INTERVISTA. Carlo Massarini a La Controra 2019: “Vi racconto il rock dagli absolute beginners ad oggi”

Il sabato de La Controra ripercorre La fine del sogno, quello dei Beatles, con un grande giornalista, conduttore televisivo e radiofonico: Carlo Massarini. Un artista completo che ricordiamo soprattutto, ma non solo, per Mister Fantasy – Musica da vedere Non Necessariamente, trasmissioni televisive dedicate al rock e in particolare al concetto di videoclip.

Massarini ha rivoluzionato il modo di concepire la musica attraverso le immagini, dedicando la sua carriera allo studio di nuove tecniche cinematografiche e alla grafica computerizzata, che hanno segnato la storia dei video musicali. Nel 2009, a 25 anni di distanza dall’ultima puntata di Mister Fantasy, pubblica Dear Mister Fantasy, fotolibro sugli anni ’70 e ’80, periodi storici che ha raccontato come fotografo e giornalista musicale: un” diario di bordo” per rivivere il rock dell’epoca attraverso parole e immagini, le stesse che il giornalista ha presentato alla redazione di Sciuscià, in questa intervista.

La sua trasmissione Mister Fantasy è stata la prima trasmissione italiana a riprodurre videoclip musicali: cosa ha cambiato il linguaggio del video nel rapporto tra ascoltatori e musica?

Il linguaggio del video ha cambiato il rapporto che l’ascoltatore aveva con la musica e con i musicisti. Si tratta di una rivoluzione: Mister Fantasy nasce come strumento promozionale per poter mandare in diretta televisiva gli artisti senza la loro necessaria presenza fisica. Questo cambiamento venne inizialmente adottato dai Beatles, dai Rolling Stones, dai Quee che volevano mostrare  una loro ulteriore dimensione, quella di protagonisti di mini documentari. La realizzazione delle clip divenne così, gradualmente, un’abitudine che Mister Fantasy ha voluto evidenziare. Fu l’impronta di Paolo Giaccio ad approfittarne per farci un programma vero e proprio, per esplorare il mondo del video nelle sue innumerevoli e continue sfumature: video-arte, video-moda, video-architettura. Si creò un’idea onirica della realtà.

Il videoclip ha acquisito sempre più una maggiore importanza, diventando un elemento costitutivo del prodotto musicale, quasi quanto la musica stessa: l’avvento di Internet ha amplificato una tendenza già in atto o ne ha creata una nuova?

Internet è stato importante perché, al di là dell’avere una banca dati pazzesca, ha anche fornito ai musicisti la possibilità di esprimersi in modi diversi. Ci sono stati siti strumentali per la scoperta di nuove band e seguaci, che identificandosi con questi gruppi emergenti, hanno contribuito a costruire quello che oggi definiamo il “social”; ciò ha permesso una cambiamento nel rapporto tra musicisti e pubblico.

Oggi è a Musicultura per parlare dei Beatles: sono state le divergenze musicali a farli allontanarli o quell’invadente successo e tutto ciò che gravitava intorno a loro?

È un insieme di cose. In questa risposta, occorre indubbiamente menzionare Yoko Ono. Lei rappresenta quella forza decisionale mancata a John Lennon, arrivando a chiuderlo in una sorta di bolla autoreferenziale, fino ad allontanarlo dal gruppo. La sua presenza inizia a diventare sempre più fastidiosa: dall’intervento nelle incisioni fino a metterlo in difficoltà con gli altri membri della band. Lo scioglimento de “i quattro di Liverpool” è dovuto anche dal manager americano, Allen Klein, che iniziò a lavorare con la band, impressionando Lennon per la profonda conoscenza dei suoi lavori (recitò a memoria il testo di molti dei suoi brani). Proprio per la sua elevata preparazione, John convinse George Harrison e Ringo Starr che Klein era l’uomo giusto per loro. McCartney, però, dissentì e si rifiutò di firmare un accordo, mandando su tutte le furie i suoi tre compagni di gruppo. Questo fondamentale disaccordo portò allo scioglimento della band. Tutto ciò che è stato fatto dopo, non ha mai raggiunto la consistenza e la continuità di quanto fatto prima, artisticamente.

Secondo lei bisogna guardarsi nostalgicamente indietro, tra le grandi leggende del rock, per trovare gli innovatori o gli “absolute beginners” ci sono ancora oggi?

Per saper rispondere a questa domanda bisognerebbe avere il senso della prospettiva. Ovviamente gli innovatori pescano sempre dal passato. Tutti i grandi della musica hanno un punto di riferimento solido dal quale partire. Non nascondo, però, che anche adesso ci sono proposte interessanti, ma serve una certa distanza storica per giudicarle fino in fondo.

Da giornalista e conduttore radiofonico, quale domanda porrebbe agli 8 vincitori di Musicultura?

Istintivamente chiederei che visione hanno del loro percorso. Quanto hanno intenzione di mettersi in discussione? Quanto sono artisti e quant’è profonda la loro visione in questo momento? Mi piacerebbe sapere da loro dove vogliono arrivare: è importante darsi obbiettivi con una scadenza, avere una solidità interiore.

INTERVISTA. A La Controra di Musicultura, da De André a The André

The Andrè è un vero fenomeno del web, che prende ispirazione dall’amore per la musica di Faber. Proprio da questa premessa, nasce l’idea dell’artista di interpretare i brani degli autori oggi più in voga nel genere trap, imitando la voce di Fabrizio De Andrè.

Vanta oltre 4 milioni di visualizzazioni su Youtube  e si sta affermando sempre di più nella scena artistica, come un progetto innovativo, ironico, intelligente. Venerdì 22 Giugno The André è stato il protagonista di un talk show condotto da John Vignola a La Controra di Musicultura e, per l’occasione, ha intonato delle cover più significative del suo album Themagogia.

Ad incuriosire il pubblico della rete è stata la sua identità mascherata. Come mai ha deciso di tenerla nascosta?

Il mio progetto nasce su Youtube senza un volto, con la pubblicazione di video le cui immagini illustravano i cantanti trap, autori dei brani che eseguivo imitando la voce di De André. L’intento era quello di preservare il più possibile l’illusione e la suggestione. Quando poi hop iniziato ad esbirmi dal vivo, ho voluto mantenere il mistero sulla mia identità, per non disturbare l’ascoltarore, per salvaguardare l’illusione della vocalità e della sonorità tipica di Faber.

Quindi, come nasce l’idea di cantare con una voce che somiglia incredibilmente a quella di De AndréÈ stata una sua idea o è il frutto di una collaborazione?

Il progetto nasce da alcuni scambi di messaggi vocali su WhatsApp tra me e un mio amico, in cui cercavamo di interpretare alla maniera di De André delle canzoni di Dalla e Guccini. Siamo approdati a Fabri Fibra e poi alla trap, genere musicale che viene considerato come il nuovo cantautorato. È nato tutto per gioco.

Vuole dunque dimostrare quanto la trap abbia delle radici cantautoriali o si tratta di un’operazione satirica, la sua?

In principio il mio intento era satirico, proprio per mettere in relazione due mondi che, almeno per il mio punto di vista, avevano poco in comune. Nell’approfondire poi la coscienza di questo genere, ho conosciuto artisti che hanno un approccio piuttosto serio nei confronti della musica; oserei dire in maniera “più artistica” (ride).

È per la prima volta ospite di Musicultura, in veste di ideatore di una nuova corrente musicale contemporanea o come unicum?

Non ho la presunzione di aver inaugurato nessuna corrente e non so se, ora come ora, esista qualcosa di simile al mio progetto. Di sicuro ci sono molti artisti che rivisitano i generi della trap e dell’indie in modo ironico.

Secondo lei in che modo oggi un cantautore può essere rivoluzionario e rompere gli schemi?

Una cosa che manca moltissimo nella musica mainstream contemporanea è l’impegno politico e sociale. Ad esempio l’indie è molto introspettivo, caratteristica che non è della trap. Forse l’impegno sociale potrebbe far la differenza, per diventare un cantautore rivoluzionario.

INTERVISTA. Detto Mariano a La Controra di Musicultura, per raccontare “Una musica lunga una vita”

Compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra, pianista, paroliere e produttore: Detto Mariano è un artista a tutto tondo. A lui, il compito di analizzare il legame che si crea quando la musica incontra la parola, durante l’evento “una Musica lunga una Vita”, che si è svolto mercoledì 19 Giugno a La Controra di Musicultura.

Ha fatto rivivere, con i suoi racconti, le pietre miliari della canzone d’autore, come L’immensità, Mi ritorni in mente, Acqua azzurra, acqua chiara. Marchigiano d’origine, Detto Mariano ha cavalcato la scena musicale fin da piccolo. Durante il servizio militare ha conosciuto Adriano Celentano e da quell’incontro, l’ascesa della sua carriera, consacrata da una miriade di arrangiamenti e di brani per cantanti famosi e colonne sonore di film ancora oggi trasmessi dalle maggiori emittenti nazionali.

L’incontro con Adriano Celentano ha segnato una svolta decisiva nella sua carriera: su quali aspetti musicali vi siete trovati subito in sintonia? Cosa ha fatto scattare la “scintilla”?

Io e Adriano Celentano ci siamo incontrati durante il servizio di leva e, in quell’occasione, siamo diventati amici. Ci siamo conosciuti in maniera rocambolesca o, come si dice oggi, “alla Celentano”. Morale della favola: la casualità ci fece incontrare perché lui guidava la jeep del capitano che doveva portarmi dall’ospedale militare al campo estivo. Tra noi è nata un’amicizia, che invece non è scattata con il gruppo che mi aveva affidato, I Ribelli, perché erano di estrazione rock, mentre io venivo dal Conservatorio. Loro avrebbero voluto farmi suonare il pianoforte anche con i piedi, come faceva all’epoca Jerry Lee Lewis; io, invece, consideravo questo gesto come un andare contro la religione: baciavo il pianoforte, non ci avrei mai messo i piedi sopra! È per questo motivo che mi hanno allontanato. Un altro episodio rocambolesco è il mio essere diventato l’“Arrangiatore ufficiale del CLAN”, nonostante fossi stato allontanato dal Gruppo. Celentano, per la casa discografica di sua proprietà, aveva già realizzato tutte le basi con un famosissimo arrangiatore ma, suo fratello Alessandro, aveva fatto in modo di farmi rifare una di esse: il brano intitolato “Sei rimasta sola”. Adriano, dopo aver ascoltato la nuova base, mi chiese di rifare col mio stile anche tutte le altre che aveva già pagato. Fu questo il meccanismo che, rocambolescamente, ha consacrato il mio ingresso nel Clan.

L’immensità, Mi ritorni in mente, Acqua azzurra, acqua chiara: ha costruito e arrangiato le musiche che calzano perfettamente con il senso profondo dei testi. Ci racconta il processo creativo di questi brani?

Sì, non era solo la musica a guidare le mie scelte emotive ma lo erano anche i testi. Tu citi Mi ritorni in mente, Acqua azzurra, acqua chiara delle quali oltre alla melodia non si possono non apprezzare i geniali testi di Mogol, come anche quello de  L’immensità (di cui tra l’altro sono anche co-compositore). E’ proprio questo che ho sottolineato, sia nella mia “Commedia Musicale Autobiografica” che nel talk show de La Controra, ovvero come si arriva da un semplice provino cantato (da Battisti in quel caso) con il solo accompagnamento della chitarra, alla versione completa di musica, testo e arrangiamento.

Arrangiatore, paroliere, pianista, produttore discografico ed editore musicale. Se dovessi definirti con una sola parola, quale sceglieresti?

Detto Mariano! Mi sembra una parola che comprende tutto. L’hai detto tu: sono un compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra, pianista, paroliere, produttore ed editore musicale.

Hai composto colonne sonore per il cinema e per i cartoni animati. Come cambia l’approccio tra la realizzazione di questi prodotti culturali?

Sono stato fortunato anche nel comporre le musiche per i cartoni animati come ad es. GundamJudo Boy, i film Il Bisbetico Domato, Mia moglie è una strega, tra i tanti. Il mio sito è www.dettomariano.com, che mi piacerebbe andaste a visitare: molti conoscono i titoli di alcune pellicole, senza conoscerne l’autore. Quando in sala avevo 90 elementi d’orchestra per lavorare su un film, accettando le proposte di alcuni produttori che mi chiedevano di realizzare le musiche per i cartoni animati, mi ritagliavo gli ultimi 15 minuti per creare le sigle che poi sarebbero state ascoltate da quei bambini, oggi quarantenni che, proprio per quello, sentono la differenza tra i prodotti musicali di allora e quelli di oggi.

Se un artista di Musicultura gli chiedesse qual è il segreto della canzone popolare che resiste ai cambiamenti del mercato musicale, cosa risponderebbe?

Non lo so, forse per un fatto generazionale. Conosco poco della musica popolare attuale e, anche se lo cerco, non trovo qualcosa che mi colpisce in modo particolare. Non è colpa mia se ho avuto a che fare con gente come Battisti, Mina, Celentano, Albano, Mario Del Monaco. Però, per contro, la canzone vincitrice di Sanremo 2019 (il suo interprete compreso) mi piace moltissimo: ha un testo innovativo, intelligente, una musicalità arabeggiante, compresi i quarti di tono inseriti in modo elegante!

INTERVISTA. “D’Annunzio: una vera rock star!”: Giordano Bruno Guerri a La Controra di Musicultura 2019

Giovedì 20 Giugno l’autorevole e carismatico storico Giordano Bruno Guerri ha presentato il suo ultimo libro Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzionea La Controra di Musicultura, nel cortile di Palazzo Conventati. Accademico, Presidente e direttore generale della Fondazione Vittoriale degli Italiani, Guerri si è raccontato al pubblico, ripercorrendo i tratti salienti della sua vita professionale e privata: la famiglia, gli interessi, le prime esperienze tv e l’amore per Gabriele D’Annunzio.

Il suo ultimo lavoro tratta la celebre presa di Fiume del Vate, che per sedici mesi fu teatro di cospirazioni, feste, beffe, battaglie, amori, in un intreccio diplomatico e politico sospeso tra utopia e realtà. Cercando di valorizzarne gli aspetti innovativi e inediti, l’autore ha sottolineato come quell’impresa non fu solamente il gesto plateale di un poeta esteta, ma fu anzitutto la realizzazione politica di una «controsocietà» sperimentale.

In questi giorni gli studenti stanno svolgendo gli esami di maturità, senza una prova puramente storica: ritiene che lo studio della storia non sia adeguatamente valorizzato nella scuola come nella società di oggi?

È gravissimo che la storia non sia prevista negli esami, in quanto è la conoscenza del nostro passato e consente di capire il presente e progettare il futuro. Senza questo tipo di apprendimento, un popolo è mutilato e non potrà capire da dove viene la propria cultura.

Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzioneè una delle tante opere in cui racconta le gesta e la vita del poeta Vate della letteratura italiana. Come nasce l’interesse per Gabriele D’Annunzio?

L’interesse per D’Annunzio nacque mentre lavoravo alla tesi di laurea, ricercando il materiale di cui avevo bisogno negli archivi del Vittoriale. In quel periodo decisi di voler scrivere un libro, che pubblicai quindici anni dopo.

L’impresa di Fiume, da come spesso viene raccontata, sembra aver avuto più che un valore storico uno estetico, considerato come il gesto di un letterato al centro dell’opinione pubblica. Quei 500 giorni che cosa hanno significato per la storia italiana?

In realtà è una credenza che deriva da un errore storiografico e fu sicuramente un gesto nazionalistico logico. Si pensi, ad esempio, al clima post primo conflitto mondiale, quello che D’Annunzio chiamava Quarta Guerra d’Indipendenza. Da quel momento, prese il via una rivoluzione sociale, politica ed economica, come dimostra la Carta del Carnaro, la costituzione rivoluzionaria che il Vate diede a Fiume.

Per rimanere in tema, lei è Presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani, di cui è anche direttore generale. Quali sono gli aspetti del poeta che ha voluto valorizzare, per suscitare nuovo interesse nei confronti della sua figura?

D’Annunzio viene considerato un decadente, lussurioso, peccatore e protofascista. Ho cercato, con buoni risultati, di modificare questa sua rappresentazione. Fu in realtà un modernizzatore che trasformò la società italiana, fatta di una piccola borghesia ottocentesca, in una società più dinamica e aperta. Una cosa tengo a sottolineare: non fu mai fascista.

Sarà ospite di Musicultura: quale genere musicale ascolta? Se dovesse scegliere un brano più significativo della sua vita, quale potrebbe essere?

Ascolto musica rock e pop, in prevalenza quella degli anni ’60 e ’70: Frank Zappa, Beatles e Rolling Stones. Un mio brano preferito? Love in vaindei Rolling Stones.

INTERVISTA. “Musicultura, un festival meraviglioso”: il Quinteto Astor Piazzola a La Controra

Mercoledì 18 Giugno il tango argentino del Quinteto Astor Piazzolla è stato protagonista dell’appuntamento di musica live de La Controra, al Teatro Lauro Rossi di Macerata: composizioni di grande ricchezza melodica, ritmica e armonica, quella dei cinque artisti di Buenos Aires, che hanno riportato in auge gli arrangiamenti del celebre compositore Piazzolla, brani perlopiù inediti.

Il gruppo formato da Lautaro Greco, Sebastian Prusak, German Martinez, Sergio Rivas e Cristian Zarate, sotto la direzione del maestro Julian Vat, ha incantato il pubblico presente in sala e hanno confidato, alla redazione di Sciuscià, i successi del loro progetto artistico. In qualità di portavoce della band, Vat ha rilasciato un’intervista alla redazione di Sciuscià, poco prima della loro esibizione.

Com’è nato il Quinteto Astor Piazzolla?

[Julian Vat] Il Quinteto nasce diciannove anni fa per iniziativa di Laura Escalada Piazzola, per mantenere viva l’eredità di Astor Piazzolla con ilo suo stesso spirito, il suo tango e la sua musica. Fu lei stessa a convocarmi per un provino. Tra i prerequisiti,  oltre all’esperienza e a un certo tipo di professionalità, si richiedeva un amore speciale per l’arte del Maestro.

Com’è esibirvi, presentando a tutto il mondo la musica di Piazzolla?

Credo che Astor Piazzolla sia un artista universale, perché è riuscito a descrivere, con la musica, il suo paese. Portarlo in giro per il mondo è sempre un grande onore.

I genitori di Astor Piazzola avevano origini italiane: quale emozione provate nel riportare la sua musica in Italia e suonare nel nostro Paese?

Piazzolla è legato a questo Paese per tanti motivi: è la terra di origine dei suoi genitori e il posto in cui ha prodotto gran parte della sua musica, registrando molti pezzi del repertorio con musicisti italiani. Abbiamo avuto la fortuna di suonare in Italia in varie occasioni; abbiamo una grande responsabilità, in quanto Astor è molto conosciuto e apprezzato qui.

Siete stati acclamati dalla stampa internazionale come l’unico gruppo in grado di suonare la musica di Piazzola con una ricchezza melodica e ritmica senza precedenti. Come descrivereste la vostra performance?

Cerchiamo di diffondere con umiltà tutta la musica del Maestro, un autore molto fecondo; ha, al suo seguito, più di tremila opere, tra cui due sono le più famose, forse una quindicina quelle più conosciute. Noi abbiamo la fortuna e responsabilità, anche attraverso i nostri tre dischi, di far conoscere la restante parte della sua musica meravigliosa, perché merita di essere riproposta al pubblico. A Musicultura le opere più inedite di Piazzolla, affiancate dai grandi successi come Libertango.

Musicultura, in una sola parola?

Meraviglioso. Promuovere la canzone d’autore e i nuovi talenti come noi, che non ci riteniamo di certo consacrati.

INTERVISTA. “Qui a Musicultura ho trovato l’eredità di Fabrizio”: Fabio Frizzi a La Controra 2019

Mercoledì 19 Giugno Fabio Frizzi è tornato a Macerata, come ospite di Musicultura. Proprio lo scorso anno, l’artista è salito sul palco dello Sferisterio, per ricordare suo fratello Fabrizio con gli amici del festival. Chitarra alla mano, a La Controra, l’artista si è esibito in una rivisitazione dei più celebri brani del cinema italiano. Alla redazione di Sciuscià ha rilasciato questa toccante intervista in cui parla anche del rapporto con il fratello.

Con l’avvento del digitale e con la produzione sempre più cospicua delle serie tv, il cinema sta progressivamente perdendo la sua leadership. A tal proposito, come vedrebbe un suo eventuale passaggio definitivo dal grande al piccolo schermo?

Verso la fine anni ’90 ho avuto la fortuna incontrare il regista Vittorio Sindoni, che mi ha coinvolto per circa dieci di anni in una fiction, che io ho reinterpretato esattamente con lo stesso metodo che utilizzo lavorando per il cinema. Ogni puntata, l’ho considerata un film a sé stante. Anche se oggi si sta andando verso altre frontiere, io continuo a difendere il grande schermo, per la sua importanza.

Per anni ha lavorato al fianco del celebre regista Lucio Fulci. C’è, nel panorama cinematografico italiano contemporaneo, una figura che possa essere considerata l’erede spirituale del suo cinema?

Lucio ha lasciato la sua eredità lontano dalla sua terra. Anche se nel nostro Paese ci sono cineasti molto validi, questo è un Paese un po’ sterile nell’accettare o, più semplicemente, nell’ascoltare le esigenze e le idee dei giovani. Il cortometraggio ne è un esempio, tanto apprezzato all’estero quanto sottovalutato in Italia. Dunque il semino piantato da Lucio, col cinema di genere artigianale – tanto amato oggi – sta crescendo, ma di più all’estero.

L’arrangiamento di una colonna sonora avviene dopo un primo assetto di montaggio o la musica viene concepita prima, durante l’ideazione del film insieme al regista. Qual è il tipo di approccio più in voga, oggi?

Dipende molto dalle situazioni: ci sono delle volte in cui ti chiamano per lavorare, a film girato, e hai modo di vedere il montaggio. Se il regista fosse un sarto, la sceneggiatura sarebbe il cartamodello del film, un pezzo fondamentale dell’opera. Questo è l’aspetto più delicato: ogni volta hai un riferimento nuovo e anche una brillante idea può essere considerata non valida. Servono umiltà e voglia di lavorare, in una qualsiasi professione. Il mio è un mestiere difficile, ma dà grandi soddisfazioni.

Quale potrebbe essere la colonna sonora perfetta per Musicultura?

Un mio brano, che  potrei comporre in futuro. Mi piace molto com’è organizzato questo festival e lo spirito che si respira nell’aria, che permea completamente la città. Sarebbe bello scrivere un inno per i 30 anni di Musicultura. Senza dubbio, dovrebbe trattare il tema dell’amore.

Fabrizio, un amico fedele di Musicultura. C’è un momento o un aneddoto legato al festival, che suo fratello le ha raccontato?

Mi raccontò di essere venuto a Musicultura, il primo anno della sua conduzione, con un grande punto interrogativo in tasca. Eravamo già stati insieme allo Sferisterio un po’ di tempo prima, per uno spettacolo. Sin da subito mi ha parlato benissimo di questa realtà. Ha sempre vissuto il festival con grandissimo entusiasmo, quasi come se lo considerasse un regalo da conservare gelosamente. Durante la malattia, uno dei suoi rammarichi maggiori era proprio la paura di non riuscire ad arrivare alla settimana finale del concorso.  Qui a Macerata ho trovato l’eredità di Fabrizio: la gente mi ricorda lui, come anche la città, tra i pochi luoghi che mi fanno vivere bene la mancanza di mio fratello. Lui aveva la caratteristica di essere una persona buona, capace di farsi carico delle cose belle e dare importanza a tutto quello ciò che merita di avere risalto. Voi avete perso un grande amico, io un grande fratello. Ce lo ricordiamo sempre, lui è qui!

INTERVISTA. Franz Di Cioccio a Musicultura: “Vi racconto come abbiamo vissuto il Rinascimento della musica italiana”

A parlare della Premiata Forneria Marconi, pietra miliare della storia del Progressive Rock e leggenda internazionale fin dagli anni ’70, è Franz Di Cioccio, frontman e batterista della band, ospite de La Controra e della prima Serata Finale di Musicultura; mercoledì 19 Giugno, l’artista ha raccontato le tappe del Rinascimento della musica italiana e di quando nel ’74 registrò un disco live tra il verde e i grattaceli, nell’Hyde Park di New York. Poco prima dell’incontro con il pubblico al Palazzo Conventati, Di Cioccio ha rilasciato questa intervista alla redazione di Sciuscià.

Vi esibite senza sosta dagli anni ’70, siete reduci dall’intenso tour mondiale “Emotional Tattoos tour”, che ha fatto tappa in Giappone, in America, nel Regno Unito e nel nostro Paese. Come accoglie il pubblico internazionale la vostra musica?

Bene, abbiamo abituato il pubblico tanto tempo fa alla nostra musica. Difatti, abbiamo iniziato presto a suonare all’estero, pensando fosse troppo riduttivo esibirci solo nel nostro Paese, considerando che il confronto con altre persone ci avrebbe offerto ulteriori possibilità di crescita. Siamo incuriositi dalla continua ricerca di stimoli e suoni: è la chiave del mestiere di musicista. Mano a mano questa strategia si è consolidata, di pari passo al nostro confronto con più tipologie di ascoltatori. Il coronamento della scelta di suonare all’estero è stata la vincita, lo scorso anno, del titolo di Band Internazionale all’International Prog Awards, dopo un contest del Prog Magazine inglese, rivolto a lettori di tutto il mondo. Ci capita spesso di cantare in italiano, fuori dal nostro Paese. Infatti “Emotional Tattoos” è stato registrato nella doppia versione. Nonostante questo, nell’ultimo concerto londinese abbiamo cantato in lingua originale per la melodia, la dolcezza e la poesia di alcuni testi.

Una carriera al fianco di De André, la vostra. I brani di Faber appartengono anche a questa nostra società, cinica e disincantata. In che modo, oggi, è possibile raccontare quelle tematiche cantate da Fabrizio, che continuano a essere ancora attuali?

Il nostro incontro con De André è stato un evento eccezionale, nato da una mia intuizione. In America abbiamo constatato che i generi sono rispettati e non vengono discriminati, perché chi fa musica fa parte del tessuto sociale e culturale del Paese: nascevano infatti collaborazioni molto interessanti tra cantautori e band; basti pensare a Jackson Browne con gli Eagles o Bob Dylan con i The Band. Il pubblico italiano però non era abituato a questi incontri e a questi approcci alla musica. La PFM aveva già lavorato con Fabrizio per “La buona novella”; un giorno ci venne ad ascoltare a Nuoro e ci invitò a pranzo. Ne approfittai per fargli una proposta indecente, prendere coraggio e fare quello che nessuno in Italia aveva mai fatto. Inizialmente titubante, vista la sua natura ostinata e contraria, disse “Belin, è pericoloso!? allora lo faccio!”. Abbiamo messo a sua disposizione un patrimonio musicale. Tutto questo non ha segnato solo la storia della nostra discografia, ma anche il senso della musica in Italia, dimostrando che la condivisione artistica, nella nostra ricerca e sperimentazione, avrebbe dato un grande apporto alla diffusione della poetica dei suoi testi all’interno delle canzoni.

La fruizione e la produzione della musica subiscono continuamente evoluzioni. In che modo vi approcciate ai cambiamenti, sempre più frequenti, del mercato musicale?

Non credo nel mercato musicale, propenso soltanto alla vendita dei dischi, magari di quelli più orecchiabili. Confido però nel talento delle persone. Non esiste un genere che ti fa vendere con assoluta sicurezza; esiste la capacità dell’artista, che dà la giusta carica all’animo. A discapito dei fenomeni indotti, quelli spontanei sono più duraturi perché più liberi. Non c’è una regola per arrivare al “successo”, participio passato del verbo succedere. Prima bisogna produrre un bel disco; solo quando è successo, allora arriva il successo.

La vostra storia è segnata da tanta musica e innumerevoli collaborazioni. Qual è il prossimo progetto della PFM? 

Quest’anno abbiamo fatto la tournée “PFM canta De André Anniversary”, perché spesso le cose belle in Italia non vengono ricordate. Eppure, ci sono state 45 date sold out, 6 delle quali solo a Milano. Abbiamo suonato con rigore e con maestria, ma soprattutto con passione. Fabrizio è come un’autostrada: ti fa viaggiare dove vuoi, sapendo che sarà un viaggio lungo. Il prossimo progetto? Fare un disco diverso, quindi non sapere cosa riserverà il domani. Nel futuro c’è l’intrigo, che manca nella replica di una cosa che ha già il profumo di successo. Se scaviamo attraverso le emozioni, tra i ricordi e tra i viaggi, arriverà un’idea nuova: quello sarà il prossimo album!

Quale consiglio dareste agli otto vincitori di Musicultura, per vivere una carriera premiata e fortunata come la vostra?

Uno dei consigli più semplici: essere quello che si è e mai quello che si vuol sembrare. Per fare heavy metalnon basta comprare un chiodo e suonare la chitarra bassa; l’hanno già fatto. Bisogna raccontare ciò che ci fa gioire o soffrire. Non tutti i sogni vengono subito a galla; qualcuno diventerà realtà inaspettatamente.

INTERVISTA. A La Controra di Musicultura, Lidia Ravera racconta la letteratura dell’amore

Fervente femminista, rivoluzionaria e penna prestigiosa della letteratura italiana contemporanea, la scrittrice Lidia Ravera è approdata a La Controra, per raccontarsi attraverso un’emozionante lettera che ha scritto per la sorella, scomparsa 26 anni fa, con l’inedito format “Le parole che non ti ho detto”. Con una lettura a cuore aperto, la Ravera, continua a parlare, attraverso la forza della scrittura, con l’amata sorella, raccontando anche i passaggi fondamentali della sua vita: il rapporto con la religione, la maternità inaspettata, i progetti, di cui alcuni ancora in cantiere.

Dall’assessorato alla cultura e alle politiche giovanili alla finale del Premio Strega 2008 fino all’ultimo romanzo distopico “Gli Scaduti” (2018), emerge il ritratto di una donna istrionica e combattente che ha sempre tenuto alto il suo pensiero attraverso una sola unica arma: la scrittura.

In “L’Amore che dura” definisce la scrittura come ‘l’unica forma possibile di espressione dell’inesprimibile’. Quanto si rafforza un testo con la musica?

Moltissimo, perché la musica alza la temperatura emotiva, consentendo ad altre parti dell’essere umano di lievitare liberamente. Con la musica, quindi, non si è più solo testa, cervello e attenzione critica ma si riesce a toccare la sfera sublime dell’emozione, difficilmente raggiungibile con la sola scrittura.

La sua è una preziosa voce nel documentario di Paola Columbia “Femminismo”. Le battaglie per la conquista dei diritti non sono mancate, ma ancora oggi assistiamo a tragedie consumate dentro le mura domestiche. Qual è, secondo lei, l’espressione artistica che più, tra le altre, riesce a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione?

Ancora e sempre la letteratura, poiché rappresenta un esercizio di empatia: attraverso la scrittura, si cercano di capire le ragioni e ci si mette dal punto di vista degli altri, della vittima e del carnefice. Un buon libro consente di comprendere la meccanica alla base di queste tragedie. Io ho una fiducia sconfinata nella letteratura proprio perché passa attraverso un esercizio dell’attenzione culturale, intellettuale ma anche spirituale. Ho scritto un monologo che si chiama “A me non era mai piaciuto”, e ho usato questo strumento per cercare di capire le ragioni profonde degli atteggiamenti dei protagonisti, e di conseguenza degli uomini. Una delle funzioni chiave della letteratura è mantenere viva la compassione, un lavoro che noi scrittori e scrittrici ci dobbiamo accollare.

La scrittura è per lei una protagonista indispensabile per restare al mondo. Nel caso di “Sorelle”, mette in scena un suo testo molto intimo. Com’è stato ritrovarsi nel ruolo di spettatrice della propria stessa vita?

Lavoro con il materiale della mia vita come qualsiasi scrittore fa da sempre. In particolar modo ho scritto due racconti autobiografici: il primo è “Sorelle”, che ho deciso di scrivere dopo la sua scomparsa. Dovevo guardare in faccia a questo dolore immenso e distanziarlo; è stata una scelta obbligata. In un dialogo mai interrotto tra me e lei, il libro però rintocca qualcosa che è comune a tutti, cioè la nostra vulnerabilità, la nostra fragilità e quanto l’amare qualcuno ci espone al dolore, sia che si ami un uomo, un figlio, una sorella o un padre. Soltanto chi non ama nessuno non soffre, ma è un prezzo alto però da pagare, una vita senza amore è miserabile. Il secondo scritto autobiografico nasce, invece, su commissione, quando sono imprevedibilmente rimasta incinta senza averlo deciso. All’epoca venivo considerata una femminista di quelle cattive, senza nessun desiderio femminile e distante dall’idea di maternità. “Stampa Sera” mi chiese un articolo su questa scelta di diventare madre. Riportai un buon elaborato, piacque molto, tanto che un dirigente della Bompiani mi chiese di farne un libro e io scrissi “Bambino mio”. È un inno alla maternità, che ancora adesso fa qualche vittima. Non è più in circolazione ma lo fotocopio e lo regalo a qualche giovane coppia di amici che solitamente, entro l’anno, rimane incinta.

In “Sorelle”, in cosa lo spettatore si sente più emozionato? Nel ripercorrere la scrittura o nello spettacolo teatrale?

Non lo so. Da “Sorelle” è stato tratto uno spettacolo teatrale nel 2006 con Lina Sastri e Patrizia Zappa Mulas. É una lettera alla sorella quella che leggo oggi, quì a Macerata. Rintocca qualcosa che è comune a tutti, cioè la nostra vulnerabilità, la nostra fragilità e quanto l’amare qualcuno ci espone al dolore, sia un uomo, un figlio, una sorella, un padre. Soltanto chi non ama nessuno non soffre. È un prezzo alto però una vita senza amore è miserabile. Io racconto questo rapporto unico tra sorelle, diverso dall’amicizia perché si è come due rami dello stesso albero. Si può divergere ma la radice è comune. Io sciaguratamente avevo un rapporto talmente bello con mia sorella, morta quando ha compiuto 46 anni, che continuo a parlarle. È un dialogo, mai interrotto, proprio grazie la scrittura.

Ne “Gli scaduti” racconta di una società che allontana tutti coloro che hanno raggiunto il 60esimo anno d’età, per permettere ai giovani di realizzarsi. Secondo lei, oggi, manca lo spirito d’iniziativa dei giovani oppure la società odierna non è ancora pronta ad un cambio generazionale?

Nessuna delle due cose. Per l’universo de “Gli scaduti” ho trovato ispirazione dalla mia irritazione per una parola usata da Matteo Renzi, “rottamazione”, riferita agli esseri umani. Questo ha messo in moto il desiderio di raccontare questa società in cui un cretino tra i 30 e i 40 anni prende il potere e ne costituisce una nuova in cui il ricambio generazionale è forzato. Io penso che ciascuno debba fare la sua parte, non si può non tener conto del fatto che la vita si è allungata di 30 anni; arriviamo alla terza età in condizioni fisiche spesso smaglianti ed intellettuali (siamo l’ultima generazione formata sui libri e non su Wikipedia, il che ci offre qualche vantaggio). Perché, allora, rottamare una generazione così stimolante? Troviamo spazio per tutti. Dai giovani mi aspetto che rovescino il tavolo a spallate, tocca loro fare la rivoluzione. Io, da anziana attiva, mi occupo di riforme. Vorrei che voi vi occupaste di rivoluzioni.

Qual è, secondo lei, il punto di forza di un festival come Musicultura, che continua a mantenere vivo lo spirito della canzone d’autore e esalta l’esibizione dal vivo?

Ha il grandissimo merito, che condivide con molti festival, di esaltare la dimensione dal vivo. Esci di casa e consumi cultura, emozioni, musica, parole, insieme agli altri. Non è come illuminare lo schermo e sentire musica da Spotify, vi è una differente modalità di consumo che, se venisse meno, a me mancherebbe molto. Quando ero in età universitaria organizzavo concerti pop, e, con i circoli del proletariato giovanile, il salto delle transenne per quei giovani che non potevano permettersi il biglietto, perché ho sempre sostenuto che la musica era di tutti. Un passato di cui ovviamente sono fiera. Negli anni ’70 ho co-diretto con Giaime Pintor una rivista musicale, Muzak: recensivamo, tra i tanti, artisti come Frank Zappa. Questo festival ha l’enorme vantaggio di unire la musica alle parole, che si completano e andrebbero sempre deliberate insieme.

INTERVISTA. Valerio Calzolaio a La Controra: “Musicultura è sempre l’ospite d’onore a Macerata”

Dopo aver scritto Ecoprofughi Libertà di migrare, Valerio Calzolaio torna ad affrontare il tema attualissimo dell’immigrazione nel suo ultimo libro “Migrazioni. La rivoluzione dei Global Compact” (2019) e decide di farlo in anteprima a La Controra di Musicultura 2019. Nella splendida cornice del cortile di Palazzo Ciccolini, in un’atmosfera intima e raccolta, il giornalista ha parlato del libro dialogando con il Rettore dell’Università Politecnica delle Marche Sauro Longhi e con la Professoressa di Diritto processuale penale dell’Università di Macerata Lina Caraceni. Ad accompagnare le discussioni sull’argomento, le suggestioni musicali curate da Chopas della Compagnia di Musicultura.

È politico e accademico, ma anche giornalista e scrittore. Ha sempre avuto la  passione per la letteratura? Scrivere è stata un’esigenza più tarda, dovuta magari a finalità espressive?

Ho sempre avuto un interesse per la scrittura e la letteratura, due passioni strettamente collegate. Sono abituato a leggere molto e a scrivere tanto, fin da ragazzino.

Dopo aver pubblicato Ecoprofughi Libertà di migrare, ha scritto Migrazioni la rivoluzione dei Global Compact, che costituisce un’introduzione interdisciplinare allo studio storico del fenomeno migratorio. Da cosa nasce l’interesse per questo tema e come mai la volontà di riproporlo anche nel suo ultimo lavoro?

A causa di impegni istituzionali ho girato il mondo per una ventina d’anni, presenziando ad alcune conferenze dell’ONU che vertevano su problematiche come cambiamenti climatici, desertificazione, biodiversità, e sui programmi ambientali sia nazionali, che internazionali. In questi incontri si annunciavano sempre esodi forzati di milioni di persone dall’Africa, o da altri continenti, verso l’Europa. Studiando il fenomeno, mi sono reso conto che i migranti che si  spostano a causa dei mutamenti del clima ci sono sempre stati. Fin da Ecoprofughi ho ragionato su queste tematiche e sto continuando a farlo.

Come abbiamo accennato, l’immigrazione è al centro del dibattito sull’attualità. Crede che la letteratura e la scrittura possano dare una visione più globale del fenomeno?

Tutti, al giorno d’oggi, hanno paura. Ognuno di noi resta turbato da ciò che non conosce. Detto ciò, bisognerebbe immaginare quel che prova un povero ragazzo, solo, costretto spesso a lavori forzati che, dopo aver viaggiato e aver attraversato il mare, si ritrova in un ambiente ostile e poco amichevole. Il timore nei confronti degli “altri” non viene mai preso in considerazione, pur essendo insito in tutti noi, anche negli animali. Dobbiamo ragionare sulla paura, non negarla; è un sentimento giusto quando è generata da astio e da comportamenti poco rispettosi. In questo momento ci sono 5 milioni di stranieri che hanno la residenza in Italia, ma allo stesso tempo abbiamo 5 milioni di italiani all’estero con la doppia cittadinanza: questo melting pot c’è sempre stato e c’è. Bisognerebbe considerare che chi arriva nel nostro Paese può essere per noi una preziosa risorsa e può dare un contributo. Abbiamo così tanti problemi (ride). La letteratura sicuramente può aiutare nell’integrazione tra le culture.

L’anteprima del suo ultimo libro avviene proprio nella sua città, Macerata. È giusta definirla anche una scelta di carattere affettivo?

È sicuramente una scelta affettiva. La mia città natale è Recanati, come d’altronde lo è anche per Musicultura; quella d’adozione è Macerata, in cui vivo da quando avevo due anni. Mi fa molto piacere accogliere l’invito de La Controra, di Musicultura e delle amiche e degli amici di Macerata racconta.

Da cittadino ed ex consigliere per tanti anni di Macerata, quanto, una rassegna come Musicultura, aggiunge lustro alla città e all’intera cittadinanza? Come vive il Festival?

Sicuramente il festival dà lustro a Macerata, città universitaria, di politica,  mai stata una terra “operaia”.  Un tempo era terziaria, fatta di impiegati, funzionari, di istituzioni. Ora questo territorio è un deposito di storia, cultura, di arte, che si apre alla musica, al teatro, alla condivisione di valori e di idee. Anche per questo motivo, Musicultura è sempre l’ospite d’onore a Macerata. La città fa molto bene a valorizzare questo tipo di eventi.

INTERVISTA. Lino Patruno inaugura La Controra di Musicultura 2019: “Vi racconto com’è nato il cabaret con I Gufi”

Musicultura è terreno fertile per gli incontri culturali, per i suoni e per le parole giuste; per l’arte nelle sue molteplici espressioni. Ieri, nell’affrescata cornice del Centrale Plus in Piazza della Libertà, si è svolto il primo degli appuntamenti de La Controra, che ha visto come protagonista il jazzista e cabarettista Lino Patruno. A condurre l’incontro è stato il poeta Ennio Cavalli.

Musicista di spicco nel panorama jazzistico italiano e internazionale, Patruno è compositore, sceneggiatore, co- fondatore negli anni ’60 de I Gufi. Ha scoperto la sua vocazione per la musica all’età di 18 anni da auto didatta, nata in estate, nelle Marche. Durante la sua carriera ha collaborato con celebri artisti, tra cui Dan Barrette, John Paul Pizzarelli. Alla redazione di Sciuscià, ha raccontato la sua passione per il cabaret e alcuni curiosi aneddoti sulla sua vita, tra jazz e la voglia di far divertire il pubblico.

“Quando il jazz aveva lo swing”: un racconto fluente che narra l’excursus di tutte le più significative collaborazioni che l’hanno portata a diventare l’artista che oggi è; tra le tante, quello con Joe Venuti. Cosa ricorda del primo incontro con il violinista statunitense e come ritiene che questo avvicinamento abbia influito sulla sua crescita e formazione musicale?

Mi definisco un collezionista di cultura jazzistica e, tra i miei “migliori acquisti”, mi piace citare Joe Venuti. Una sera venne in teatro a Bergamo e dopo il concerto si fermò a cenare a Milano, nello stesso locale in cui ero io. Mi avvicinai per chiedergli di incidere un disco. Lui, con un italiano maccheronico, mi invitò a duettare: con una “Ghitarra” presa in prestito da Joe Cusumano, improvvisammo per tutta la notte sui brani di George Brown, entrambi entusiasti di condividere quel momento. Fu un’esperienza incredibile. È così che è nata la nostra amicizia, fatta anche di collaborazioni e di viaggi.

Da jazzista, ci svela che la musica americana per eccellenza ha in verità origini italiane. Tuttavia perché, secondo lei, nel nostro Paese questo genere stenta ancora a sviluppare una propria connotazione stilistica o ad emergere?

Musicalmente parlando, l’Italia di oggi è purtroppo ignorante. Mi rammarica pensare che, per colpa della televisione, delle case discografiche ossessionate dai guadagni e dei talent show, il Paese che una volta era detentore della grande dell’opera e delle grandi voci, possa essere sceso così in basso. Nell’opinione pubblica c’è molta confusione tra cosa sia realmente la musica.

Dopo gli anni ’70, il jazz è entrato ufficialmente a far parte della cosiddetta “musica colta”, divenendo materia di insegnamento nelle scuole e nei Conservatori. A tal proposito, non sono venute meno le lamentele riguardo la perdita dell’immediatezza e l’estemporaneità del genere. Qual è il suo parere, a riguardo?

Voglio raccontarti un piccolo episodio: tempo fa un ragazzino di 17 anni mi mandò la registrazione di un suo pezzo al pianoforte, da farmi ascoltare; pensai di dover sentire la solita rivisitazione di Calabresella mia. Il ragazzo mi sorprese, suonando una pietra miliare della storia del jazz, Finger Breakers di Jelly Roll Morton, brano di una difficoltà esagerata. Incuriosito, gli chiesi come potesse conoscere il jazz dei primi anni ‘10 e mi rispose che il merito era di suo padre, appassionato di musica, che gli aveva tramandato l’amore per la cultura jazzistica in tenera età. Credo sia importante soprattutto come, ognuno di noi, tenda ad approcciarsi a qualsiasi forma d’arte. Alla base di ogni passione, c’è l’emozione.

A caratterizzare il suo stile artistico è il banjo. Sebbene i jazzisti suonino soprattutto il pianoforte, il contrabbasso o comunque tendano a prediligere elementi a fiato, come mai ha invece scelto di studiare questo strumento?

Prima il banjo si suonava principalmente per una questione di volume, molto più elevato rispetto a quello di un chitarra. Non c’erano i microfoni negli anni ‘20. Inoltre, si tratta dell’unico strumento inventato dagli americani, quando tutti gli altri hanno origini europee.

Oltre che jazzista, è anche cabarettista. Ha sempre portato un po’ della sua comicità nelle sue canzoni, come nei brani Crapa peladaIl gallo è morto. Quanta importanza assume lo humor nel mondo della musica e, in particolare, che valore ricopre nella sua?

Mi avvicinai al cabaret fondando negli anni ’70 I gufi. È stato un caso: una storia d’amore finita male si è rivelata significativa per la nascita del progetto. La comicità può essere di vari tipologie; ad esempio c’è quella banale, che è anche fine a se stessa, spiccia. Poi c’è quella ragionata, che affronta tematiche sociali, politiche, antifasciste, ad esempio. Quest’ultima, a mio avviso, è il tipo di approccio che veramente conta, perché ha un fine più nobile. Non a caso, sono ispirato da maestri come Totò e Peppino De Filippo.