Yasmina Pani a La Controra – L’intervista della redazione di “Sciuscià”

Se è vero che la musica è fatta soprattutto di note e strumenti, difficilmente però potremmo immaginare una canzone senza testo, senza parole. E così, a La Controra 2023, arriva anche Yasmina Pani, insegnante di lettere specializzata in Linguistica storica, autrice del saggio Schwa: una soluzione senza problema (2022). All’interno di un dibattito complesso come quello del linguaggio inclusivo e di genere – dibattito che interessa anche la musica e che spesso rischia di appiattirsi su un’unica posizione – Yasmina Pani rappresenta quel rigore scientifico che, a torto, viene scambiato per offesa o insensibilità verso alcune comunità o minoranze. «Il funzionamento della lingua – spiega – segue regole meccaniche e pragmatiche, il tutto per agevolare il più possibile la comunicazione», senza implicazioni sessiste né sentimentalistiche. Prima dell’incontro con il pubblico di Musicultura, Yasmina ha rilasciato quest’intervista alla redazione universitaria di Sciuscià, spaziando dal rap a Giacomo Leopardi.

I tuoi articoli sul web parlano soprattutto di letteratura italiana (da Dante a Pasolini), linguaggio inclusivo, uso e abuso di anglismi nella pratica quotidiana. L’unica traccia di musica è in un breve accenno al mondo del rap. Cosa ci fa, allora, una ‘linguista tascabile’ –così ti autodefinisci – a Musicultura, al Festival della Canzone Popolare e d’Autore?

Sono stata invitata a parlare del mio libro e di linguaggio inclusivo, ma la musica – e Musicultura in primis – ha a che fare con la cultura in generale. Tutto passa attraverso il mezzo linguistico, comprese l’arte e la musica. Credo che le riflessioni sul linguaggio inclusivo, che sono molto diffuse, e quelle sul rispetto del prossimo per non offenderlo riguardino tutto il mondo della produzione culturale, non solo quello linguistico e letterario. Per contrastare l’impoverimento lessicale della lingua italiana dici che dobbiamo cercare tutti di essere dei ‘parlanti attivi’.

A tal proposito, come può contribuire un cantautore o un musicista?

Secondo me i musicisti potrebbero dare un grande contributo, come d’altronde hanno già fatto nella storia, scegliendo quali parole usare, quali messaggi veicolare. Un cantautore ha tantissima libertà, più di quella di un parlante normale nella sua quotidianità, perché può servirsi di un lessico molto variegato. Per esempio un rapper che volesse usare termini poco conosciuti, potrebbe insegnarli ai ragazzi e ai giovani che lo ascoltano attraverso i testi. Quindi per me, nell’arricchimento della lingua, la musica ha un ruolo davvero importante.

Torniamo alla letteratura. Nei tuoi articoli su Leopardi (e non solo), cercando di renderlo più ‘appetibile’ a un pubblico non specialista, mostri quei lati del poeta che a scuola non vengono raccontati. Come si fa a bilanciare questo tentativo di avvicinamento al lettore con la necessità di non decontestualizzare o alterare la sua poetica?

In realtà è piuttosto facile: lascio che sia Leopardi a parlare attraverso i suoi testi. Ciò che dico su di lui, e su tutti gli altri di cui parlo, si trova nelle loro opere. A scuola, in primis, si deve insegnare la lettura del testo. Non bisogna mettere in bocca all’autore cose che non ha mai detto, ma semplicemente guidare lo studente nella lettura, in particolare aiutandolo a contestualizzare il tutto nell’epoca di riferimento. Proprio Leopardi, se letto col linguaggio di oggi, può essere facilmente frainteso. Dal mio punto di vista è molto più semplice avvicinare gli studenti ai poeti, piuttosto che rendere i poeti noiosi. Mi spiego meglio: se lascio che il testo parli da solo, è più probabile che lo studente poi apprezzi il poeta, mentre se di lui do già un’interpretazione senza aver fatto leggere l’opera, ecco che gli studenti si allontanano.

Contestualizzare il problema del genere grammaticale inclusivo, dargli delle coordinate scientifiche è proprio l’obiettivo del tuo libro. Nel dibattito sul tema, però, la tua sembra una posizione controcorrente, nonostante la sua scientificità. Da dove deriva tutta questa difficoltà, da parte dell’opinione pubblica, nel separare il genere linguistico da quello biologico, la natura convenzionale della lingua dai problemi sociali ed educativi?

Secondo me deriva dal fatto che molte persone sono convinte di conoscere il funzionamento della lingua in quanto parlanti. Un po’ come credere di essere cardiologi perché abbiamo il cuore. La lingua, invece, è complessa e se non la si è studiata da un punto di vista scientifico è impossibile conoscerne le specificità; in questo caso possiamo solo usarla. Oltretutto, quando si parla di lingua attraverso i media più famosi, non se ne parla sul piano scientifico ma in modo molto romanzato, senza informazioni tecniche né sostanza. Ecco che allora il parlante medio, non avendo una formazione ad hoc e fidandosi di chi sente più spesso, ascolta solo una campana, solo una versione dei fatti. La mia, peraltro, è mediaticamente poco risonante. Le persone sanno quello che gli viene detto e non possono essererimproverate per questo.

Nel corso degli anni hai scritto anche delle poesie. Rappresentano semplicemente un lato del tuo essere linguista o con la poesia cerchi qualcos’altro?

Le ho scritte in momenti non particolarmente favorevoli o belli, allora rappresentavano più che altro una forma di evasione. Ho sempre cercato la consolazione nella letteratura: in modo passivo attraverso la lettura o attivamente con la scrittura. Sono poesie molto personali, ma anche in esse c’è una sorta di ricerca linguistica, magari nel desiderio di voler usare parole poco note o cercando di sfruttare quelle potenzialità del linguaggio che nella quotidianità non trovano posto.

“Torneremo ancora” sul palco dello Sferisterio – Simone Cristicchi e Amara a Musicultura 2023

Introspezione e riflessione, analisi di se stessi e del mondo circostante, legami da costruire e desiderio di conoscere: questi i tratti distintivi di due cantautori profondi e autentici, le cui carriere si nutrono di molteplici esperienze e forme: musica, teatro, scrittura e non solo. Amara e Simone Cristicchi – il cui cammino musicale prende il via dal 2005, anno in cui è stato vincitore proprio di Musicultura– erano già stati ospiti a Recanati, durante la scorsa edizione del Festival.
“Ti sei mai guardato dentro? / Ti sei mai chiesto del tuo desiderio profondo? / La nostalgia che si nasconde dentro te, Che cosa ti abita?”: questi i tre interrogativi che avevano posto – attraverso il brano Le poche cose che contano- al pubblico del teatro Persiani, esortandolo a un’autoanalisi. Ora, il viaggio alla ricerca dell’essenza, e dell’essenziale, continua. Da più di un anno i due artisti sono impegnati in un progetto in cui ripercorrono, con assoluto rispetto, la biografia musicale di Franco Battiato, luce in grado di elevare gli animi e condurli alla libertà. Così, ospiti allo Sferisterio in occasione della serata conclusiva di Musicultura XXXIV, ci regalano un frammento di Torneremo ancora- Concerto mistico per Battiato. Prima di salire sul palco, ne hanno parlato in questa intervista alla redazione di “Sciuscià”.

Le poche cose che contano è uno dei primi brani che avete scritto insieme, nel periodo della pandemia. Parla della necessità di fermarsi e scavarsi dentro per capire quali sono davvero i propri punti saldi. In un mondo che tende sempre di più al superfluo, secondo voi come si arriva a comprendere cosa è realmente necessario?

A: Innanzitutto, è molto importante fare esercizio di silenzio. L’ascolto interiore ti spinge a porti delle domande insolite, profonde; ne conseguono risposte- o meglio, rivelazioni- che normalmente non puoi raggiungere.
Bisogna fermarsi e riconsiderare le cose care che ti stanno intorno, imparando a dargli il giusto valore; si parte dall’amor proprio, si continua con il rispetto delle persone a cui si vuole bene, la cura che gli si rivolge e il tempo che gli si dedica, stando attenti a non infilarle tra un impegno e l’altro, rendendole protagoniste del presente. Poi, fondamentale è trovare un senso di comunità e fratellanza: siamo tutti uguali, proveniamo dallo stesso canale e siamo tutti sulla terra. Si tratta di concetti semplici, che i bambini conoscono bene, dovremmo prendere esempio da loro.

Ricerca del necessario ma anche ricerca di equilibrio, di un “centro di gravità permanente”; proprio a Franco Battiato è dedicato Torneremo ancora- Concerto mistico per Battiato, con cui vi fate portavoce dei suoi messaggi spirituali. Dove nasce l’idea di questo progetto?

S.C: L’idea di questo progetto nasce dal grandissimo amore che nutriamo per Battiato: un sentimento che lui ha regalato a noi e che a nostra volta abbiamo la missione di portare avanti; si tratta di un artista che con le sue composizioni riusciva a riportare la musica al suo legame originario con il sacro. Le sue canzoni – in particolare quelle che abbiamo scelto per il nostro spettacolo- sono unite da questo specifico filo conduttore: la sacralità e il senso liturgico della musica, capace di elevare il nostro spirito a notevoli altitudini.

“Cittadini del mondo cercano una terra senza confini […] finché non saremo liberi, torneremo ancora”, queste le parole del brano di Battiato- l’ultimo che ha inciso- che dà il nome al vostro progetto. Per voi dov’è e cos’è la libertà?

A: La parola libertà contiene molte sfumature. Per quanto mi riguarda, credo che la casa della libertà sia la mente di ognuno di noi; la sua parte razionale costruisce dei muri che vanno necessariamente abbattuti, per sentirsi liberi. Il passo decisivo è capire di essere prigionieri in una galera che ha la porta aperta: una volta individuata l’uscita, bisogna percorrere quella via, così da trovare uno spazio di libertà reale. Dunque, noi stessi siamo l’unico ostacolo per una mancata libertà.

L’esibizione

Durante le vostre esibizioni, le canzoni si alternano a momenti di lettura. Qual è il legame tra studio, conoscenza, letteratura e musica?

S.C: Nel nostro caso, il legame è strettissimo: per fare questo concerto abbiamo studiato davvero tanto, ascoltato tutto il repertorio di Battiato e centinaia di interviste per estrapolarne frammenti della sua personalità, letto diversi libri dedicati a lui e libri scritti dai maestri che più l’hanno influenzato. Alla base di questa necessità di conoscenza, c’è la volontà di rievocare una persona che non c’è più ma che con i suoi messaggi, in realtà, è estremamente presente intorno a noi. La presenza di Battiato è una luce accesa che contribuisce a creare un legame tra la terra e il cielo; ai fini di questo risultato conoscere-lo studio, dunque-è fondamentale.

Per entrambi quello di Musicultura è un palco ormai familiare; avete trovato la giusta connessione, qui, con chi vi ascolta?

A: Trovare la giusta connessione è una questione di empatia, ogni palco ha un pubblico diverso con cui si crea un legame differente: questa è la bellezza. Per quanto riguarda Musicultura, particolare è l’attenzione, minuziosa, che caratterizza questo posto; attenzione al vero, alla corda che scricchiola, alla voce nuda. Tutto ciò rende l’atmosfera intima e raccolta.

Occasioni, spontaneità e un pizzico di magia: intervista a Carolina Di Domenico

La ricordiamo tutti come il volto amatissimo di Disney Club che, insieme a quello di Giovanni Muciaccia, teneva migliaia di bambini incollati alla TV nei primi anni 2000. Poi è arrivato il lavoro come VJ per MTV Italia, che ha dato una svolta alla sua vita e accompagnato la crescita di un’intera generazione. Comincia così la carriera di Carolina Di Domenico nel mondo della conduzione televisiva e radiofonica, che si è intrecciata alla sua storia d’amore di vecchia data con la musica. A dare il la sono le occasioni colte al volo. Il resto è da scrivere, passo dopo passo, con serietà e competenza. Nell’intervista rilasciata alla Redazione Sciuscià, Carolina ci parla dell’importanza di trovare la propria strada, di essere riconoscibili e di capire facendo, lasciando dietro di sé una scia magica di risate e spontaneità.

Hai alle spalle una lunga carriera nella conduzione televisiva, radiofonica e nel mondo dello spettacolo in senso lato, ma, come dichiari spesso nelle interviste, hai cominciato un po’ per caso. Quando hai capito di voler trasformare la tua passione in una professione?

In realtà, il mondo dello spettacolo non era una mia passione; o meglio, lo era, ma dal punto di vista della produzione.
Ho studiato Scienze della Comunicazione e sicuramente quest’ambito mi interessava. Ma se alla fine del liceo o all’inizio dell’università mi avessero chiesto cosa volessi fare da grande, avrei risposto: “Produzione”. Poi, all’età di 19 anni, mi è capitata l’occasione di Disney Club, il primo programma televisivo che ho condotto assieme a Giovanni Muciaccia. Avevo iniziato a fare qualche lavoretto per mettere dei soldi da parte – facevo l’animatrice di feste per bambini – e un giorno un mio amico mi ha consigliato di iscrivermi a un’agenzia di pubblicità, dicendomi che mi avrebbe impegnato poco tempo e che sarebbe stato economicamente remunerativo. Quindi mi sono detta “facciamolo” e da lì è partito tutto. Però non era assolutamente previsto. Solo quando ho iniziato a lavorare, piano piano, ho capito che si sarebbe potuta trasformare in una professione. Ho avuto la fortuna di capirlo facendolo.

Sei passata dalla TV alla radio, due media diversi tra loro: il primo centrato sulla gestualità, l’immagine e l’occupare spazi; il secondo sulla voce, il suono e il riempire i silenzi. Come hai vissuto questo cambiamento e con quale dei due ti senti più a tuo agio?

Tra radio e TV cambia tutto. Quando ho cominciato a lavorare per MTV, il mio collega Federico Russo già lavorava per RDS e mi chiedeva spesso di andare a fare un provino in radio. Io che ho iniziato a fare questo lavoro unendo voce e immagine, ero terrorizzata all’idea di lavorare solo con la voce. Poi, 15 anni fa, io e mio marito abbiamo ideato un progetto che parlava di musica. Ho pensato potesse essere interessante e deciso di provare.
Anche in questo caso: lavorare, praticare, capire facendo. Funziona sempre. Abbiamo cominciato in una radio locale, dove eravamo molto liberi di sperimentare senza la pressione di un grande network. Col passare del tempo, è diventata una necessità. A differenza della televisione, secondo me, la radio diventa un bisogno quotidiano: una volta che instauri un rapporto giornaliero con il mezzo radiofonico, se smetti comincia a mancarti. La televisione, invece, su di me esercita un effetto diverso: mi piace tantissimo lavorarci, ma se smetto per un po’ non sento subito la mancanza di stare sul palco. Con la radio invece sì. Non so esattamente cosa scatti nel cervello di una persona, ma noto che tutti quelli che fanno radio dicono la stessa cosa. Evidentemente dev’esserci una magia – e forse anche un pizzico di egocentrismo legato all’ascoltare la propria stessa voce nelle cuffie – nel fare radio.

A proposito di radio, tutti i fine settimana conduci 610 con Lillo e Greg. Dagli scatti postati sui social si intuisce che insieme vi divertite parecchio. Com’è lavorare al fianco di due comici?

Io ho sempre condotto programmi musicali, per esempio Rock and Roll Circus su Radio 2.
L’occasione di lavorare con Lillo e Greg mi è capitata quattro anni fa. Li conosco fin dai tempi di Latte & i Suoi Derivati e sono da sempre una loro super fan, perciò cerco di rimanere tale e divertirmi anche a 610. Per esempio, quando possibile, evito di leggere in anticipo i loro sketch per mantenere l’effetto sorpresa da ascoltatrice. Il dramma è che durante le puntate rido così tanto che a volte non riesco ad andare avanti. Però, secondo me, la bellezza della radio sta proprio in questo: la spontaneità. È difficile programmare. Si hanno, naturalmente, dei punti di riferimento e una redazione che crea contenuti, però nessuno va a copione. Questo crea quella magia che ti permette di esprimerti in maniera spontanea.

Musicultura è un tassello che si aggiunge al vasto mosaico di programmi musicali condotti o commentati negli anni – MTV Day, The Voice, Eurovision Song Contest, Tim Music Awards, per citarne alcuni – e tu stessa sei una grande appassionata di musica. Che consiglio daresti ai giovani vincitori del Festival?

Di capire se c’è davvero spazio per loro in questo mondo.
Oggi tutti vogliono fare musica. Siamo in un momento difficile in cui sulla scena musicale c’è un enorme sovraffollamento. Avere la voce riconoscibile, e distinguibile da quella di altri, è fondamentale.Basta fare una prova: se canti di fronte a tre persone che non ti conoscono e riescono a distinguere la tua voce a occhi chiusi, allora sei sulla buona strada. Se io mi trovassi di fronte a qualcuno con una voce molto simile a quella di Emma o di qualche altro artista di grande successo, gli consiglierei di fare altro. La musica non è fatta solo di cantanti, ma anche di supporti, coristi, ovvero persone con delle bellissime voci che vanno in giro a cantare insieme agli altri. Poi, c’è il mondo degli autori: se scrivi delle bellissime canzoni, ma non sei un bravo performer, non salire sul palco, scrivi canzoni; potresti cederle alle corde vocali di un artista famoso e, così, guadagnare un sacco di soldi. Dietro la musica c’è tutto un mondo. Se vuoi fare il musicista, devi capire qual è la strada adatta a te e se la tua voce è riconoscibile. È fondamentale per non perdere tempo ed evitare tutte quelle frustrazioni che si vivono quando si fanno troppe cose e nessuna bene. Questo è il consiglio spassionato che darei ai vincitori di Musicultura.

Ti batti molto per i diritti dei lavoratori del mondo dello spettacolo e, in particolare, per l’attuazione dei decreti per l’indennità di discontinuità per artisti e tecnici.Quanta strada c’è ancora da fare su questo fronte e cosa significa per te questa battaglia?

Credo sia fondamentale impegnarsi su questo fronte. Chiunque abbia lavorato nel mondo dello spettacolo sa bene che ci sono dei periodi in cui si lavora tanto e dei periodi di pausa.
Basta pensare a una manifestazione come Musicultura: non è fatta di ieri e oggi, ma probabilmente di un anno di preparazione, e quell’anno dev’essere retribuito e riconosciuto. È arrivato il momento di impegnarsi, unirsi e battere i pugni. Un primo passo è stato fatto: c’è stato uno stanziamento di fondi, anche se non enorme. Ma non bisogna fermarsi, ora è il momento reclamarli a gran voce e chiedere l’attuazione dei decreti. Lo stanno facendo associazioni che si battono per questo come La musica che gira o Scena Unita. Molti artisti hanno portato il loro supporto. Io, ogni volta che posso, sottolineo l’importanza di questa battaglia. Quando in una manifestazione come questa si riesce a far esibire una band con un distacco di 3 minuti rispetto a quella precedente, è perché ci sono 15 persone che salgono sul palco e cambiano la scena. E questo lavoro immenso e prezioso va riconosciuto anche quando quelle persone non sono sul palco.


Il mondo fiabesco dei bambini è stato in qualche modo una costante nella tua vita: i primi lavori come animatrice, l’esordio a 19 anni con Disney Club, le serie TV per ragazzi. Oggi che sei due volte mamma, cosa diresti alla Carolina bambina?

Alla Carolina bambina direi “tira fuori la testa un po’ di più!”. Io sono sempre stata una bambina educata, che stava al suo posto, e questo ogni tanto mi ha portato a mettere da parte le mie esigenze. Quindi, tornassi indietro, forse mi direi “non stare zitta: se hai voglia o bisogno di qualcosa, dillo”. Però penso anche che finché sei bambino queste cose non le puoi capire: ci nasci, vai avanti così, poi fai analisi, rifletti su di te e cominci a tirare fuori tutto quello che hai tenuto dentro per anni. I bambini seguono il loro temperamento naturale. I genitori o chi li accudisce possono aiutarli, però credo che ognuno debba fare il suo percorso singolarmente, con i mezzi che ha e in cui crede. Prima o poi, l’occasione di affrontare quello che si ha dentro e avere un’evoluzione capita.

“Musicultura è una festa! Essere qui è un regalo.” – Intervista a Flavio Insinna

Preferisce definirsi artigiano piuttosto che artista, perché “gli artisti sono altri, essere un artigiano di buon livello è già un traguardo pazzesco”. Flavio Insinna fa bene il mestiere, lo onora, si sente fortunato di farlo, e fa tesoro degli insegnamenti del suo maestro Gigi Proietti. Tra esperienze di vita, insegnamenti, aneddoti, la passione per la cultura e per la musica, il conduttore di Musicultura 2023 si racconta alla Redazione di Sciuscià.

Flavio Insinna, attore sia di teatro che televisivo, conduttore di successo e scrittore di 3 libri; il suo essere artista a 360° si declina in varie forme grazie alla sua natura poliedrica: qual è il suo segreto?

Artisti sono Picasso, Frida Kahlo, Martin Scorsese, Sergio Leone; io non lo sono. Credo che si usi la parola “artista” con troppa generosità. Mi definisco “artigiano” secondo la definizione di De Chirico, che sottolinea l’importanza di fare bene il proprio lavoro qualunque siano il committente e la richiesta.
Essere un artigiano di buon livello è un traguardo pazzesco, il mio obiettivo è quello. Quanto alla mia natura, è poliedrica proprio perché faccio il mio mestiere come un artigiano si cimenta nella realizzazione di una sedia, di un tavolo o di un armadio. Non è facile: bisogna saperlo fare. Qual è il segreto? Continuare a studiare, essere curiosi, ascoltare gli altri e non credere di essere gli unici perché quando si pensa di aver capito tutto è un momento molto pericoloso: si rischia di sentirsi arrivati quando in realtà, anche se può sembrare una banalità, non si finisce mai di studiare, anche di sbagliare e di correggere i propri errori.

Mi ha colpito molto una sua frase in cui afferma che “la vita non è una gara e ci salviamo solo tutti insieme.” In un mondo che tende sempre più all’individualismo, come possiamo recuperare l’empatia che ci aiuta a essere solidali gli uni con gli altri?

Un po’ di tempo fa, leggendo, mi sono imbattuto in una frase di Maria Montessori, una donna straordinaria, che afferma una cosa semplice ma pazzesca: “Dobbiamo insegnare ai bambini a cooperare”. Siamo negli anni ’50 quando lo dice, ma ancora oggi a scuola la cooperazione non viene insegnata mai, anzi, si introducono concetti di gara e competizione. In questo periodo in cui mi capita di andare nelle aule a parlare de Il gatto del papa, una “favoletta” che ho scritto, i cui proventi vanno a sostegno di Emergency, ricordo sempre ai ragazzi che è proprio in questi anni di formazione che decidono chi vogliono essere: una persona pronta ad aiutare o una che pensa solo a fare il suo. Non siamo isole “autoconcluse”, “autorisolte”: siamo tutti un pezzetto di quella bellissima comunità che è il mondo, che è la vita. Lo straordinario maestro Bosso, che purtroppo ci ha lasciato, a Sanremo disse: “La vita è come la musica, si fa insieme”. Come qui a Musicultura: c’è chi presenta, chi aiuta, chi canta, chi porta il microfono, chi sposta qualcosa; c’è un esercito di persone che in un minuto ti fanno trovare tutto pronto: senza di loro non si potrebbero eseguire i brani perché i risultati, appunto, si raggiungono solamente tutti insieme.

“Benvenuti a teatro, dove tutto è finto ma niente è falso”, diceva Gigi Proietti. Quello con il suo maestro è stato un rapporto di grande stima professionale e personale: ce ne vuole parlare?

Ti racconto anche un’altra frase che ripeteva spesso Proietti ed è fondamentale: “Fare l’attore è un mestiere”. Lui di sé ridendo e alzando la mano diceva: “Sono un noto fantasista romano, se mi ascolti la scena viene ancora meglio”. E aggiungeva: “Ragazzi, è un mestiere, un gioco, non è uno scherzo!”. La differenza tra gioco e scherzo è importante: lo scherzo, per esempio, potrebbe essere un gavettone lanciato, che può anche far ridere, ma il gioco è un’altra cosa. Pensiamo al gioco del tennis, del pallone; pensiamo al gioco di guardie e ladri, dove ci si spara – grazie al cielo per finta – ma poi quando si cade a terra si deve sembrare morti veramente, deve sembrare vero. La differenza sta proprio nella finzione del gioco: se la finzione risulta falsa, il gioco è finito. Riprendo di nuovo le parole di Proietti: “La sfida è essere credibili, non probabili”. Ecco, “probabile” vuol dire che indossando una corona da re potrei improvvisarmi Riccardo III, ed è probabile, appunto, persino che riesca a interpretarlo. Ma si è davvero “credibili” solo quando dalla platea gli spettatori hanno la percezione che ciò che avviene sul palco è vero, è reale.

Ai microfoni di Radio 1 Rai ha dichiarato che la musica ha sempre fatto parte di lei e della sua famiglia. È forse questa sua passione ad averla spinta ad accettare il ruolo di conduttore di Musicultura 2023?

Essere qui è un regalo! Ho avuto la grandissima fortuna di crescere in un ambiente ricco di dischi e di libri, dove la cultura era molto presente, e ringrazio ancora una volta la mia famiglia per questo.
Posseggo dischi a 78 giri, quelli di ferro che pesano 28 kg (ride n.d.r.); ho il grammofono, i giradischi; da ragazzo mi dilettavo a fare il dj. La mia vita senza leggere e senza ascoltare musica non sarebbe possibile, non la sentirei mia. Per questo quando mi ha chiamato il mio grandissimo amico Matteo Catalano, che è un autore fantastico e una persona meravigliosa, per presentare Musicultura, ho accettato subito. Essere su questo palco è un regalo. Musicultura è una festa!

La seconda serata finale di Musicultura 2023

Musicultura 2023, atto secondo. O meglio: ultimo atto. Perché siamo alla finalissima del Festival e siamo pronti a scoprire, quindi, chi sarà il vincitore assoluto di questa edizione. Prima, però, i due conduttori, Flavio Insinna e Carolina di Domenico, introducono l’esibizione di Simone Cristicchi e Amara, che regalano al pubblico una commovente interpretazione di due brani di Franco Battiato, L’ombra della luce e La cura.
“Gli artisti devono scavare, conoscersi nel profondo, perché è lì che vive la vera essenza di ognuno”, spiega Amara. “Tutto parte da questo palco”, afferma invece Cristicchi, riferendosi alla sua vittoria di Musicultura nel 2005.

E a proposito di vittoria, a esibirsi, con L’ultimo piano, tocca alla prima vincitrice del Festival, Lamante, che invita i presenti in arena a intonare le note del ritornello del brano e a unirsi in coro, in quanto “la musica è comunità”. In risposta alle domande del pubblico, dice di identificarsi nel punk se per quest’ultimo intendiamo il saper essere caotici e uscire dagli schemi.
Il secondo artista in concorso è Simone Matteuzzi, polistrumentista, classe 2001. Con Ipersensibile si abbandona a un gioco di saliscendi musicali, dimostrando grande padronanza della voce e capacità di escursione vocale. “Mi è sempre piaciuto mischiare, far incontrare cose diverse – spiega – perché questa mescolanza rispecchia la diversità del genere umano”.

È poi la volta di AMarti, busker che quest’anno ha imboccato una strada non ancora battuta prima: quella per Macerata, direzione Sferisterio. Con il brano Pietra racconta la situazione di incertezza e fragilità, ma anche scoperta, che ha vissuto durante la pandemia. “Imbracciata la chitarra, ho cominciato a esplorare mondi musicali ed è venuta fuori questa canzone”, racconta.
Il quarto vincitore a salire sul palco è Zic. Con Futuro Stupendo, il cantautore fiorentino fa echeggiare un potente grido d’amore. In risposta alla curiosità del pubblico sul nome utilizzato nel suo profilo
Instagram, rivela che la sua più grande passione dopo la musica sono i motori e la Formula1. Dice di amare tutto ciò che è vintage, che sia una vecchia automobile o il suono lontano di una musica antica.

Un altro grande ospite della serata è l’autore di alcune delle più belle canzoni italiane di tutti i tempi: Mogol. Il maestro è accolto da una standing ovation cui risponde con semplici ma potenti parole sul suo modo di vivere il processo creativo: “Io non penso senza musica […], ho la mente libera e la musica mi suggerisce le parole, che poi seguono parte della mia vita e si collegano a un’emozione. Nasce tutto così”.
La scuola per autori e cantautori da lui fondata, il CET, è una fucina di talenti. È qui che ha incontrato Gianmarco Carroccia, noto interprete delle canzoni di Lucio Battisti, che lo raggiunge sul palco. Così segue un’intensa esecuzione di alcuni fra i più celebri brani a firma Mogol/Battisti – Emozioni, I giardini di marzo e Il mio canto libero – accompagnati dal suono arioso del mandolino.
Prima di salutare il pubblico, Mogol riceve un’onorificenza alla carriera per alti meriti artistici da parte delle Università di Macerata e di Camerino. “Una storia che sa di leggenda. Le sue parole uniscono le generazioni. Le sue immagini poetiche, frutto di fantasia ad alto tasso di creatività, sono capaci di coinvolgere chiunque con la profondità della leggerezza”: queste le motivazioni fornite sul palco dal Rettore dell’ateneo maceratese John McCourt.

Tornando ai vincitori in concorso, è il momento di Ilaria Argiolas. Con Vorrei guaritte io, parte dalle borgate romane e cerca di arrivare a tutti. Anche se preferisce far parlare la musica nella sua purezza, spiega che il brano vuole essere cura alla rabbia: “Credo che l’amore, quello vero, debba guarire”.
È la volta, poi, della salentina Cristiana Verardo. Subito dopo aver eseguito Ho finito le canzoni, afferma che l’emozione provata questa sera è la più grande ricchezza che porterà con sé di quest’esperienza. Prima di scendere dal palco, intona un canto tipico della pizzica che fa battere all’unisono le mani degli spettatori.
Segue cecilia con Lacrime di piombo da tenere con le mani. È una canzone densa di emotività che nasce dalla verità del dolore ed esprime la forza della fragilità: “Le lacrime di piombo – spiega – rappresentano la fine di un periodo non troppo felice della mia vita e con questo brano sono riuscita ad esprimere tutto questo dolore”.
Gli ultimi vincitori a esibirsi sono i Santamarea. Con il brano omonimo portano allo Sferisterio un mare di onde sonore e un canto di fratellanza. Pensano che la musica sia un sogno comune e che il modo per affrontare la tempesta emotiva delle cose che ci succedono sia farlo tutti insieme, in maniera corale.

Il primo riconoscimento consegnato durante la serata è il Premio Nuovo IMAIE, dal valore di 10 000 euro da investire in un tour e ad aggiudicarselo è Lamante.

Poi fa il suo ingresso in scena Ermal Meta,che si abbandona a una intensa interpretazione di Un tempo piccolo di Franco Califano. “La prima volta che ho ascoltato questa canzone mi sono sbriciolato e ricomposto in un modo nuovo”, commenta dopo l’esibizione.
 Accompagnato dallo Gnu Quartet, il cantautore esegue poi due brani del suo repertorio: Piccola anima e Mi salvi chi può. Prima di andare via, racconta il suo esordio come scrittore con Domani e per sempre, libro per cui ha dovuto pescare dentro di sé e riconnettersi con le proprie radici per raccontare la storia dell’Albania: “Sono dovuto andare a riaprire una stanza che era chiusa da tanti anni, di cui avevo perso le chiavi, e a un certo punto mi sono trovato costretto ad aprire quella porta e affrontare quello che c’era dentro”.

È il momento di consegnare un altro premio, la Targa della critica Piero Cesanelli. Ad aggiudicarselo sono i Santamarea.

L’ultimo attesissimo ospite della serata è Dardust, alias Dario Faini, pianista, compositore e produttore discografico. Con lui il volume si alza, il battito cardiaco sale, la pizzica salentina si mescola alla musica elettronica in un crescendo di tamburi. Le pulsazioni di tutti si sintonizzano su un’unica frequenza e lo Sferisterio esplode in una danza tribale collettiva.

È in questo clima di trepidazione che giunge l’atteso momento della premiazione finale. L’assegno Banca Macerata da 20 000 euro va ai Santamarea, vincitori assoluti di Musicultura 2023.

Musicultura 2023: Santamarea vince la XXXIV edizione del Festival

Non solo l’assegno Banca Macerata da 20 000 euro che li designa vincitori assoluti: i Santamarea, col brano omonimo, si aggiudicano anche molti degli altri riconoscimenti di questa XXXIV edizione del Festival.

A loro, infatti, sono andati il Premio per il Miglior Testo, da 2 000 euro, assegnato dalla giuria universitaria composta dagli studenti degli atenei di Macerata e Camerino, il Premio PMI – Miglior Progetto Discografico da 2 000 euro e il Premio della Critica dedicato a “Piero Cesanelli”, ideatore e co-fondatore del Festival, dell’importo di 3 000 euro.

Il Premio NuovoIMAIE di 10 000 euro, destinato alla realizzazione di una tournée, va invece a Lamante per la sua canzone L’ultimo piano.

Spazio poi a un’onorificenza volta a celebrare un incredibile percorso artistico, iniziato nel 1955 e arrivato fino a oggi con un successo che non è mai venuto meno: quello di Mogol.

“A Mogol, per il suo lavoro e la sua carriera di autore, editore musicale, difensore del diritto d’autore e formatore lunga oltre 60 anni, va la targa per Alti Meriti Artistici dell’Università di Macerata e dell’Università di Camerino”.

Il ritorno dei Santi Francesi a Musicultura

Per i Santi Francesi tornare a calcare il palco dello Sferisterio, a due anni dalla vittoria, è come tornare a casa. Il duo racconta alla Redazione di Sciuscià che dal 2021 a oggi sono cambiate tante cose, tranne loro. Un intervallo di tempo apparentemente breve scandito da ritmi frenetici, nuovi brani, nuove collaborazioni e tanta musica. Il loro ultimo EP, In fieri, racchiude il significato del loro progetto artistico, “in divenire”: convogliare un vento di cambiamento senza mai snaturarsi; evolvere di pari passo col mondo e non sentire mai di essere arrivati. Alessandro De Santis e Mario Francese sono due Giovani Favolosi – questo il titolo del brano con cui hanno vinto Musicultura nel 2021 – pieni di talento, energia e umiltà. Lo hanno confermato sul palco in occasione della prima serata finale del Festival; lo hanno confermato anche rispondendo alle domande di questa intervista.

Nel 2021 vincitori, oggi ospiti. Cosa si prova a ritornare a Musicultura dopo soli due anni? 

Stavo pensando a “soli due anni”. Due anni sono tantissimi, soprattutto per la mole di lavoro che abbiamo affrontato in questo arco di tempo; però, quando siamo rientrati allo Sferisterio di Macerata, abbiamo avuto l’impressione che non fossero mai esistiti. È bello perché è un po’ come tornare a casa. Questo Festival ci ha dato una spinta gigantesca, soprattutto a livello di invenzione. È stata una vittoria inaspettata, un crocevia importante per noi: ha sancito il cambiamento del nostro nome, di una serie di aspetti all’interno del nostro progetto, e di approcci alla musica e alla vita in generale. Ricordiamo Musicultura 2021 come un’esperienza estremamente formativa. Eravamo appena usciti da un anno e mezzo di Covid, di vuoto, di distruzione totale, e abbiamo avuto l’opportunità di suonare dal vivo. È stata la scintilla che ha riacceso in noi la voglia di fare musica e di farla ascoltare alle persone. Tornare da ospiti è un onore, e un’occasione per ringraziare tutti coloro che organizzano e portano avanti il Festival, che ci hanno accolto meravigliosamente in questo posto e che hanno apprezzato il nostro modo di essere.

Lo scorso dicembre avete vinto la sedicesima edizione di X Factor con il vostro inedito Non è così male. Come vi ha cambiati, artisticamente parlando, il vostro percorso al talent di Sky?

A dir la verità, artisticamente parlando, non ci ha cambiato tanto. Siamo arrivati a X Factor, abbiamo presentato la nostra musica e ci hanno detto che era carina, di continuare a proporla e vedere cosa sarebbe accaduto. Poi è successo che abbiamo vinto, è andata bene. Forse ci siamo un po’ velocizzati nella produzione e nella realizzazione delle cover. Ma la cosa figa è proprio che non siamo cambiati, che non ci hanno cambiato. È mutato un po’ il mondo attorno a noi.

Voi avete conquistato il pubblico semplicemente con la vostra musica, senza una sovraesposizione sui social e andando un po’ controcorrente rispetto a quello che vediamo e viviamo oggi. Pensate di essere solo un’eccezione, oppure siete la spia di un cambiamento dell’approccio del pubblico verso il mondo musicale?

Forse è ancora presto per dare un risposta certa. X Factor ci ha garantito la possibilità di non usare i social network perché in quel periodo eravamo costantemente in tv. A noi piacerebbe molto essere la spia di un cambiamento, non lo neghiamo; infatti un nostro desiderio sarebbe riuscire a fare questo lavoro senza il supporto dei social network. Non lo affermiamo per presunzione o per un qualche tipo di congettura, ma semplicemente perché non ci riteniamo capaci, e non abbiamo particolarmente voglia di appartenere a quel tipo di comunicazione.
Potrebbe essere prematuro, ma secondo noi, nella nostra generazione c’è un vento di cambiamento. Si inizia a percepire una sorta di distacco nei confronti del mondo digitale:
prima i social erano una novità, adesso forse questo tipo di realtà sta diventando un po’ monotona.

Mi ha molto colpito il nome del vostro EP, In fieri, locuzione latina che significa in divenire. Perché avete scelto questo titolo?

È stata una scelta abbastanza casuale: è nato come nome di un singolo, che poi alla fine non
abbiamo usato. Ci piaceva molto il significato di tale espressione, quindi, al momento di
scegliere in che modo intitolare l’album, ci siamo detti: “Perché non chiamarlo così?”. In Fieri ha un valore simbolico per noi, rappresenta un po’ quello che siamo: in continua evoluzione, in divenire appunto; guardiamo sempre molto lontano, verso un arrivo che in realtà non esiste, perché è il cambiamento quello che ci piace attuare in ogni singolo periodo della nostra vita.

La Noia è il vostro ultimo singolo, uscito appena una settimana fa. Che significato attribuite a questo stato d’animo?

Personalmente non abbiamo una risposta univoca a questa domanda: ci sono momenti in
cui la noia, se condita con ansia e altri sentimenti, viene vissuta in modo negativo, e altri in cui, se associata a uno slancio propositivo, può diventare il motore e la spinta per muoversi.
Nella canzone parliamo del fatto che in questo periodo, in cui è tutto molto veloce e pieno di stimoli, stiamo perdendo la capacità – che poi forse ci rende degli esseri umani singolari e unici quali siamo – di annoiarci. La Noia è un invito a oziare, a fermarsi un attimo, a guardarsi intorno, e a cercare di percepire quello che c’è nell’aria, che forse è molto più incredibile e assurdo di ogni viaggio che si possa fare.

Fabio Concato, tra milanesità ed echi di un’era di artisti anticonvenzionali

Protagonista indiscusso del cantautorato italiano degli ultimi cinquant’anni, autore tra i più affermati e apprezzati nel nostro Paese, Fabio Concato è stato tra gli ospiti di questa XXXIV edizione di Musicultura.  Non smetto di aspettartiTi ricordo ancora, Sexy tango, Fiore di maggio, Rosalina e Domenica Bestiale sono solo alcuni dei suoi brani più celebri che, nella serata di ieri, hanno incantato l’Arena Sferisterio. «Sono i testi e la musica che rendono grande una canzone», ha affermato sul palco. Per poi soffermarsi sulle canzoni degli 8 artisti che si contendono il titolo di vincitore assoluto del Festival: «I brani dei vincitori di quest’anno mi hanno trasmesso emozioni sincere. Sono tutti bravissimi!». Nel pomeriggio, dopo il suo soundcheck, abbiamo chiesto al Maestro di rispondere a qualche domanda. Con grande disponibilità è sceso con noi in platea e ci ha regalato tre bellissime risposte.

Ha affrontato il periodo del Covid facendo uscire il brano L’Umarell. Chi sarebbe questo “Umarell”?

Lo “Umarell” è in dialetto milanese quel personaggio un po’ anziano che tiene le braccia dietro la schiena e si ferma in ogni cantiere che vede. Il mio Umarell invece è un pupazzetto alto dieci centimetri che ricorda questa figura, solo che è in plastica. Me lo regalò un mio grande amico e lo avevo messo sulla tastiera sulla quale scrivo i brani. Ho avuto, vedendolo lì ogni giorno, quasi la sensazione che lui mi domandasse di scrivere qualcosa su questa tragedia che stavamo vivendo, e così ho fatto: la cosa curiosa è che per la prima volta ho composto un testo in dialetto. La canzone piacque molto, ma a distanza di due anni preferisco evitare di cantarla, per non riportare le persone a quel periodo.

L’esibizione

Lei è uno dei tanti artisti liberi e slegati da convenzioni che sono stati protagonisti della seconda metà del Novecento di questo Paese. Ora sembriamo vivere tempi diversi; cosa è cambiato secondo lei?

È cambiato completamente il mondo, semplicemente. Non penso che sia un cambiamento necessariamente in meglio, né in peggio. È cambiata soprattutto la musica, il modo di farla, di fruirne, i suoi canali di diffusione, e mi sembra che ce ne sia quantitativamente meno rispetto agli anni di cui parli tu. Se ci fosse più musica, ci sarebbero per forza di cose più artisti motivati a romperne le convenzioni.

Ci sono varie parentesi jazz nella sua carriera. Come si è avvicinato a questo genere?

Mi sono avvicinato al jazz da piccolissimo tramite mio padre, cantante e chitarrista, che lo ascoltava, suonava e amava moltissimo, per cui è stata una scoperta davvero naturale e spontanea. I primi artisti a folgorarmi sono stati americani come Bill Evans e Chet Baker, e brasiliani come Joao Jilberto o Antonio Carlos Jobim: loro e molti altri rappresentano un pezzo importante della mia vita. Se guardo a quest’ultima, essere cresciuto con il jazz è una delle tante cose per cui mi sento fortunato, per cui sono grato a mio padre.

Suoni, colori, sapori: il mondo visto con gli occhi di Gek Tessaro

Per la prima volta a La Controra uno spettacolo interamente dedicato ai più piccoli: “I Bestiolini”, una rappresentazione di Gek Tessaro tratta dal suo omonimo libro. Con fantasia e simpatia, l’illustratore veronese ha trasformato il Lauro Rossi in un’enorme tela su cui tracciare forme colorate e segni luminosi. A poco a poco, un microcosmo di vite minute – quelle degli insetti – ha preso vita e il teatro è diventato un prato fiorito. Un suggestivo intreccio di immagini, musiche e storie, che ha coinvolto non solo i più piccini, ma il pubblico tutto. Le parole chiave? Curiosità, osservazione e tanta sensibilità.
Nell’intervista rilasciata alla redazione di Sciuscià, l’autore ci invita a riflettere sul nostro rapporto con il pianeta e con le specie che ci circondano. Racconta la sua visione di un mondo possibile, migliore, per ora soltanto sognato, abbozzato nell’immaginazione con pennelli e colori.

I protagonisti dell’opera presentata a La Controra sono gli insetti, quel microcosmo animale che si nasconde sotto ai prati, spesso temuto da adulti e bambini. Qui però si trasformano in simpatiche “bestioline”. Il modo con cui scegliamo di narrare il mondo che ci circonda quanto influenza il nostro rapporto con esso?

Lo può influenzare molto. Il nostro problema è che non siamo consapevoli del mondo che ci circonda, perché pensiamo di essere il centro del mondo. Di conseguenza, pensiamo agli esseri viventi intorno a noi come sgradevoli e fastidiosi. Facciamo una piccola riflessione: si sente dire spesso che, se mancassero le api, non mangeremmo più le mele e le arance. La verità è che, se mancassero le api, noi avremmo pochi anni di vita e a sparire non sarebbe la frutta, ma il genere umano. Se cominciassimo a vedere le cose da questo punto di vista, percepiremmo diversamente anche le api e ci accorgeremmo che mantengono in equilibrio l’ecosistema e in vita la specie umana. Pensare alle api come a dei “bestiolini” che danno fastidio, mordono, pungono, significa avere una visione distorta della realtà. Non ci rendiamo conto che stiamo distruggendo il pianeta. Il mio lavoro è mettere a fuoco, far vedere, far osservare le cose e il mondo da un altro punto di vista. L’umana specie ha questo grande problema: che ha un unico punto di vista, il proprio.

Nelle sue produzioni la parola chiave è curiosità, ma affinché ci sia questa è necessario fermarsi e saper osservare. Il mondo adulto però, preso dalla frenesia, ha un po’ perso questa capacità. Qual è il segreto per mantenerla viva?

Il segreto per mantenerla viva è molto semplice, è racchiuso nella riflessione che facevo prima sulle api. Ti faccio un altro esempio: ieri, mentre davo da bere ai fiori, mi sono accorto di avere un ragno sul braccio che cercava una via d’uscita; a un certo punto si è buttato sullo spruzzo dell’acqua, è precipitato dall’altra parte e poi ha cominciato a camminare tranquillamente. Ecco, se si osservano queste piccole cose, si comincia a pensare: “Sai che c’è, questa cosa qui è fantastica! Non so niente dei ragni, voglio saperne di più!”. È questo non saper niente – rendersi conto di non sapere niente e meravigliarsi del mondo che ci circonda – che può far nascere la curiosità.

Nelle sue rappresentazioni si intrecciano linguaggi diversi: immagini, narrazione e musica. Ce n’è uno in particolare che prevale sugli altri o sono tutti elementi imprescindibili?

Sono tutti elementi imprescindibili. La nostra vita, quella del pianeta, quella degli animali sono intrecci di elementi e linguaggi diversi: suoni, odori, sapori, colori, aria, freddo, caldo. La vita è questa cosa qui.
Quindi, quando si racconta una storia, bisogna includere tutti questi elementi complementari. Quando scrivo, penso alla musica, e quando penso alla musica ho già in mente quali parole scrivere e quali immagini proiettare. Senza la musica, le immagini non stanno su. Solo insieme, le due dimensioni acquistano senso e significato: è un unicum, un’unica narrazione che prende forma.

Le sue opere nascono dall’esigenza di comunicare qualcosa in particolare, una morale o un insegnamento? Se sì, cosa?

Preferirei che non fosse così, ma la verità è che ognuno di noi ha qualcosa da dire: qualcosa che non ci piace, che ci piace o che vogliamo comunicare. Se si ha il privilegio di poterlo fare su un palco o con un libro, sorge spontaneo dire qualcosa che si ha a cuore. Per cui, sebbene non sia la mia intenzione, è giocoforza naturale che io dica delle cose che toccano la mia sensibilità e fanno parte della mia vita.
Non vorrei mai fare prediche e non le faccio, ma inevitabilmente parlo dei temi che mi interessano e trovo importanti, sperando che tocchino anche le sensibilità altrui.

Dal suo sito web si legge che il suo teatro disegnato è destinato sia ai bambini che agli adulti. Secondo lei, c’è una distinzione tra spettacoli per adulti e spettacoli per bambini?

Le “cose per adulti” sono spesso e volentieri quelle di cui non si può parlare. C’è il cinema per adulti, per esempio, che parla di cose un po’ tristi. Ecco, per me l’unica differenza è questa: ci sono aspetti della vita dei grandi che i bambini non riescono a cogliere, e viceversa. Detto questo, però, l’idea di una separazione netta per età tra spettacoli per bambini piccoli, spettacoli per bambini più grandi e spettacoli per adulti, a mio parere non ha senso. È inutile tracciare confini. Io ho 60 anni e propongo ai bambini le musiche che piacciono a me, non quelle che secondo il senso comune sono adatte ai bambini. Non do loro caramelle né faccio versi buffi. Tendo ad annullare le distanze e a far sì che quello che racconto possa piacere sia agli uni che agli altri, a diversi livelli. Naturalmente racconto delle cose che possano far ridere i bambini, che vedono solo il ranocchietto che salta, ma nel testo si nasconde qualcosa che porta anche l’adulto a riflettere. Credo che nei libri ci siano diversi livelli di comprensione.

INTERVISTA: Paola Turci ospite allo Sferisterio

Con una lunga carriera alle spalle, iniziata negli anni 80, quando non era ancora ventenne, Paola Turci rientra senz’ombra di dubbio nel novero delle maggiori figure di riferimento del panorama musicale italiano. La sua voce, profonda e intensa, si presta perfettamente all’attività di cantautrice minuziosa nella scelta delle parole per i suoi brani – a volte delicati e commossi, altre decisi e pungenti –, e a quella di interprete profonda e viscerale. La dimensione live è quella che ama di più e ben quattordici sono gli album registrati in studio. Eppure la carriera dell’artista romana non è fatta solo di canzoni: queste si intrecciano a una passione vivace per la recitazione, un tour teatrale in moltissime città italiane e, soprattutto, un introspettivo cammino personale lungo il quale si riscopre una donna forte e fragile allo stesso tempo. Questa relazione ossimorica tra i due aspetti del suo carattere – in realtà perfettamente coerente – deriva dal suo continuo confronto con le insicurezze, con cui non ha paura di trovarsi da sola faccia a faccia. Alla redazione di “Sciuscià” ha raccontato come, da questi presupposti, si può arrivare ad apprezzarsi e valorizzarsi, superando in propri limiti.

La sua carriera la vede legata particolarmente a un palco molto importante, quello di Sanremo; ben nove le partecipazioni al Festival, tra cui una vittoria con il brano Bambini e tre Premi della Critica. Cos’è cambiato dalla prima alle successive partecipazioni?

Qualcosa cambia sempre. Sono molto legata al Festival di Sanremo e ogni partecipazione ha avuto qualcosa di speciale, è stata unica. Ovviamente, l’occasione in cui si vince è diversa da quella in cui si perde: momenti differenti, sì, ma non così lontani come si può pensare perché quel palco è in grado di regalarti costantemente un insegnamento: qualunque sia il risultato, è sempre un momento di crescita, di confronto con l’altro e con se stessi molto importante.

L’esibizione

Il suo percorso musicale si intreccia con un cammino personale di crescita e accettazione che trova massima manifestazione nel monologo Mi amerò lo stesso; ne viene fuori l’immagine di una donna consapevole che, nel corso della sua evoluzione, si scopre forte e determinata. È così? Qual è, dall’altra parte, il suo rapporto con le insicurezze?

Anche se da fuori posso sembrare una donna forte e determinata, non è sempre così: è un aspetto del mio carattere ma in pochi momenti riesco a essere realmente sicura di me. In realtà sono piena di insicurezze con cui, però, ho un rapporto bellissimo: sono la mia benzina, vado avanti a paure e fragilità. Può sembrare una contraddizione, ma è proprio nei momenti di incertezza che mi costruisco e trovo la forza; diciamo che la mia è un’accezione particolare dell’ottimismo: qualsiasi cosa accada, in questo modo riesco sempre a trovare un elemento da cui ripartire più decisa di prima.

Continuando a parlare di consapevolezza e del rapporto che ognuno di noi ha con se stesso: spesso purtroppo, soprattutto fra i giovani, è difficile e conflittuale la relazione con lo specchio, con la propria immagine, con i canoni sociali. Come, secondo lei, è possibile imparare a volersi più bene?

Non è un percorso facile e non sarei onesta se vi dicessi semplicemente “Vogliatevi bene”: sono stata la prima a non averlo fatto per molto tempo. Nel corso degli anni ho imparato ad apprezzarmi e, dunque, ho avuto dei momenti di affetto verso me stessa, senza i quali non sarei arrivata qui, come sono oggi. La cosa particolare è che il modo di volersi bene è incredibilmente vicino a ognuno di noi, talmente vicino che rischia di scivolarci dalle mani, lo abbiamo addosso: è nel corpo, nella mente, nella propria materia interiore e nei propri sogni. Siamo noi stessi a sabotarci il più delle volte, ma la cosa positiva è che tutto sta nelle nostre mani e la decisione di cambiare è di ognuno di noi, però bisogna imparare a vedere solo quello che è davvero importante.  Non credo che ci sia una ricetta precisa per farlo; sicuramente ai giovani direi di guardare i più grandi, i maestri, quelli che hanno fatto molta strada. Infatti, solo attraverso l’esperienza ci si rende conto che esiste una soluzione. Probabilmente è una questione di tempo, ma la chiave si trova sempre.

Oltre alla musica, nota è la sua passione per il teatro, nel quale si è già sperimentata come attrice. Tra l’altro, l’abbiamo vista nella giura del Festival di Locarno e della Mostra del Cinema di Venezia. C’è un legame tra l’attività di cantautrice e questo interesse per la recitazione? Avremo l’occasione, in futuro, di vederla di nuovo nei panni di attrice?

Fino all’anno scorso ho fatto tappa in moltissime città con il monologo teatrale Mi amerò lo stesso, per l’appunto, che riprenderò a dicembre. La passione per la recitazione è nata quando ho conosciuto un’insegnante di teatro, Beatrice Bracco, che abbiamo perso qualche anno fa; avevo frequentato la sua accademia teatrale a Roma per un anno, poi ho avuto un grave incidente stradale ed è cambiato tutto. Si erano sviluppati un vero e proprio interesse e una curiosità nello studio dei vari attori e personaggi che mi avevano letteralmente incantata. Era – e lo è tutt’ora – una passione fortissima. C’è stato un periodo in cui facevo tantissimi provini: quindici giorni prima dell’incidente, ad esempio, ero a Cinecittà per un provino con Ettore Scola per un suo film, non mi prese. Poi, dopo l’incidente, ho dovuto interrompere questa esperienza che è stata unica e incredibile; nonostante tutto non ho mai smesso di amare il teatro! Negli anni ho capito che, personalmente, da attrice, preferisco il teatro al cinema. È come il live: c’è qualcosa che è unico, appartiene a quel momento e a quella sera, dunque non si ripeterà. Ci saranno, sì, repliche ma non di quel preciso istante. Registrare, dunque, non è una cosa che mi piace molto; per lo stesso motivo, amo più il live che fare i dischi.

Come abbiamo detto, di palcoscenici ne ha calpestati molti; stasera è la volta dello sferisterio di Macerata, in occasione delle serate finali di Musicultura. Prima di un’esibizione, per prepararsi a salire sul palco, ha qualche rito particolare?

No, non ho riti, non ci credo. Invece, credo nel riscaldamento della voce, negli esercizi e nel rimanere leggeri prima di un’esibizione: magari mi berrei anche un bicchiere di vino prima di salire. Per me, la componente più importante è la consapevolezza di quello che andrò a fare.