella scelta dei brani. Abbiamo cercato il Mingus “più roots”, se vogliamo, quello più vicino al gospel, allo spiritual, che sicuramente era una vena che faceva parte della sua poetica. E così dal disco è nata una proposta live un po’ particolare che si avvale della collaborazione di Gino Castaldo che, rispetto a noi, ha avuto la grande fortuna di conoscerlo e di frequentarlo. Per questo, è uno spettacolo soddisfacente sia dal punto di vista musicale che della narrazione.»

Con la partecipazione di Gino Castaldo lo spettacolo si arricchisce di una componente narrativa importante che ci accompagna analizzando e facendoci comprendere meglio la figura e la musica di Mingus. Come è nata questa collaborazione e perché un normale concerto non sarebbe stato sufficiente per raccontare una personalità del genere?

Gino Castaldo:  «Allora diciamo che i Quintorigo bastavano a sé stessi tranquillamente.» ·
Valentino Bianchi:  «Come Gino Castaldo, eh!»
(ridono)
Gino Castaldo:  «Mi arrivò questa telefonata. Evidentemente loro avendo già fatto un percorso su Mingus e dovendo farne uno nuovo hanno pensato a delle cose. Morale, mi è arrivata questa telefonata dicendo – Ma se mai dovessimo… che dici? – E loro quando me l’hanno fatta questa domanda, non sapevano neanche che io avessi anche avuto la conoscenza e quindi la prima cosa che ho detto – Dico guarda, andate a toccare anche un tasto emozionante per me – perché io ho avuto anche un paio di aneddoti di cui uno molto personale che ovviamente qui non anticiperò perché è la sorpresa. Quindi ho aderito con entusiasmo. Poi io penso, ripeto, loro bastano e avanzano a sé stessi. Però queste forme, io lo sto facendo anche in altre occasioni, queste forme di narrazione collegate alla musica mi sembrano una bellissima direzione e l’abbiamo fatto alcune volte. C’è sempre piaciuto molto farlo perché mi sembra un’interazione che ha un senso anche poeticamente devo dire, no?»
Valentino Bianchi:  «Assolutamente.»
Gino Castaldo:  «A me non piace fare le cose didascaliche, quindi il mio non è un racconto didascalico. Sì, racconto delle cose, ma è anche, almeno spero, evocativo.»

Mingus, grande musicista e compositore che ha saputo unire generi diversi in una musica ricca di contaminazioni con al centro il suono, allo stesso tempo anche una figura impegnata politicamente. Quanto può essere attuale una figura come la sua oggi e cosa possono imparare da lui musicisti e non solo?

Gino Castaldo:  «Questo è difficile, risponde lui.»
Valentino Bianchi:  «No, Gino, sei tu il musicologo. (ridono) Ammazza questa…
In realtà il motivo per cui tutto questo c’è, esiste, sussiste, fondamentalmente non è per le nostre tasche, che non cambia più di tanto. È proprio per far conoscere un gigante come Mingus ad una popolazione, diciamo italiana, che suo malgrado magari non lo conosce o non lo conosce abbastanza. Quindi c’è un intento divulgativo in tutto questo. Chi esce da qui va a comprare un disco di Mingus? Bene, più che il nostro o i libri bellissimi di Gino noi siamo più contenti se uno si va poi a cercare l’originale, quindi sicuramente c’è quello. E poi c’è il piacere nostro da musicisti di reinterpretarlo.»
Gino Castaldo:  «Guarda, posso aggiungere che, se c’è un motivo per questa cosa che facciamo è perché oggi non esistono cose simili. Cioè, stiamo parlando di un gigante come Mingus, ma potremmo farlo anche in altri campi, in altri generi, filoni della musica. Sono personalità che oggi non ci sono, quindi probabilmente anche per questo hanno molto da insegnare a tutti. È materiale vivo non è museale, è qualcosa che non a caso viene suonato dal vivo. Raccontato dal vivo.»
Valentino Bianchi:  «Bravo, sì.»
Gino Castaldo: «Perché è qualcosa che tutti possono e dovrebbero, anzi, utilizzare oggi, oggi anche se è materiale di qualche anno fa.»




 

Rivivi le emozioni della finalissima di Musicultura su RaiPlay

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Il meglio di Musicultura 2023, andato in onda su Rai 2 in seconda serata il  6 luglio e contemporaneamente trasmesso nel mondo da Rai Italia, è ora disponibile su RaiPlay.
La XXXIV edizione del Festival della Canzone Popolare e d’Autore italiana, con media partner Rai, si svolge nelle Marche, nel meraviglioso scenario dello Sferisterio di Macerata e vede quest’anno per la prima volta alla conduzione Flavio Insinna e Carolina Di Domenico.

Tra gli ospiti Simone Cristicchi e Amara, Fabio Concato, Paola Turci, Santi Francesi, Ermal Meta, Dardust. Con essi i vincitori del concorso di Musicultura, che è già stato il trampolino di lancio per artisti come Gianmaria Testa, lo stesso Simone Cristicchi, Pacifico, Fabio Ilacqua, Mannarino, Margherita Vicario, La Rappresentante di Lista, Santi Francesi e tanti altri.
I vincitori dell’edizione 2023 del concorso, nominati dal Comitato Artistico di Garanzia, sono Lamante, Santamarea, AMarti, Zic, Ilaria Argiolas, Cristiana Verardo, cecilia, Simone Matteuzzi.

Tra le peculiarità della manifestazione c’è da segnalare la possibilità che è data agli spettatori dello Sferisterio di votare ed elegge il vincitore o la vincitrice assoluta. Il programma, firmato da Matteo Catalano ed Ezio Nannipieri con la regia di Duccio Forzano e con Cristiano D’Agostini delegato Rai, vede anche la partecipazione di Rai Radio1, la radio ufficiale di Musicultura, che segue l’evento con Marcella Sullo, Duccio Pasqua e John Vignola.
Completano e impreziosiscono il racconto della manifestazione RaiNews 24, Tgr Rai e RaiPlay Sound.

“Adesso è il momento di navigare a vele spiegate”- Intervista ai Santamarea

Sono i vincitori assoluti del Festival. E mai definizione fu più appropriata. Perché oltre al Premio Banca Macerata si sono aggiudicati anche il Premio per il Miglior Testo, il Premio della Critica e il Premio -PMI per il Miglior Progetto Discografico. Un en plein, insomma. Ora, a pochi giorni dalla conclusione del Festival, i Santamarea – gruppo palermitano composto dai tre fratelli Stefano, Michele e Francesco Gelardi e dalla loro amica d’infanzia Noemi Orlandi – ripercorrono insieme alla redazione di Sciuscià tutte le tappe del loro incredibile viaggio, dalle Audizioni Live alla finalissima del 24 giugno, raccontando le emozioni vissute sul palco dello Sferisterio e anticipando alcuni dettagli sui progetti futuri.

«Siamo partiti da Palermo pensando di voler fare semplicemente un’esperienza di crescita»: leggendo queste parole si intuisce lo spirito costruttivo che vi ha portato a Musicultura e soprattutto quanto il finale di questa storia sia stato per voi sorprendente. A chi dedicate questa vittoria?

Dedichiamo questa vittoria simbolicamente a nostro nonno Stefano, che fu cantante e musicista negli anni Sessanta, in Sicilia, morto poco dopo il concerto di Recanati, proprio quando era da poco uscito il singolo Santamarea. Il suo papà gli nascose la lettera di invito a Castrocaro, impedendogli di realizzare i suoi sogni, ma vedendo in noi la stessa scintilla che aveva sempre avuto lui, si è impegnato per farla diventare un fuoco. E ci è riuscito. Nonno Stefano era il nostro primo fan: a lui va il nostro ringraziamento.

Il percorso dei Santamarea a Musicultura è stato sempre in crescita: dalle Audizioni Live fino allo Sferisterio avete conquistato sempre di più il pubblico che vi ha scelti come vincitori assoluti. C’è qualcosa che cambiereste o sentite di aver vissuto pienamente l’esperienza del Festival?

Abbiamo vissuto questo percorso con l’ingenuità di chi si lancia in un’esperienza grande e con una sincera voglia di migliorare che ci ha spinto a vivere ogni momento a pieno.
Fase dopo fase, abbiamo sempre cercato di dimostrare, appunto, la nostra crescita, prendendo a cuore tutti i consigli e le critiche, che ci sono sempre state poste con garbo. Quindi possiamo dire di aver vissuto al massimo la nostra esperienza al Festival e ci rende davvero fieri e contenti l’idea di essere stati premiati anche per questo.

Durante le serate finali John Vignola ha dichiarato che Musicultura è certamente un concorso, ma si configura più come una grande festa della musica senza alcun antagonismo tra gli artisti. Che rapporto c’è stato e continua a esserci con gli altri artisti che avete incontrato durante tutte le fasi della manifestazione?

Sin dal primo momento in cui ci siamo conosciuti, si è immediatamente creato un rapporto di sintonia artistica e sostegno reciproco. Il fatto che durante le serate finali allo Sferisterio, prima di salire sul palco, cantassimo gli uni le canzoni degli altri ne è la dimostrazione. L’ambiente di Musicultura è decisamente felice; è un posto sano in cui si respira un’aria che consente di raccontarsi i percorsi artistici senza paura, di scambiarsi esperienze, contatti e consigli che contribuiscono alla crescita artistica di tutti i partecipanti e alla costruzione di momenti di amicizia e divertimento che porteremo sempre nel cuore.

Avete vinto il Premio della Critica, il Premio Miglior Progetto Discografico, il Premio per il Miglior Testo e l’ambito Premio Banca Macerata del valore di 20.000 euro. Adesso è il momento dei festeggiamenti, ma la domanda sorge spontanea: quali sono i progetti per il futuro sui quali investirete?

Siamo passati a casa soltanto per posare le valigie e poi siamo corsi subito in studio di registrazione. Adesso è il momento di navigare a vele spiegate e abbiamo quindi deciso di anticipare progetti che erano stati programmati per un futuro un po’ più lontano. Stiamo scrivendo, registrando, preparando contenuti multimediali e programmando le date per i live. Non vediamo l’ora di farvi sentire e vedere i prossimi passi dei Santamarea. Questo è solo l’inizio.

Un consiglio musicale per chi vi ascolta. Quali sono i cinque brani che non possono assolutamente mancare nella playlist dei Santamarea?

Sicuramente un brano come Dog Days Are Over di Florence and The Machine, Breezeblocks degli Alt-J, Perth di Bon Iver, Water Fountain dei Tune Yards e La Casa in Riva al Mare di Lucio Dalla.

“Svestire le canzoni per renderle vive” – Ermal Meta a Musicultura 2023

Non è la sua prima volta come ospite di Musicultura. E infatti Ermal Meta racconta del suo legame con il Festival ai microfoni di Rai Radio 1 già nell’incontro pomeridiano in Piazza Mazzini per La Controra. Poi l’esibizione durante la seconda serata finale allo Sferisterio con i musicisti dello GnuQuartet. Sale sul palco intonando Un tempo piccolo, omaggio al maestro Franco Califano; dopo, regala al pubblico le sue Piccola anima e Mi salvi chi può addobbate di viola, violino, violoncello e flauto. Prima di questa magia, la sua intervista alla redazione di Sciuscià. Dopo due anni torna a calcare il palco di Musicultura, questa volta in compagnia dello GnuQuartet. 

Il vostro è un sodalizio artistico nato nel 2019, un “amore a prima vista” che vi ha portato in tour. Cosa vi ha spinto a riproporre la collaborazione come ospiti del Festival?

EM: È l’amore.
GQ: Sì è l’amore, insieme si crea ogni volta un’alchimia particolare grazie alla quale il meccanismo funziona, si mettono in moto energie che ci danno molta soddisfazione.
EM: Come esempio dico questo: ieri in una quarantina di minuti di prove, compresi di pausa, avevamo terminato. Sì, siamo partiti insieme in tour nel 2019 ed è stato bellissimo, è un piacere musicale suonare con loro, un piacere per le orecchie, non c’è altro modo di spiegarlo. Da amante della musica e musicista, posso consigliare a tutti del nostro mestiere di provare l’esperienza meravigliosa di condividere un palco con lo GnuQuartet.

Ecco, voi dello GnuQuartet vi siete esibiti nei teatri più suggestivi d’Italia, vestendo le canzoni di Ermal Meta con note di viola, violino, violoncello e flauto. Come scegliete il taglio giusto per ogni brano?

GQ: Ci siamo lasciati ispirare dai brani; abbiamo prima costruito degli arrangiamenti per poi provarli insieme. È stato un modo per portare a galla elementi e aspetti delle canzoni che rimanevano nascosti nella versione radiofonica. Ci siamo goduti la voce di Ermal e la sua musicalità in un modo che va al di fuori dei confini più stretti del beat o della ritmica, che solitamente non può crescere e diminuire durante un brano. Ci siamo presi degli spazi per lavorare con lui come un camerista, è il nostro musicista da camera. Con la voce però!

EM: È questa la cosa che mi ha colpito immediatamente del lavoro fatto insieme: hanno spogliato le mie canzoni, in realtà riempiendole, lasciando risalire ritmiche e suoni soffocati da alcuni confini musicali che normalmente si rispettano. Ho ascoltato delle canzoni nude, ma vivissime, a tal punto quasi da non riconoscerle.
Lui (Raffaele) se lo ricorda bene: la nostra prima prova è stata surreale perché ero talmente incantato nel riscoprire i miei lavori da non ricordare come suonarli. Mi sentivo un impostore addirittura, ascoltavo canzoni scritte da me ma completamente nuove.

Lei, Ermal, in diverse occasioni ha regalato al pubblico interpretazioni di brani che hanno fatto la storia del cantautorato italiano; ricordiamo tra tutti Amara terra mia di Domenico Modugno e Caruso di Lucio Dalla. Cosa cerca di trasmettere con la rilettura di questi brani?

Cerco di trasmettere l’emozione che attraversa me in primis. La mia è un’emozione fisica – veri e propri brividi – che mi permette di abbandonare la paura iniziale e comunicare con l’altra parte, senza aspettarmi che la persona che ho di fronte provi le mie stesse cose. Ognuno ha una sua intenzione, una sua spiritualità legata a questi grandi testi, talmente grandi che non possono non suscitare ricordi profondi. La stessa cosa, come dicevo, è accaduta con lo GnuQuartet. Il nostro sodalizio è stato, ed è, così bello proprio perché questi musicisti cercano di estrapolare l’emotività insita nelle canzoni che suoniamo insieme. La bellezza della musica è proprio questa:guardare cento volte la stessa cosa e notarla sempre nuova, perché cambia con te. La canzone diventa ciò che tu sei in quel momento. Non ci sono trucchi, c’è solo magia.

L’esibizione

Non solo musica. Lo scorso anno è stato pubblicato il suo romanzo Domani e per sempre, recentemente proposto al Premio Strega. È la storia di Kajan, un ragazzo che vive l’occupazione tedesca dell’Albania durante la Seconda guerra mondiale: la scoperta della musica gli dona una speranza in un momento fortemente tragico. Questo potere salvifico della musica si può leggere anche in relazione agli eventi contemporanei?

In relazione a tutto quello che sta accadendo nel mondo in questi anni, penso che la musica non possa salvare vite in senso strettamente fisico, ma sono convinto che possa salvare una parte della vita e guarire delle parti della nostra persona. Il romanzo che ho scritto, naturalmente, è ambientato in un periodo storico molto diverso, che va dalla Seconda Guerra Mondiale alle soglie degli anni Novanta, con la fine del regime albanese dopo la caduta del Muro di Berlino. Credo che nel nostro tempo la musica sia un bisbiglio di pace, che però rischia di non essere udibile nel frastuono delle armi.

Ha un profondo rapporto con la sua terra d’origine. La presenza albanese in Italia è molto forte, come dimostra la lunga tradizione della cultura arbëreshë – una contaminazione italo-albanese che si è radicata in alcune regioni del nostro Paese a partire dal Quattrocento. Conosce e partecipa alla vita di queste comunità?

Conosco molto bene la storia degli arbëreshë, anche se mi dispiace non poter partecipare attivamente alla loro vita per ragioni geografiche: io vivo tra Bari e Milano e queste comunità si trovano principalmente tra Calabria, Sicilia, Abruzzo e Molise. Invito tutti a scoprire la storia che ha spinto gli albanesi a lasciare la propria terra e ad arrivare in Italia perché è molto interessante: è una vicenda strettamente legata alle gesta di Giorgio Castriota Scanderbeg, eroe nazionale albanese, che ha riunito i principati e si è opposto per venticinque anni all’invasione ottomana. La storia del principe Scanderbeg è incredibile: fu rapito dai Turchi quando era bambino e divenne uno dei generali più stimati dal sultano, finché all’età di quarant’anni raccolse ventimila fedelissimi e resistette per anni all’assedio di oltre duecentocinquantamila uomini. Purtroppo, alla morte di Scanderbeg i principati si divisero e gli ottomani riuscirono a invadere l’Albania: in molti fuggirono e approdarono in Italia dove diedero vita alle comunità arbëreshë.

Tu chiamale, se vuoi, Emozioni – Mogol a Musicultura 2023

Un poeta i cui versi hanno segnato la storia della musica italiana e internazionale. I suoi testi hanno radicalmente trasformato la cultura popolare degli ultimi cinquant’anni, lasciando un segno profondo nella vita di ognuno di noi. Una carriera da autore, editore musicale, difensore del diritto d’autore e formatore che gli vale, sul palco dello Sferisterio, la Targa per Alti Meriti Artistici dalle Università degli Studi di Macerata e Camerino. Ospite d’onore della XXXIV edizione di Musicultura, Mogol, prima dell’incontro pomeridiano col pubblico de La Controra, ha ripercorso ai microfoni della Redazione di Siuscià alcuni momenti della sua vita straordinaria, dal sodalizio con Lucio Battisti a quello con Mario Lavezzi, dall’impegno in ambito sociale alle considerazioni sull’importanza della cultura popolare.

Il suo ultimo progetto discografico Capolavori nascosti, realizzato con Mario Lavezzi, comprende quattordici tracce poco conosciute che avete deciso di presentare al pubblico per dare loro l’attenzione che meritano. Vi sta dando le soddisfazioni sperate?

Il disco è uscito nel marzo 2023 ma le canzoni sono di trent’anni fa. Il progetto è nato perché prima non c’è stata vendita. Nessuno conosceva questi pezzi, molti dei quali cantati da Mango, Dalla, Cocciante, Mannoia, tutti artisti di straordinario valore. Mario mi ha ricordato e fatto ascoltare brani di cui io avevo scritto i testi e che hanno risvegliato in me una grande soddisfazione. Così è nato Capolavori nascosti, 13 tracce di allora più una che abbiamo scritto recentemente. Gli arrangiamenti sono eccezionali e i testi buoni. Si ha un insieme di cose culturalmente di alto livello. E infatti ha un riscontro molto alto, sia trai giornalisti che tra il pubblico.

Il CET, Centro Europeo Toscolano di cui lei è fondatore e docente, è un’associazione no profit e la scuola più importante a livello europeo. Negli anni ha formato più di 3000 autori, compositori e interpreti. Il progetto, lei dice, è nato per senso di dovere nei confronti di questo nostro Paese che da qualche anno vive una certa recessione nella cultura popolare. Vuole spiegare questa sua affermazione?

Le canzoni parlano da sé; quelle che hanno un livello sopravvivono alle generazioni e qui non mi pare che ci siano molte canzoni che sopravviveranno. Ho fondato il CET proprio per senso di dovere. In trent’anni di lavoro sono stato l’unico docente a non aver mai percepito uno stipendio. È un regalo che faccio al mio Paese e voglio che rimanga tale. A proposito della cultura popolare, io penso che sia il mezzo più immediato e potente per l’evoluzione della gente. La diffusione della cultura popolare di buon livello è fondamentale. Non dimentichiamo che Dante Alighieri scriveva nella lingua del De Vulgari Eloquentia, non in latino. Prima di chiunque altro aveva capito l’importanza di un linguaggio non selettivo e che arrivasse a tutti.

In un’intervista ha detto che in fase di progettazione non si ha la percezione di quello che diverrà la canzone. Ha dichiarato che “quando scrivevamo le canzoni io e Lucio eravamo soddisfatti e felici di aver fatto una cosa bella. Non potevamo immaginare che poi milioni di persone in tutto il mondo avrebbero amato il nostro lavoro”. Le va di raccontarci un aneddoto legato al sodalizio artistico Mogol-Battisti?

Io e Lucio eravamo coscienti di aver fatto qualcosa di bello. Ogni volta che scrivevamo qualcosa di nuovo, la facevamo ascoltare a qualche amico. Negli ultimi tempi, per esempio, eravamo soliti andare in un istituto per malati di tumore a far sentire in anteprima i brani ai pazienti ricoverati. Lui con chitarra e voce; io lo presentavo. È stata una cosa bella che ci ha portato anche tanta fortuna.

Nel 1981 ha fondato la Nazionale Italiana Cantanti. Lei in prima persona è sceso in campo collezionando negli anni quasi 300 presenze e più di 30 reti. Che ricordi ha di quei tempi e quali soddisfazioni le ha dato negli anni l’associazione?

La Nazionale Italiana Cantanti nasce perché il mio amico Walter Tramontana, presidente della Croce Verde Sempione, mi chiese di organizzare un evento per raccogliere i soldi necessari all’acquisto di un’autoambulanza. Lui aveva pensato di organizzare un concerto; io proposi una partita di pallone. Molti furono i cantanti che parteciparono all’iniziativa tra cui Battisti e Leali, entrati in campo senza aver mai toccato una palla in vita loro.
Da lì è partito tutto. In più di quarant’anni di attività l’associazione ha donato in beneficienza l’equivalente di 100 milioni di euro, tutti devoluti a sostegno dei bambini sofferenti. Per me inizialmente è stato un gioco, mi sono divertito. Il sapere poi che questo divertimento sia diventato un qualcosa di importante mi fa tanto piacere e lo considero un regalo.

Nel 2019 ha ricevuto il prestigioso “Premio Giacomo Leopardi”. In tale occasione ha affermato che trascorsi cinquant’anni si può valutare se un testo è una poesia vera. Lei, come Leopardi, è a tutti gli effetti un poeta le cui parole hanno segnato la storia della musica italiana e internazionale. Dove è riuscito ad arrivare con la musica?

La Società Dante Alighieri, che è la società culturale più importante del mondo, mi ha candidato al Nobel per la letteratura. È una grande soddisfazione e un traguardo importante, considerando il numero di dischi che ho venduto nel mondo, ben 532 milioni. Davanti a me ci sono solo i Beatles e Elvis Presley. La mia profonda fede mi porta a credere di essere un protetto. Non mi sarei mai immaginato tutto questo. Sono cosciente di aver avuto più di quello che meritavo.


 

Dardust a Musicultura. Un viaggio tra Giappone ed elettropop, psicologia e dualità

Dualità è la parola d’ordine, Duality il titolo del suo ultimo progetto da solista. Dario Faini, in arte Dardust, ha costruito un tassello dopo l’altro la sua carriera spaziando tra generi e influenze differenti, e mostrandosi al pubblico attraverso le due anime che lo contraddistinguono: pianistico-minimalista la prima ed elettronico-sperimentale la seconda. Autore e produttore di alcuni tra i più importanti nomi del panorama musicale contemporaneo – Mahmood, Elodie, Ermal Meta, Mengoni, ma anche Sophie and the Giants – ha riempito palchi d’Italia e d’Europa con le sue sonorità adrenaliniche e coinvolgenti.
Arriva sul palco dello Sferisterio come ospite della seconda serata finale della XXXIV edizione di Musicultura, travolgente e suggestivo nei suoi colori elettropop e immerso in una scenografia di luci, tamburi e influenze giapponesi dai timbri al vestiario. È così che ha entusiasmato, e fatto ballare, il pubblico della serata, ribadendo l’importanza del Festival nel suo intervento dopo l’esibizione e dichiarandosi onorato di calcare un palco su cui, da emergente, non era mai riuscito a esibirsi. Questa la chiacchierata con la Redazione di “Sciuscià”, in un intreccio di idee musicali e spirituali.

Sei ospite allo Sferisterio di Macerata durante uno degli eventi più importanti per le Marche: Musicultura. Che effetto ti fa prendere parte al Festival, nella tua regione, praticamente a pochi passi da casa?

Mi fa davvero un bell’effetto, anche se ormai vivo a Milano da anni e torno poche volte in Ascoli. Suonare allo Sferisterio è qualcosa di importante e al tempo stesso inatteso, soprattutto perché agli inizi – vent’anni fa più o meno – cercai più volte di passare la selezione del Festival proponendo le mie canzoni con la band dell’epoca, ma fui sempre scartato. Oggi invece sono sul palco in veste di ospite. Devo dire che è un bel risultato per me, una bella gratificazione, essenziale per capire quanto delle volte la vita sia inaspettata e i percorsi che la creano non siano mai del tutto logici.

In un’intervista hai spiegato come, in ambienti più puristi della musica neoclassica ed elettronica, non venga vista di buon occhio la capacità di produrre brani pop, “hit” commerciali, creando un pregiudizio nei confronti di chi, come te, ha interesse nell’approcciarsi a entrambi i mondi. Si tratta di una concezione fortemente limitante della musica in sé, ma anche della contaminazione di generi che porta alla vera sperimentazione. Ti va di approfondire questo punto di vista?

Sì. Penso che nelle nicchie puriste-estremiste del genere neoclassico – chiamiamola pure musica contemporanea – così come di quello elettronico, sia insita l’attitudine un po’ radical chic di snobbare artisti che prediligono la contaminazione, che riescono a vivere e a essere vincenti in diversi contesti. Chi scrive una hit pop prima, e decide di dedicarsi a un progetto sperimentale poi, crea una sorta di spaccatura nel sistema e non convince proprio per questa diversificazione di interessi. Allo stesso modo, nel mio percorso come Dardust, la volontà di parlare a un pubblico trasversale, più generalista, potrebbe sembrare poco cool. Personalmente sono riuscito a non dare troppo ascolto a questo tipo di pareri, specialmente perché, suonando in Italia e in Europa, ho capito quanto la mia musica possa parlare alle nicchie così come a un pubblico più ampio, senza distinzioni. Nel percorso artistico-creativo è bene essere ambiziosi, sperimentare, lasciarsi condizionare è invece altamente limitante. Ci sono dei colori interessanti nelle nicchie che sarebbe bello riportare a un uditorio vasto, è così che si sposta il pop verso il futuro.

L’esibizione

Profonda è la tua conoscenza della cultura giapponese e delle pratiche a essa legate – quali il Dàimoku, pratica meditativa del buddhismo – con influenze ben riconoscibili anche a livello musicale e performativo. Qual è stato il primo legame con questo territorio, e da cosa sei attratto in particolare?

Il mio passaporto per il Giappone, a un livello più adolescenziale-superficiale, sono stati i film di Miyazaki e tutta l’animazione giapponese. Da lì, crescendo, ho portato avanti una ricerca sempre più profonda e importante sul lato spirituale. Essendo anche un laureato in psicologia, quindi avendo una parte molto razionale, ho sempre sentito il bisogno di colmare un vuoto nella sfera opposta, di indagare la spiritualità: è lì che risiede qualcosa in più, al di là della nostra portata, della nostra razionalità e della nostra conoscenza. Quella è stata in effetti la chiave per farmi sopravvivere, per riuscire a guardare ai fallimenti come risultati e non come disastri, a imparare dagli errori e perseverare con atteggiamento costruttivo e spinta positiva. Credo che il buddhismo, in questa sua declinazione giapponese, sia stato per me il gancio fondamentale con questa terra.

La pluralità di riferimenti ti ha permesso di maturare una visione musicale originale, ad oggi una delle firme ben riconoscibili nel panorama italiano. Firma che, lo abbiamo appena detto, porta con sé anche una laurea in psicologia: questa scienza mentale ed emotiva influisce in qualche modo nella gestazione musicale?

Influisce eccome. Permette di cambiare prospettiva, sviluppare l’empatia, immedesimarsi in chi ascolta. Con una buona conoscenza della psicologia dell’ascolto e le sue varie declinazioni, ad esempio, si riesce ad avere un approccio variegato, una marcia in più proprio in fase costruttiva. Soprattutto, aiuta a capire quando gli stimoli creativi arrivano dall’inconscio, in maniera puramente emotiva e autentica, o quando al contrario si tratta di un prodotto dell’ego e delle sovrastrutture del cervello. Ecco, è come un terzo occhio a livello spirituale, come avere a disposizione una telecamera ad ampio raggio dall’alto che aiuta a comprendere i meccanismi in cui si è immersi, a individuarli e valorizzarli.

Tutti i tuoi dischi nascono “come forma di catarsi dai momenti scuri”: si potrebbe dire che Dardust curi Dario?

Sì, assolutamente. Dardust cura Dario, è l’alter ego illuminato, il pioniere, il coraggioso tra i due, il mio Spiderman. È il lato di me che mi porta a essere quello che sono. La cosa bella è che più passa il tempo, più Dario e Dardust si fondono: il mio lavoro in questo senso permette un avvicinamento continuo al proprio ideale, avanzando quanto più avanza la maturità. È un bel percorso.

Yasmina Pani a La Controra – L’intervista della redazione di “Sciuscià”

Se è vero che la musica è fatta soprattutto di note e strumenti, difficilmente però potremmo immaginare una canzone senza testo, senza parole. E così, a La Controra 2023, arriva anche Yasmina Pani, insegnante di lettere specializzata in Linguistica storica, autrice del saggio Schwa: una soluzione senza problema (2022). All’interno di un dibattito complesso come quello del linguaggio inclusivo e di genere – dibattito che interessa anche la musica e che spesso rischia di appiattirsi su un’unica posizione – Yasmina Pani rappresenta quel rigore scientifico che, a torto, viene scambiato per offesa o insensibilità verso alcune comunità o minoranze. «Il funzionamento della lingua – spiega – segue regole meccaniche e pragmatiche, il tutto per agevolare il più possibile la comunicazione», senza implicazioni sessiste né sentimentalistiche. Prima dell’incontro con il pubblico di Musicultura, Yasmina ha rilasciato quest’intervista alla redazione universitaria di Sciuscià, spaziando dal rap a Giacomo Leopardi.

I tuoi articoli sul web parlano soprattutto di letteratura italiana (da Dante a Pasolini), linguaggio inclusivo, uso e abuso di anglismi nella pratica quotidiana. L’unica traccia di musica è in un breve accenno al mondo del rap. Cosa ci fa, allora, una ‘linguista tascabile’ –così ti autodefinisci – a Musicultura, al Festival della Canzone Popolare e d’Autore?

Sono stata invitata a parlare del mio libro e di linguaggio inclusivo, ma la musica – e Musicultura in primis – ha a che fare con la cultura in generale. Tutto passa attraverso il mezzo linguistico, comprese l’arte e la musica. Credo che le riflessioni sul linguaggio inclusivo, che sono molto diffuse, e quelle sul rispetto del prossimo per non offenderlo riguardino tutto il mondo della produzione culturale, non solo quello linguistico e letterario. Per contrastare l’impoverimento lessicale della lingua italiana dici che dobbiamo cercare tutti di essere dei ‘parlanti attivi’.

A tal proposito, come può contribuire un cantautore o un musicista?

Secondo me i musicisti potrebbero dare un grande contributo, come d’altronde hanno già fatto nella storia, scegliendo quali parole usare, quali messaggi veicolare. Un cantautore ha tantissima libertà, più di quella di un parlante normale nella sua quotidianità, perché può servirsi di un lessico molto variegato. Per esempio un rapper che volesse usare termini poco conosciuti, potrebbe insegnarli ai ragazzi e ai giovani che lo ascoltano attraverso i testi. Quindi per me, nell’arricchimento della lingua, la musica ha un ruolo davvero importante.

Torniamo alla letteratura. Nei tuoi articoli su Leopardi (e non solo), cercando di renderlo più ‘appetibile’ a un pubblico non specialista, mostri quei lati del poeta che a scuola non vengono raccontati. Come si fa a bilanciare questo tentativo di avvicinamento al lettore con la necessità di non decontestualizzare o alterare la sua poetica?

In realtà è piuttosto facile: lascio che sia Leopardi a parlare attraverso i suoi testi. Ciò che dico su di lui, e su tutti gli altri di cui parlo, si trova nelle loro opere. A scuola, in primis, si deve insegnare la lettura del testo. Non bisogna mettere in bocca all’autore cose che non ha mai detto, ma semplicemente guidare lo studente nella lettura, in particolare aiutandolo a contestualizzare il tutto nell’epoca di riferimento. Proprio Leopardi, se letto col linguaggio di oggi, può essere facilmente frainteso. Dal mio punto di vista è molto più semplice avvicinare gli studenti ai poeti, piuttosto che rendere i poeti noiosi. Mi spiego meglio: se lascio che il testo parli da solo, è più probabile che lo studente poi apprezzi il poeta, mentre se di lui do già un’interpretazione senza aver fatto leggere l’opera, ecco che gli studenti si allontanano.

Contestualizzare il problema del genere grammaticale inclusivo, dargli delle coordinate scientifiche è proprio l’obiettivo del tuo libro. Nel dibattito sul tema, però, la tua sembra una posizione controcorrente, nonostante la sua scientificità. Da dove deriva tutta questa difficoltà, da parte dell’opinione pubblica, nel separare il genere linguistico da quello biologico, la natura convenzionale della lingua dai problemi sociali ed educativi?

Secondo me deriva dal fatto che molte persone sono convinte di conoscere il funzionamento della lingua in quanto parlanti. Un po’ come credere di essere cardiologi perché abbiamo il cuore. La lingua, invece, è complessa e se non la si è studiata da un punto di vista scientifico è impossibile conoscerne le specificità; in questo caso possiamo solo usarla. Oltretutto, quando si parla di lingua attraverso i media più famosi, non se ne parla sul piano scientifico ma in modo molto romanzato, senza informazioni tecniche né sostanza. Ecco che allora il parlante medio, non avendo una formazione ad hoc e fidandosi di chi sente più spesso, ascolta solo una campana, solo una versione dei fatti. La mia, peraltro, è mediaticamente poco risonante. Le persone sanno quello che gli viene detto e non possono essererimproverate per questo.

Nel corso degli anni hai scritto anche delle poesie. Rappresentano semplicemente un lato del tuo essere linguista o con la poesia cerchi qualcos’altro?

Le ho scritte in momenti non particolarmente favorevoli o belli, allora rappresentavano più che altro una forma di evasione. Ho sempre cercato la consolazione nella letteratura: in modo passivo attraverso la lettura o attivamente con la scrittura. Sono poesie molto personali, ma anche in esse c’è una sorta di ricerca linguistica, magari nel desiderio di voler usare parole poco note o cercando di sfruttare quelle potenzialità del linguaggio che nella quotidianità non trovano posto.

“Torneremo ancora” sul palco dello Sferisterio – Simone Cristicchi e Amara a Musicultura 2023

Introspezione e riflessione, analisi di se stessi e del mondo circostante, legami da costruire e desiderio di conoscere: questi i tratti distintivi di due cantautori profondi e autentici, le cui carriere si nutrono di molteplici esperienze e forme: musica, teatro, scrittura e non solo. Amara e Simone Cristicchi – il cui cammino musicale prende il via dal 2005, anno in cui è stato vincitore proprio di Musicultura– erano già stati ospiti a Recanati, durante la scorsa edizione del Festival.
“Ti sei mai guardato dentro? / Ti sei mai chiesto del tuo desiderio profondo? / La nostalgia che si nasconde dentro te, Che cosa ti abita?”: questi i tre interrogativi che avevano posto – attraverso il brano Le poche cose che contano- al pubblico del teatro Persiani, esortandolo a un’autoanalisi. Ora, il viaggio alla ricerca dell’essenza, e dell’essenziale, continua. Da più di un anno i due artisti sono impegnati in un progetto in cui ripercorrono, con assoluto rispetto, la biografia musicale di Franco Battiato, luce in grado di elevare gli animi e condurli alla libertà. Così, ospiti allo Sferisterio in occasione della serata conclusiva di Musicultura XXXIV, ci regalano un frammento di Torneremo ancora- Concerto mistico per Battiato. Prima di salire sul palco, ne hanno parlato in questa intervista alla redazione di “Sciuscià”.

Le poche cose che contano è uno dei primi brani che avete scritto insieme, nel periodo della pandemia. Parla della necessità di fermarsi e scavarsi dentro per capire quali sono davvero i propri punti saldi. In un mondo che tende sempre di più al superfluo, secondo voi come si arriva a comprendere cosa è realmente necessario?

A: Innanzitutto, è molto importante fare esercizio di silenzio. L’ascolto interiore ti spinge a porti delle domande insolite, profonde; ne conseguono risposte- o meglio, rivelazioni- che normalmente non puoi raggiungere.
Bisogna fermarsi e riconsiderare le cose care che ti stanno intorno, imparando a dargli il giusto valore; si parte dall’amor proprio, si continua con il rispetto delle persone a cui si vuole bene, la cura che gli si rivolge e il tempo che gli si dedica, stando attenti a non infilarle tra un impegno e l’altro, rendendole protagoniste del presente. Poi, fondamentale è trovare un senso di comunità e fratellanza: siamo tutti uguali, proveniamo dallo stesso canale e siamo tutti sulla terra. Si tratta di concetti semplici, che i bambini conoscono bene, dovremmo prendere esempio da loro.

Ricerca del necessario ma anche ricerca di equilibrio, di un “centro di gravità permanente”; proprio a Franco Battiato è dedicato Torneremo ancora- Concerto mistico per Battiato, con cui vi fate portavoce dei suoi messaggi spirituali. Dove nasce l’idea di questo progetto?

S.C: L’idea di questo progetto nasce dal grandissimo amore che nutriamo per Battiato: un sentimento che lui ha regalato a noi e che a nostra volta abbiamo la missione di portare avanti; si tratta di un artista che con le sue composizioni riusciva a riportare la musica al suo legame originario con il sacro. Le sue canzoni – in particolare quelle che abbiamo scelto per il nostro spettacolo- sono unite da questo specifico filo conduttore: la sacralità e il senso liturgico della musica, capace di elevare il nostro spirito a notevoli altitudini.

“Cittadini del mondo cercano una terra senza confini […] finché non saremo liberi, torneremo ancora”, queste le parole del brano di Battiato- l’ultimo che ha inciso- che dà il nome al vostro progetto. Per voi dov’è e cos’è la libertà?

A: La parola libertà contiene molte sfumature. Per quanto mi riguarda, credo che la casa della libertà sia la mente di ognuno di noi; la sua parte razionale costruisce dei muri che vanno necessariamente abbattuti, per sentirsi liberi. Il passo decisivo è capire di essere prigionieri in una galera che ha la porta aperta: una volta individuata l’uscita, bisogna percorrere quella via, così da trovare uno spazio di libertà reale. Dunque, noi stessi siamo l’unico ostacolo per una mancata libertà.

L’esibizione

Durante le vostre esibizioni, le canzoni si alternano a momenti di lettura. Qual è il legame tra studio, conoscenza, letteratura e musica?

S.C: Nel nostro caso, il legame è strettissimo: per fare questo concerto abbiamo studiato davvero tanto, ascoltato tutto il repertorio di Battiato e centinaia di interviste per estrapolarne frammenti della sua personalità, letto diversi libri dedicati a lui e libri scritti dai maestri che più l’hanno influenzato. Alla base di questa necessità di conoscenza, c’è la volontà di rievocare una persona che non c’è più ma che con i suoi messaggi, in realtà, è estremamente presente intorno a noi. La presenza di Battiato è una luce accesa che contribuisce a creare un legame tra la terra e il cielo; ai fini di questo risultato conoscere-lo studio, dunque-è fondamentale.

Per entrambi quello di Musicultura è un palco ormai familiare; avete trovato la giusta connessione, qui, con chi vi ascolta?

A: Trovare la giusta connessione è una questione di empatia, ogni palco ha un pubblico diverso con cui si crea un legame differente: questa è la bellezza. Per quanto riguarda Musicultura, particolare è l’attenzione, minuziosa, che caratterizza questo posto; attenzione al vero, alla corda che scricchiola, alla voce nuda. Tutto ciò rende l’atmosfera intima e raccolta.

Occasioni, spontaneità e un pizzico di magia: intervista a Carolina Di Domenico

La ricordiamo tutti come il volto amatissimo di Disney Club che, insieme a quello di Giovanni Muciaccia, teneva migliaia di bambini incollati alla TV nei primi anni 2000. Poi è arrivato il lavoro come VJ per MTV Italia, che ha dato una svolta alla sua vita e accompagnato la crescita di un’intera generazione. Comincia così la carriera di Carolina Di Domenico nel mondo della conduzione televisiva e radiofonica, che si è intrecciata alla sua storia d’amore di vecchia data con la musica. A dare il la sono le occasioni colte al volo. Il resto è da scrivere, passo dopo passo, con serietà e competenza. Nell’intervista rilasciata alla Redazione Sciuscià, Carolina ci parla dell’importanza di trovare la propria strada, di essere riconoscibili e di capire facendo, lasciando dietro di sé una scia magica di risate e spontaneità.

Hai alle spalle una lunga carriera nella conduzione televisiva, radiofonica e nel mondo dello spettacolo in senso lato, ma, come dichiari spesso nelle interviste, hai cominciato un po’ per caso. Quando hai capito di voler trasformare la tua passione in una professione?

In realtà, il mondo dello spettacolo non era una mia passione; o meglio, lo era, ma dal punto di vista della produzione.
Ho studiato Scienze della Comunicazione e sicuramente quest’ambito mi interessava. Ma se alla fine del liceo o all’inizio dell’università mi avessero chiesto cosa volessi fare da grande, avrei risposto: “Produzione”. Poi, all’età di 19 anni, mi è capitata l’occasione di Disney Club, il primo programma televisivo che ho condotto assieme a Giovanni Muciaccia. Avevo iniziato a fare qualche lavoretto per mettere dei soldi da parte – facevo l’animatrice di feste per bambini – e un giorno un mio amico mi ha consigliato di iscrivermi a un’agenzia di pubblicità, dicendomi che mi avrebbe impegnato poco tempo e che sarebbe stato economicamente remunerativo. Quindi mi sono detta “facciamolo” e da lì è partito tutto. Però non era assolutamente previsto. Solo quando ho iniziato a lavorare, piano piano, ho capito che si sarebbe potuta trasformare in una professione. Ho avuto la fortuna di capirlo facendolo.

Sei passata dalla TV alla radio, due media diversi tra loro: il primo centrato sulla gestualità, l’immagine e l’occupare spazi; il secondo sulla voce, il suono e il riempire i silenzi. Come hai vissuto questo cambiamento e con quale dei due ti senti più a tuo agio?

Tra radio e TV cambia tutto. Quando ho cominciato a lavorare per MTV, il mio collega Federico Russo già lavorava per RDS e mi chiedeva spesso di andare a fare un provino in radio. Io che ho iniziato a fare questo lavoro unendo voce e immagine, ero terrorizzata all’idea di lavorare solo con la voce. Poi, 15 anni fa, io e mio marito abbiamo ideato un progetto che parlava di musica. Ho pensato potesse essere interessante e deciso di provare.
Anche in questo caso: lavorare, praticare, capire facendo. Funziona sempre. Abbiamo cominciato in una radio locale, dove eravamo molto liberi di sperimentare senza la pressione di un grande network. Col passare del tempo, è diventata una necessità. A differenza della televisione, secondo me, la radio diventa un bisogno quotidiano: una volta che instauri un rapporto giornaliero con il mezzo radiofonico, se smetti comincia a mancarti. La televisione, invece, su di me esercita un effetto diverso: mi piace tantissimo lavorarci, ma se smetto per un po’ non sento subito la mancanza di stare sul palco. Con la radio invece sì. Non so esattamente cosa scatti nel cervello di una persona, ma noto che tutti quelli che fanno radio dicono la stessa cosa. Evidentemente dev’esserci una magia – e forse anche un pizzico di egocentrismo legato all’ascoltare la propria stessa voce nelle cuffie – nel fare radio.

A proposito di radio, tutti i fine settimana conduci 610 con Lillo e Greg. Dagli scatti postati sui social si intuisce che insieme vi divertite parecchio. Com’è lavorare al fianco di due comici?

Io ho sempre condotto programmi musicali, per esempio Rock and Roll Circus su Radio 2.
L’occasione di lavorare con Lillo e Greg mi è capitata quattro anni fa. Li conosco fin dai tempi di Latte & i Suoi Derivati e sono da sempre una loro super fan, perciò cerco di rimanere tale e divertirmi anche a 610. Per esempio, quando possibile, evito di leggere in anticipo i loro sketch per mantenere l’effetto sorpresa da ascoltatrice. Il dramma è che durante le puntate rido così tanto che a volte non riesco ad andare avanti. Però, secondo me, la bellezza della radio sta proprio in questo: la spontaneità. È difficile programmare. Si hanno, naturalmente, dei punti di riferimento e una redazione che crea contenuti, però nessuno va a copione. Questo crea quella magia che ti permette di esprimerti in maniera spontanea.

Musicultura è un tassello che si aggiunge al vasto mosaico di programmi musicali condotti o commentati negli anni – MTV Day, The Voice, Eurovision Song Contest, Tim Music Awards, per citarne alcuni – e tu stessa sei una grande appassionata di musica. Che consiglio daresti ai giovani vincitori del Festival?

Di capire se c’è davvero spazio per loro in questo mondo.
Oggi tutti vogliono fare musica. Siamo in un momento difficile in cui sulla scena musicale c’è un enorme sovraffollamento. Avere la voce riconoscibile, e distinguibile da quella di altri, è fondamentale.Basta fare una prova: se canti di fronte a tre persone che non ti conoscono e riescono a distinguere la tua voce a occhi chiusi, allora sei sulla buona strada. Se io mi trovassi di fronte a qualcuno con una voce molto simile a quella di Emma o di qualche altro artista di grande successo, gli consiglierei di fare altro. La musica non è fatta solo di cantanti, ma anche di supporti, coristi, ovvero persone con delle bellissime voci che vanno in giro a cantare insieme agli altri. Poi, c’è il mondo degli autori: se scrivi delle bellissime canzoni, ma non sei un bravo performer, non salire sul palco, scrivi canzoni; potresti cederle alle corde vocali di un artista famoso e, così, guadagnare un sacco di soldi. Dietro la musica c’è tutto un mondo. Se vuoi fare il musicista, devi capire qual è la strada adatta a te e se la tua voce è riconoscibile. È fondamentale per non perdere tempo ed evitare tutte quelle frustrazioni che si vivono quando si fanno troppe cose e nessuna bene. Questo è il consiglio spassionato che darei ai vincitori di Musicultura.

Ti batti molto per i diritti dei lavoratori del mondo dello spettacolo e, in particolare, per l’attuazione dei decreti per l’indennità di discontinuità per artisti e tecnici.Quanta strada c’è ancora da fare su questo fronte e cosa significa per te questa battaglia?

Credo sia fondamentale impegnarsi su questo fronte. Chiunque abbia lavorato nel mondo dello spettacolo sa bene che ci sono dei periodi in cui si lavora tanto e dei periodi di pausa.
Basta pensare a una manifestazione come Musicultura: non è fatta di ieri e oggi, ma probabilmente di un anno di preparazione, e quell’anno dev’essere retribuito e riconosciuto. È arrivato il momento di impegnarsi, unirsi e battere i pugni. Un primo passo è stato fatto: c’è stato uno stanziamento di fondi, anche se non enorme. Ma non bisogna fermarsi, ora è il momento reclamarli a gran voce e chiedere l’attuazione dei decreti. Lo stanno facendo associazioni che si battono per questo come La musica che gira o Scena Unita. Molti artisti hanno portato il loro supporto. Io, ogni volta che posso, sottolineo l’importanza di questa battaglia. Quando in una manifestazione come questa si riesce a far esibire una band con un distacco di 3 minuti rispetto a quella precedente, è perché ci sono 15 persone che salgono sul palco e cambiano la scena. E questo lavoro immenso e prezioso va riconosciuto anche quando quelle persone non sono sul palco.


Il mondo fiabesco dei bambini è stato in qualche modo una costante nella tua vita: i primi lavori come animatrice, l’esordio a 19 anni con Disney Club, le serie TV per ragazzi. Oggi che sei due volte mamma, cosa diresti alla Carolina bambina?

Alla Carolina bambina direi “tira fuori la testa un po’ di più!”. Io sono sempre stata una bambina educata, che stava al suo posto, e questo ogni tanto mi ha portato a mettere da parte le mie esigenze. Quindi, tornassi indietro, forse mi direi “non stare zitta: se hai voglia o bisogno di qualcosa, dillo”. Però penso anche che finché sei bambino queste cose non le puoi capire: ci nasci, vai avanti così, poi fai analisi, rifletti su di te e cominci a tirare fuori tutto quello che hai tenuto dentro per anni. I bambini seguono il loro temperamento naturale. I genitori o chi li accudisce possono aiutarli, però credo che ognuno debba fare il suo percorso singolarmente, con i mezzi che ha e in cui crede. Prima o poi, l’occasione di affrontare quello che si ha dentro e avere un’evoluzione capita.

“Musicultura è una festa! Essere qui è un regalo.” – Intervista a Flavio Insinna

Preferisce definirsi artigiano piuttosto che artista, perché “gli artisti sono altri, essere un artigiano di buon livello è già un traguardo pazzesco”. Flavio Insinna fa bene il mestiere, lo onora, si sente fortunato di farlo, e fa tesoro degli insegnamenti del suo maestro Gigi Proietti. Tra esperienze di vita, insegnamenti, aneddoti, la passione per la cultura e per la musica, il conduttore di Musicultura 2023 si racconta alla Redazione di Sciuscià.

Flavio Insinna, attore sia di teatro che televisivo, conduttore di successo e scrittore di 3 libri; il suo essere artista a 360° si declina in varie forme grazie alla sua natura poliedrica: qual è il suo segreto?

Artisti sono Picasso, Frida Kahlo, Martin Scorsese, Sergio Leone; io non lo sono. Credo che si usi la parola “artista” con troppa generosità. Mi definisco “artigiano” secondo la definizione di De Chirico, che sottolinea l’importanza di fare bene il proprio lavoro qualunque siano il committente e la richiesta.
Essere un artigiano di buon livello è un traguardo pazzesco, il mio obiettivo è quello. Quanto alla mia natura, è poliedrica proprio perché faccio il mio mestiere come un artigiano si cimenta nella realizzazione di una sedia, di un tavolo o di un armadio. Non è facile: bisogna saperlo fare. Qual è il segreto? Continuare a studiare, essere curiosi, ascoltare gli altri e non credere di essere gli unici perché quando si pensa di aver capito tutto è un momento molto pericoloso: si rischia di sentirsi arrivati quando in realtà, anche se può sembrare una banalità, non si finisce mai di studiare, anche di sbagliare e di correggere i propri errori.

Mi ha colpito molto una sua frase in cui afferma che “la vita non è una gara e ci salviamo solo tutti insieme.” In un mondo che tende sempre più all’individualismo, come possiamo recuperare l’empatia che ci aiuta a essere solidali gli uni con gli altri?

Un po’ di tempo fa, leggendo, mi sono imbattuto in una frase di Maria Montessori, una donna straordinaria, che afferma una cosa semplice ma pazzesca: “Dobbiamo insegnare ai bambini a cooperare”. Siamo negli anni ’50 quando lo dice, ma ancora oggi a scuola la cooperazione non viene insegnata mai, anzi, si introducono concetti di gara e competizione. In questo periodo in cui mi capita di andare nelle aule a parlare de Il gatto del papa, una “favoletta” che ho scritto, i cui proventi vanno a sostegno di Emergency, ricordo sempre ai ragazzi che è proprio in questi anni di formazione che decidono chi vogliono essere: una persona pronta ad aiutare o una che pensa solo a fare il suo. Non siamo isole “autoconcluse”, “autorisolte”: siamo tutti un pezzetto di quella bellissima comunità che è il mondo, che è la vita. Lo straordinario maestro Bosso, che purtroppo ci ha lasciato, a Sanremo disse: “La vita è come la musica, si fa insieme”. Come qui a Musicultura: c’è chi presenta, chi aiuta, chi canta, chi porta il microfono, chi sposta qualcosa; c’è un esercito di persone che in un minuto ti fanno trovare tutto pronto: senza di loro non si potrebbero eseguire i brani perché i risultati, appunto, si raggiungono solamente tutti insieme.

“Benvenuti a teatro, dove tutto è finto ma niente è falso”, diceva Gigi Proietti. Quello con il suo maestro è stato un rapporto di grande stima professionale e personale: ce ne vuole parlare?

Ti racconto anche un’altra frase che ripeteva spesso Proietti ed è fondamentale: “Fare l’attore è un mestiere”. Lui di sé ridendo e alzando la mano diceva: “Sono un noto fantasista romano, se mi ascolti la scena viene ancora meglio”. E aggiungeva: “Ragazzi, è un mestiere, un gioco, non è uno scherzo!”. La differenza tra gioco e scherzo è importante: lo scherzo, per esempio, potrebbe essere un gavettone lanciato, che può anche far ridere, ma il gioco è un’altra cosa. Pensiamo al gioco del tennis, del pallone; pensiamo al gioco di guardie e ladri, dove ci si spara – grazie al cielo per finta – ma poi quando si cade a terra si deve sembrare morti veramente, deve sembrare vero. La differenza sta proprio nella finzione del gioco: se la finzione risulta falsa, il gioco è finito. Riprendo di nuovo le parole di Proietti: “La sfida è essere credibili, non probabili”. Ecco, “probabile” vuol dire che indossando una corona da re potrei improvvisarmi Riccardo III, ed è probabile, appunto, persino che riesca a interpretarlo. Ma si è davvero “credibili” solo quando dalla platea gli spettatori hanno la percezione che ciò che avviene sul palco è vero, è reale.

Ai microfoni di Radio 1 Rai ha dichiarato che la musica ha sempre fatto parte di lei e della sua famiglia. È forse questa sua passione ad averla spinta ad accettare il ruolo di conduttore di Musicultura 2023?

Essere qui è un regalo! Ho avuto la grandissima fortuna di crescere in un ambiente ricco di dischi e di libri, dove la cultura era molto presente, e ringrazio ancora una volta la mia famiglia per questo.
Posseggo dischi a 78 giri, quelli di ferro che pesano 28 kg (ride n.d.r.); ho il grammofono, i giradischi; da ragazzo mi dilettavo a fare il dj. La mia vita senza leggere e senza ascoltare musica non sarebbe possibile, non la sentirei mia. Per questo quando mi ha chiamato il mio grandissimo amico Matteo Catalano, che è un autore fantastico e una persona meravigliosa, per presentare Musicultura, ho accettato subito. Essere su questo palco è un regalo. Musicultura è una festa!