Il “Futuro” di Lorenzo Lepore «è un luogo visto da lontano»
Lorenzo Lepore nasce a Roma nel 1997. Inizia presto a fare musica e a calcare vari palcoscenici italiani (Parco della Musica, Palatlantico, The Voice of Italy).
Nel 2018 pubblica Flebo, un Ep che raccoglie le sue prime canzoni, e comincia a frequentare l’Officina Pasolini. L’anno dopo idea e conduce “I quattro amici al bar”, un programma radiofonico interamente dedicato alla canzone d’autore. A ottobre 2020 suona al MEI, il meeting degli indipendenti. Quest’anno è entrato a far parte dell’etichetta discografica T-recs di Tony Pujia, con cui sta attualmente lavorando alla produzione del suo primo album in studio.
Studente di letteratura, musica e spettacolo alla Sapienza di Roma, ha le idee molto chiare riguardo alla sua musica, che definisce come il suo “luogo ideale”.
Qual è stato il momento in cui hai capito che la musica sarebbe diventata la tua strada?
Sono cresciuto nella musica, provengo da una famiglia in cui si fa solo quello: ho un padre cantante d’opera e chitarrista per hobby e una madre pianista e cantante. Per mia fortuna, poi, quando ero piccolo a casa si mettevano i dischi dei cantautori e spesso ci cantavo sopra per gioco. Un giorno, all’età di 12 anni, ho ricevuto una chitarra acustica alta il doppio di me in regalo; pensavo che mio padre l’avesse comprata perché volesse suonarla lui e ci rimasi male. Così restò dentro una scatola per un anno finché, finite le scuole medie, venne un amico a casa e decidemmo di strimpellare qualcosa. Io imparai tre accordi sul momento e una settimana dopo scrissi la mia prima canzone. Successivamente partii per 15 giorni con il gruppo scout che frequentavo all’epoca e feci ascoltare questo pezzo ai miei compagni. La canzone piacque talmente tanto da divenire il tormentone di quella gita: la si cantava ogni momento del giorno e ricevetti anche una piccola targa intitolata “Sanremo Giovani Scout”. Tornato a Roma, capii che quella sarebbe diventata per sempre la mia strada e continuai a scrivere canzoni. Fu la prima volta in assoluto che mi sentii apprezzato in qualcosa e che mi trovai finalmente nel mio “luogo ideale”, in cui mi sentivo parte di qualcosa che emozionava sia me che chiunque avessi intorno. Da quel momento in poi non ho mai smesso di fare musica.
Il titolo di uno dei tuoi brani è Futuro. Ecco, cos’è per te il futuro? E che sapore ha questa parola?
Il futuro per me è un luogo visto da lontano, come uno di quei paesini annebbiati che intravedi fra le montagne, ma sei in viaggio e non puoi fermarti per raggiungerli; rimani solo con un’idea, piccola e sfocata, di quello che potrebbe essere, ma che non sai. È speranza e paura allo stesso tempo; è il sogno di una notte da cui non riesci a svegliarti mai. Il futuro mi fa guardare intorno e concretizza spesso davanti a me tutto quello che non va. È il deserto in cui alle volte mi ritrovo e da cui non riesco a immaginare la nascita di una qualsiasi forma di vita; è una domanda, sempre identica e continua: “Cos’è che mi aspetta”? Le risposte sono diverse ma non ce n’è mai una certa. Sono ipotesi, grida e attese mutate sempre da un unico destino: il dubbio. Non ci resta che attendere e rimanere a guardare. La fortuna è che in questo lungo cammino tormentato ogni tanto c’è qualcosa che improvvisamente ci fa essere felici, che ci commuove e ci fa sperare in una vita meravigliosa, felice, libera. Ecco forse questa ipotesi può somigliare a un’utopia, ma è proprio questa sensazione a cambiarci ogni tanto, a farci sperare in meglio e continuare a combattere le piccole battaglie quotidiane. Il futuro per me ha il sapore della terra bagnata, da una lacrima magari, che ci fa essere tristi e desolati ma allo stesso tempo felici di provare ancora emozioni, di dare ancora un valore all’unica cosa certa che possediamo: la nostra esistenza.
Un paio di anni fa hai ideato e prodotto “I quattro amici al bar”, un programma radiofonico interamente dedicato alla canzone d’autore. Cosa ti ha spinto a impugnare il microfono non per cantare le tue canzoni ma per proporre quelle altrui?
La musica per me, come l’umore, è fatta di alti e bassi. Spesso ci sono momenti in cui non ho voglia di mettermi in mostra con le mie canzoni ma mi va di dare spazio a quelle di altri. E in uno di questi momenti della mia vita questo stato d’animo ha combaciato con l’incontro con altri ragazzi cantautori, quattro amici appunto, assieme ai quali mi è venuta l’idea di omaggiare gli esponenti di questa barca in movimento di cui facevamo parte anche noi. Inizialmente abbiamo messo su una piccola band in cui esploravamo ed arrangiavamo le canzoni dei cantautori italiani. Poi è arrivato Edoardo, un ragazzo che lavorava in radio e si è interessato a questo progetto. Innamoratosi di quello che facevamo, ci ha proposto di trasferirlo nel suo programma dando vita a un vero e proprio format settimanale. Bene. Nessuno di noi aveva mai lavorato in radio eccetto lui; sembrava una cosa impossibile, ma ci accomunava proprio il fatto di amare le follie. E così “Eravamo quattro amici al bar…”: magari non abbiamo cambiato il mondo, però ogni mercoledì, per un anno, siamo andati in onda raccontando la storia dei cantautori, intervistando grandi artisti e addetti ai lavori e dando spazio a tantissimi emergenti.
Suonavamo anche in diretta, a fine puntata. È stata un’esperienza meravigliosa che mi ha insegnato un sacco di belle cose e di conseguenza mi ha fatto re-innamorare della mia musica. È proprio vero quello che dice Niccolò Fabi in una sua canzone: “Allontanarsi è conoscersi”.
Restiamo ancora un attimo in tema di canzoni d’autore: quali sono le tue fonti di ispirazione e quanto hanno influito nella tua crescita artistica?
Le mie fonti d’ispirazione maggiori sono i cantautori italiani. Li ascolto da piccolissimo. All’età di 7 anni mi sdraiavo sul letto ad ascoltare Aushwitz di Guccini con il mio primo lettore mp3 e piangevo a dirotto. Poi mio padre suonava con la chitarra e metteva spesso sul giradischi Il burattino senza fili di Bennato, un album che secondo me dovrebbero far ascoltare nelle scuole primarie per bellezza e ricchezza di significati e insegnamenti. Poi ricordo nei viaggi in macchina Guido piano di Fabio Concato o le cassette di Pino Daniele, che spesso odiavo per la complessità musicale, ma che poi ho amato follemente qualche anno dopo per lo stesso motivo che generava quel distacco. Cominciavo a immagazzinare inconsapevolmente tutta la musica finché, trovatomi con una chitarra in mano, il primo ad influenzare le mie canzoni è stato Antonello Venditti. Con lui sono venuto a contatto diretto con la scuola romana, a partire dai suoi primi dischi degli anni ‘70, con pezzi come Sora Rosa e Lilly, per poi arrivare ai suoi più grandi successi degli anni ‘80. È stato amore a prima vista. Un grido intenso di libertà da una parte e un calore amorevole e divertito dall’altra. Da lì per forza di cose ho conosciuto De Gregori, un altro fulmine a ciel sereno: reputo i suoi testi poesia pura. Per non parlare di Lucio Dalla, che ritengo essere il miglior cantautore italiano di tutti i tempi – ma qui si aprirebbe un capitolo troppo grande -. Credo che la nostra musica d’autore sia più bella e variegata di qualsiasi altra: ogni esponente rappresenta un mondo sonoro diverso e uno scorcio artistico unico. A partire dagli anni 60’, da Modugno a Celentano, per arrivare ai 70’ e 80’, da Battiato a Gaber, da Graziani a De André, ognuno ha colto elementi musicali e timbrici dall’estero e ne ha fatto qualcosa di originalissimo, di qualità altissima nella nostra lingua. In questo momento della mia vita amo moltissimo Samuele Bersani per i suoi testi “filmici” e le sue melodie ipnotiche. Per non parlare della nuova scena indipendente italiana: Fulminacci, Giovanni Truppi, Brunori Sas. Comunque sia mi definisco “onnivoro” al livello musicale e ovviamente aperto al panorama internazionale. Ascolto tutto, dalla musica classica al rock inglese dei Beatles – che hanno posto le fondamenta della musica moderna -, gli Stones, i Pink Floyd e adoro tutti i sottogeneri del rock. Bob Dylan rimane il miglior cantautore di tutti i tempi. Mi piace molto la new wave. Recentemente mi sono avvicinato a un gruppo psichedelico pazzesco: i Beach House. Insomma, credo che ci vorrebbero più di dieci pagine per elencare tutto.
Musicultura: cosa rappresenta questo palco per un artista giovanissimo come te?
Musicultura per me rappresenta una gioia incredibile. Mentre facevo il soundcheck durante le prime selezioni mi guardavo intorno incredulo e con un sorriso da idiota stampato sulla faccia. Sembravo un bambino in un negozio di caramelle e invece ero semplicemente orgoglioso dei miei passi. Questa per me è una dolcissima consacrazione, che mi fa sentire ancora più parte di questo genere e mi fa capire ancora di più che questa è la mia strada. Aspetto questo momento da quando ho capito che scrivere canzoni sarebbe diventata la mia vita. Ho conosciuto prestissimo Musicultura tramite amici che hanno preso parte alle varie edizioni. L’ho sempre visto, più che come un concorso, come un’istantanea dell’evoluzione musicale e autoriale in Italia. In primis perché ospita una grande quantità di cantautori e poi perché è un grande indice della presenza di musicisti che raccontano fatti in prospettive diverse e in maniere più originali rispetto a uno standard comune. Musicultura comunica annualmente che questo genere esiste e resiste e rappresenta per me un punto di arrivo e un punto di partenza allo stesso tempo. È un onore per me ritrovarmi in questo grande contenitore d’arte con le mie canzoni.
Daniela Munda