“La musica è un sogno comune”: i Santamarea a Musicultura 2023

Un gruppo di tre giovani fratelli più Noemi, “sorella acquisita”; sonorità e testi che spaziano dalla musica cantautorale a quella elettronica; tradizione e innovazione che si fondono in una ricerca artistica originale: questi sono i Santamarea, che con il loro brano omonimo si sono aggiudicati un posto tra i 16 finalisti di Musicultura 2023. Ecco le loro risposte all’intervista della redazione di “Sciuscià”.

Quali sono le prime emozioni che avete provato quando avete saputo di essere tra i 16 finalisti di Musicultura 2023? Vi aspettavate questo risultato?

Scoppiavamo di gioia! Per noi già quella delle Audizioni è stata un’esperienza molto bella in tutti i suoi aspetti; ora, rivivere di nuovo l’emozione del palco di Musicultura è un desiderio avverato che ci ha resi felicissimi. Oltretutto, prendere atto che il nostro lungo lavoro in sala prove è stato ascoltato e apprezzato è fonte di soddisfazione. In fondo ci speravamo molto.

Palermo vanta bellezze naturali e un patrimonio storico-artistico unici al mondo. Che rapporto avete con la vostra città? Come il contesto in cui vivete vi ispira e vi influenza?

Palermo è teatrale, scenografica e contraddittoria e questo senza dubbio ci ispira molto. Il confine tra le atmosfere popolari, caotiche e colorate, e quelle riflessive e naturali che percepisci ovunque ci contagia inevitabilmente. Da Quattro Canti allo sconfinato Foro Italico, passando per le urla barocche di Ballarò e le passeggiate ben vestite del centro, assorbiamo quotidianamente questa commistione tra antico e nuovo, tra bello e decadente.

“Santamarea non è l’immagine immobile della statua di legno ingiallito nella chiesa sconsacrata, è la statua che viene giù e danza scrostandosi di dosso il legno”, affermate a proposito del brano con cui siete stati selezionati tra i 16 finalisti di Musicultura. Quanto questa canzone rispecchia la vostra identità di gruppo? Cosa aggiungereste a questa descrizione?

Il brano Santamarea rispecchia molto la nostra identità di gruppo, perché ha alcuni elementi che ci stanno particolarmente a cuore: l’inserimento di parti recitate, i cori, i ritmi. Abbiamo tratto ispirazione dalla musica popolare ed etnica con l’intento di evocare immagini vivide. Questo brano ci ha permesso, scavando a fondo, di trovare la nostra identità. Lo abbiamo immaginato insieme, è frutto di ascolti comuni e ci abbiamo lavorato con cura, lentezza e in squadra. Forse oggi aggiungeremmo a quella descrizione l’importanza del gruppo e del lavoro insieme, diremmo che la statua non viene giù a danzare da sola, ma ogni pilastro, finestra rotta e affresco la prende per mano e danza assieme a lei in un coro che riecheggia.

La cifra distintiva del vostro gruppo è quella di avere un’anima corale, probabilmente dovuta al fatto che siete tre fratelli più Noemi, “sorella acquisita”. Com’è essere fratelli e musicisti? Fuori dal palco e dalla sala prove tra di voi c’è la stessa complicità?

Sicuramente per noi è importante mantenere un confine tra la sala prove e la vita, per dare un aspetto quasi sacro al nostro lavoro. Ogni volta che entriamo in sala prove facciamo un piccolo rito: accendiamo una candela e da quel momento il mondo resta fuori e anche i nostri eventuali bisticci quotidiani. Quando suoniamo insieme ci sentiamo più vicini ed emotivamente coinvolti, perché la musica è un sogno comune e per realizzarlo dobbiamo avere cura gli uni delle emozioni e degli stati d’animo degli altri. Noemi contribuisce molto all’equilibrio del gruppo perché è molto simile a noi. Viviamo una quotidianità che ci porta a rinnovare ogni giorno il nostro rapporto.

La vostra è una ricerca artistica che affonda le radici nel cantautorato e incontra il contemporaneo attraverso l’uso sapiente dell’elettronica, in una commistione tra tradizione e innovazione. Quali sono i vostri artisti di riferimento, quelli con cui avreste piacere di collaborare?

Sicuramente una grande ispirazione sia musicale che estetica sono i Florence and The Machine, Bon Iver, i Coldplay e gli Alt-j. Ci piace molto ascoltare anche la musica classica spaziando da Puccini a Tchaikovsky. Del panorama italiano attuale ammiriamo i Verdena e alcuni giovani progetti emergenti come Emma Nolde, Lucio Corsi o Ibisco. Collaborare con Florence Welch sarà sempre il sogno nel
cassetto del nostro frontman.

Lilo a Musicultura: “Ho cambiato pelle tante volte, ma sono sempre io”

A sei anni inizia a studiare pianoforte; poi si dedica al canto moderno fino alla laurea in musicologia: è una vita votata alla musica quella di Lilo. Nel 2010 fonda un duo semi-acustico, Lylo, che produce due EP in lingua inglese. Nel 2017 cambia “pelle” e anche nome: un progetto solista con testi in lingua italiana e sound elettronico. Pubblica dapprima numerosi singoli e poi, nel 2020, un EP dal titolo “Diverso”, che racchiude un percorso di esperienze e trasformazioni. Adesso è in cantiere il suo primo album; e, sempre adesso, è tempo di Musicultura, perché il suo nome fa capolino tra quello dei sedici finalisti del concorso. Ecco cosa ha raccontato la cantautrice a “Sciuscià”, la redazione del Festival.

Hai esordito nella tua carriera d’artista in un duo musicale e cantando in lingua inglese; hai poi proseguito da solista e in lingua italiana. In questo passaggio, quanto è rimasto della vecchia Lilo e quanto c’è di nuovo in quella di oggi? C’è qualcosa in particolare che hai maturato nel tuo progetto da solista che non era ancora emerso rispetto al passato?

Che bella domanda che mi hai posto! Mi ha fatto ragionare su quanto un cambiamento ci faccia effettivamente mutare. Come un rettile cambia il suo involucro, durante una muta, per fare spazio a un sé cresciuto, così mi sento io rispetto alla Lilo del passato: più grande, più adulta, più consapevole. Ho cambiato la pelle tante volte, per necessità, perché è fisiologico, ma sotto tanto a quella nuova quanto a quella vecchia ci sono sempre io. Rispetto al passato, quindi, ora sul palco mi porto anche Laura, non solo Lilo. I nomi d’arte a volte ti ingannano, ti fanno percepire come una persona diversa ai tuoi stessi occhi. Dunque sì, quando sono Lilo mi ricordo di invitare sempre anche Laura, e viceversa.

Hai dichiarato che fare musica ti rende felice, è una luce che ti illumina e ti permette di dire ciò che vuoi. La strada della vita è fatta di zone illuminate, ma anche di frangenti d’ombra. Che ruolo ha avuto e ha tutt’ora la musica negli alti e bassi della tua vita?

La musica è il mio lavoro, è il mio hobby, è dove mi perdo e spessissimo dove mi ritrovo. È dove incontro gli altri e dove sto da sola. La musica mi serve anche quando non c’è, quando decido di non ascoltarla, di non praticarla, di allontanarmene. Non saprei dirlo meglio di così.

Gospel 121, brano con cui ti sei esibita sul palco di Musicultura, sembra aprire un dialogo con qualcuno a cui si rivela la sensazione di essere compresi. La sua chiave di lettura si iscrive più in una dimensione religiosa e spirituale o umana e terrena? E poi, “121” è un riferimento al relativo salmo biblico o c’è dell’altro?

Gospel 121 ha un’accezione estremamente e intrinsecamente terrena. È come ci si sente a essere visti, capiti, rispecchiati. È una sensazione talmente tanto umana da sembrare divina in qualche modo. La canzone si intitola così perché non sono brava con i titoli, non sono brava a sintetizzare, come credo si evinca facilmente dalle risposte che do. Avevo in mente di sperimentare con un pezzo che avesse l’andamento di un pezzo gospel, con delle modulazioni e delle aperture armoniche tipiche di quell’universo sonoro. Per cui al provino ho messo il titolo di “Gospel” per ricordarmi dove volevo andare. Poi, arrivato il momento di scegliere il vero titolo, a produzione ultimata, ho chiesto a Matteo De Marinis – producer del brano e batterista nel live – a quante tracce di voce fossimo arrivati nella nostra folle sperimentazione. Lui mi ha risposto, tra lo sbigottito e l’esausto: “Centoventuno!”. E “Gospel 121” fu.

Dopo questi anni di carriera musicale in cui hai pubblicato svariati singoli e un EP, adesso c’è in calendario l’uscita del tuo primo album. Cosa dobbiamo aspettarci da questo lavoro?

L’album che sta prendendo forma in questi mesi è un lavoro nel quale ho seguito molto l’idea di musica che ascolterei, di musica che mi piace prima di tutto come ascoltatrice. Non posso dire di più perché per ora questo è tutto quello che so.

Studi musica fin dall’infanzia. In questo percorso ci sono sicuramente stati artisti importanti che ti hanno ispirata particolarmente. Se dovessi pensare a una collaborazione con qualcuno di loro, con chi desidereresti condividere il palco?

Recentemente sono stata al concerto di James Taylor, artista che stimo moltissimo e che ho conosciuto grazie a mia madre. La sua musica è stata colonna sonora di tantissimi pomeriggi della mia infanzia. Penso che mi piacerebbe condividere il palco con lui perché durante il suo concerto ho percepito che tra James e i suoi musicisti scorrevano una stima altissima, una fiducia cieca e una tranquillità placida derivata dal fare musica insieme. Questa cosa mi ha emozionato parecchio.

Zic e il suo Futuro stupendo a Musicultura 2023

Lorenzo Ciolini, in arte Zic, comincia a studiare chitarra elettrica a 11 anni e, ispirato dai Nirvana, a scrivere canzoni a 17. Risale al 2016 il fondamentale sodalizio con il produttore Pio Stefanini; dell’anno successivo è la partecipazione ad Amici ; nel 2018 arriva il primo album- Faceva Caldo- , seguito da Smarties, 2020. Ora approda sul palco di Musicultura con il brano Futuro stupendo. E alla redazione del Festival rilascia quest’intervista.

Nasci a Firenze, universalmente riconosciuta come città d’arte. Questo importante tessuto culturale ha influito sulla tua formazione musicale? È stato in qualche modo fonte di ispirazione?

Ho sempre raccontato la mia vita nelle canzoni, perciò – per quanto possa essere deludente- sono costretto a rispondere di no: la storia della mia città non ha influenzato in alcun modo la mia musica.
Forse il paese dove sono cresciuto, San Casiano, ha avuto un ruolo più concreto, se non altro per le persone che lo abitavano.

Nella tua biografia dici di amare “la decadenza di fine secolo”. Ci spieghi meglio questa affermazione?
Intendo in effetti quella sensazione di “fine” che si respirava, tutto il mondo ne era pieno. Dopo l’opulenza degli anni ‘80 è arrivato il grunge, non solo un nuovo modo di far musica, ma un nuovo stile di vita: sporcizia, droghe pesanti, alcolismo, inadeguatezza, smarrimento sociale, impulsi autodistruttivi, solitudine.
In un’intervista Kurt Cobain dichiarò che il nome “Nirvana” significava liberazione dalla sofferenza e dal mondo esterno; questa per lui era l’espressione del concetto di punk e per me ha significato una svolta nella vita. Ho capito che avrei dovuto scrivere dopo aver ascoltato Nevermind.

Nel tuo brano selezionato da Musicultura, Futuro stupendo, si nota una commistione tra stati d’animo sofferti, legati a una guerra interiore, e sentimenti di speranza, riconducibili a una storia amorosa. Se c’è una vincitrice, quale emozione ha la meglio in questo scontro?

Faccio fatica a descrivere ciò che volevo raccontare con parole differenti da quelle che compongono il testo della canzone. Penso che la parafrasi uccida la poesia e la musica.
Mi dà soddisfazione sapere che qualcuno si emozioni ascoltando una mia canzone, ma è essenziale non strappar via il “velo di Maya”. Ognuno riempie la canzone con il proprio mondo, tutto ciò è catartico e per questo emozionante.

Nota è la tua partecipazione al talent show Amici; altrettanto noto è come talvolta non sia facile rapportarsi e presentare il proprio progetto in contesti così grandi. Nel tuo caso?
Amici è stata un’esperienza come tante ne ho fatte in vita mia: le do il peso che merita, né più, né meno. È un contenitore, può essere quello giusto per te oppure può essere quello sbagliato.

Continuiamo a parlare di esperienze. Cosa ti ha spinto a partecipare a Musicultura e quanto pensi possa essere importante uno spazio come questo nel tuo percorso musicale?
Facendo di nuovo l’esempio dei contenitori, penso che Musicultura sia indubbiamente un posto stimolante, dove ci sono la pazienza di ascoltare e l’interesse a proporre uno spettacolo all’altezza delle aspettative.
Personalmente avevo bisogno di mettermi in gioco e sono contento di aver avuto la possibilità di farlo proprio qui. Suonare sui palchi di Musicultura per il pubblico di Musicultura è un privilegio e spero che tutto ciò possa significare una svolta nel mio percorso.

 

A tu per tu con Lamante

Tra i 16 finalisti di Musicultura 2023 c’è un’artista che si auto-definisce “tribale-matriarcale”: è la vicentina Giorgia Pietribiasi, in arte Lamante. Studia chitarra fin da piccolissima, poi si perfeziona al CPM di Milano e all’Officina Pasolini. Alle Audizioni live i brani L’ultimo piano e Come volevi essere le sono valsi la Targa Banca Macerata. A dir la verità, il nostro tentativo di riassumere la sua musica in un’intervista è fallito miseramente. Con un’analisi sociale un po’ spietata e un po’ romantica, Lamante ha risposto alle nostre domande come togliendo i punti alla fine della frase, aprendo la strada a mille altre domande, alle innumerevoli sfumature della sua arte. Soprattutto ci ha ricordato che la musica è comunità.

Giorgia all’anagrafe, Lamante sul palco. Da dove viene il tuo nome d’arte?

L’amante è una figura iconoclasta per eccellenza, appartiene allo spettro dell’amore, all’impulso che ci conduce all’altro senza alcuna regola. Con l’amore ci rapportiamo inevitabilmente al diverso. Fran Lebowitz ha detto: «Alle volte quando una mia amica finisce di leggere un libro, esclama che le è piaciuto perché si è sentita rispecchiata, ma io quando leggo non ho voglia di specchiarmi. Voglio entrare in mondi in cui di solito non entrerei. Non voglio riconoscermi nelle parole che sto leggendo, voglio conoscere altro». Lamante per me è anche questo: nella società degli specchi io scelgo di non specchiarmi, scelgo di guardare altrove e contaminare la mia rappresentazione del mondo. Ho imparato ad accettare e a immergermi nell’alterità che, guarda caso, è ciò che l’artista prova a fare con le sue opere e l’amante col suo amato. Nel forum Hand Red, Nick Cave descrive bene il legame tra la sua anima creativa e quella erotica: per lui, e anche per me, occupano la stessa parte del cervello.

Alle Audizioni Live hai ricordato tuo nonno che, come hai dichiarato in una precedente intervista, ti ha fatto vedere l’irrazionalità della vita. Allora è irrazionale anche la musica?

Quell’intervista è stata fatta molti anni fa e non avevo la padronanza di linguaggio che ho ora. Credo che il mio intento fosse quello di far capire al lettore che ormai la scelta di vivere come mio nonno, cioè come un contadino, non è comprensibile. Chi vivrebbe oggi in una provincia fatta solo di campi, senza mezzi, senza supermercati aperti h24, senza cellulari, condizionatori o televisioni? La colpa peggiore sono i nostri armadi, diceva un mio maestro. Mio nonno ora sarebbe stato l’uomo più sostenibile al mondo. Vivendo con lui ho capito che la vita irrazionale degli altri è una vita bellissima. La sottrazione è la soluzione. C’è un articolo del 1974 di Goffredo Parise dal titolo Il rimedio è la povertà: più che il suo contenuto, con cui sono estremamente d’accordo, mi ha colpito l’impatto sociale che ebbe a quel tempo. Parise criticò il sistema consumistico e il benessere, e questo venne interpretato da letterati e politici come una presa di coscienza scandalosa e irrazionale. Come può una persona non volere queste comodità? Paragonando il ruolo del contadino a quello dell’artista, penso che irrazionale non sia tanto la musica ma proprio la posizione che la società dà a chi la fa. Di questi tempi la carriera dell’artista, se non è accostata al successo e al mero far soldi, diventa una scelta incomprensibile e irrazionale.

Come siamo finiti così?/Nelle nostre case sempre più piccoli/Pensando di salvare solo noi. Sono i versi finali, semplici e potentissimi, de L’ultimo piano, brano con cui ti sei esibita sul palco di Recanati. Puoi raccontarci la loro storia?

L’ultimo piano nasce tra la fine della pandemia e l’inizio della guerra in Ucraina. È stato come vivere in un mondo stravolto, impensabile fino a pochi anni fa. Ciò che mi ha portato a scrivere questi versi è stato innanzitutto il comportamento dei media televisivi e giornalistici e dei social network, unici narratori della storia ormai da un po’. Media e società si influenzano reciprocamente: si parla della guerra in Ucraina soltanto perché è molto vicina e ci tocca personalmente, e ci tocca personalmente perché se ne parla a raffica nei telegiornali. Tutto questo ci aliena. Abbiamo creato una comunicazione senza comunità. E così io faccio una delle poche cose che sono in grado di fare: immagino. Torno indietro negli anni e penso a un futuro migliore. Fare musica per l’artista è un’azione doverosa, perché riporta le persone a una comunità senza comunicazione, dove ci si ascolta, dove il dolore non è più del singolo ma comunitario, condiviso; dove non c’è bisogno di parlare per tenersi uniti ma è necessario muovere la testa al ritmo di una pulsazione, di un mantra, come una preghiera ripetuta tante volte.

Esperienze importanti e formative come quella di Area Sanremo o del Premio Bianca d’Aponte lasciano un segno: aggiungi qualcosa al tuo percorso mentre qualcos’altro, magari un’imperfezione, se ne va. Che effetto avrà Musicultura 2023 su Lamante?

Mentre tornavo a casa in treno da Macerata (dalle Audizioni Live, ndr), con il premio del pubblico ho proprio pensato che senza l’esperienza del Bianca d’Aponte e del Rock Contest non sarei arrivata a Musicultura. Non sarei stata al Lauro Rossi, immersa nelle parole che stavo cantando, se non avessi prima calcato quei palchi, e mi è sembrato in un certo senso che la commissione di Musicultura questo lo avesse capito. In effetti erano anni che provavo a entrare nella rosa dei 56 e non ci riuscivo: evidentemente non ero pronta, ma sapevo che lo sarei stata. Penso che ogni singola esperienza musicale mi permetta di avere sempre più consapevolezza di me stessa. Ciò che mi auguro alla fine di questa bellissimo evento è che nei live o nello studio di registrazione io possa essere quello che faccio e fare quello che sono, fino a che non si distinguerà più l’uno dall’altro, il personaggio dalla persona, cercando di diventare un tutt’uno con il momento presente, per essere sempre più autentica nel modo di esprimermi artisticamente.

Tra poco uscirà il tuo primo EP, Come volevi essere. Puoi darci qualche anticipazione?

Oggi l’industria musicale è satura, esausta: solo in Italia escono circa 80 pezzi al giorno. Io non ho mai pubblicato niente della mia musica (anzi, è strano pensarmi fuori!), non ho Spotify e non uso piattaforme di streaming, però mi sono dovuta rapportare a tutto ciò. E ho capito che non avrei pubblicato niente che non mi rispecchiasse al 100% o che non avesse veramente senso dire. Quando ho conosciuto il mio produttore, Taketo Gohara, lui era d’accordo con me: è per questo motivo che in un anno mi ha fatto scrivere più di 75 pezzi completi, musica e testo. Abbiamo scelto solo i migliori, cioè meno del 10%. Quindi posso dirvi che sarà un lavoro curato all’estremo, pensato non nei tecnicismi ma nelle emozioni e nei contenuti, creato mettendo in discussione giorno per giorno ciò che volevo dire, ascoltando molta musica e leggendo tantissimo. Anche la mia immagine estetica è il risultato provvisorio di una ricerca lunga, approfondita con l’aiuto di un team fantastico. L’EP sarà preceduto da due singoli che verranno pubblicati insieme ai video scritti da me e dal regista Niccolò Bassetto con la direzione artistica di Giulia Sanna.

A tu per tu con Mafalda Minnozzi

Dagli anni ’90, Mafalda Minnozzi è sempre in movimento. Vanta numerose apparizioni nei più prestigiosi locali newyorchesi, ha concorso al Grammy Latino 2021, ha incontrato e collaborato con i suoi maggiori idoli musicali. Per la 34esima edizione del Festival è a Recanati, in occasione del Concerto dei 16 Finalisti di Musicultura, con il suo complice musicale, Paul Ricci, eclettico chitarrista jazz americano impegnato con lei dal 2014 nel progetto EMPathia duo. Prima dell’esibizione elegante e sobria che i due ci hanno regalato, abbiamo avuto la fortuna di scambiare due parole con Mafalda.

Nel 1996 sei approdata per la prima volta sulla scena musicale brasiliana. Che differenze hai notato, principalmente, tra industria e cultura musicali del Brasile e quelle del Bel Paese?

Ho sempre amato la canzone d’autore e quando sono arrivata in Brasile mi sono trovata subito in un Paese che a sua volta la ama e la rispetta religiosamente. Lì la musica crea un punto di partenza per la vita di tutti, un patrimonio culturale collettivo che è l’essenza assoluta della filosofia di vita del brasiliano. C’è poi il Samba. Non quello che conosciamo tutti per ballare, ma quella maniera di riunirsi e pregare attraverso la musica, da cui parte l’esperienza religiosa collettiva del Carnevale, raccontato da Vinicious de Morais in Samba de Bensao (Samba della benedizione). Nell’industria musicale di un Paese così grande, c’è inoltre una meritocrazia incredibile: iniziare dal Brasile mi ha permesso di vivere la carriera che ho avuto.

Un diverso rumore di fondo (radio che senti per strada, conversazioni, rumori, suoni della quotidianità) rende diverse le tue improvvisazioni sul suolo sudamericano? In che modo?

Da circa 25 anni, vivo tra New York, il Sudamerica, l’Italia e l’Europa, quindi posso dire di muovermi in un paesaggio sonoro fortunatamente variegato. Quello che influenza le mie produzioni artistiche non è però solo il “rumore” di fondo, ma soprattutto le culture con cui mi mescolo, quello che studio in un determinato momento. Un artista non deve mai smettere di imparare, deve essere sempre curioso, e questo mi ha portato a disporre di cinque lingue in cui cantare, tra cui il napoletano: una lingua bella quanto ostica, tanto che per padroneggiarla ho dovuto studiare canto napoletano e vivere quattro anni a Napoli. L’essere un’artista poliglotta rende quindi il mio paesaggio sonoro sempre diverso, unito dal jazz che da sempre mi aiuta a superare ogni barriera linguistica.

Com’è cambiato il tuo sound negli anni, con l’avvicendarsi di nuove “mode” musicali e una straordinaria carriera di incontri di spessore? Cosa pensi che abbia di differente la Mafalda di oggi rispetto a quella di qualche anno fa?

Siamo sempre in continuo mutamento, come artisti e come esseri umani. Per questo a volte soffro quando mi dicono “Ma tu ancora canti? Ancora vai in giro per il mondo?” (ride, ndr). Io credo che si nasca e muoia artisti, e nel mentre c’è solo movimento/cambiamento. Con gli anni insieme alla mia persona sono cambiati i miei orizzonti e i miei sogni, che hanno preso forme diverse. Riguardo alla musica in sé sono cambiata, ad esempio, adattandomi alla nuova tendenza dei cantanti contemporanei di non impostare troppo la voce: nonostante io venga dal “bel canto” fatto di grandi esercizi, ho ora un timbro più naturale e sobrio di anni fa.

Se dovessi scegliere un qualsiasi artista vivente con cui fare una collaborazione, chi pensi che sceglieresti e perché?

Difficile darti questa risposta senza pensare a Lucio Dalla, con il quale avevo un bellissimo rapporto e con cui avrei dovuto fare una collaborazione poco prima che morisse. In campo internazionale ti avrei detto per tutta la vita Roberto Menescal, uno dei padri della Bossa Nova, ma in tempi molto recenti ho coronato il sogno di suonarci assieme. Se invece dovessi scegliere un italiano, darei volentieri fastidio a un grande personaggio ritiratosi dalle scene, nato il 21 settembre come me: Ivano Fossati. Mi presenterei da lui con una torta, dicendogli: “Senti, Ivano, festeggiamo il compleanno suonando qualcosa in pubblico?”.

In questo ultimo anno di ritorno alla normalità dopo il Covid, qual è l’esperienza di live performance che ricordi con più piacere?

Mi basta pensare solo agli ultimi 15 giorni e di occasioni uniche mi vengono in mente il soldout del Bluenote di São Paulo e quello di Monaco di Baviera, o il concerto che abbiamo fatto a Toronto. Non è solo questione di numeri: che ci siano due milioni e mezzo di persone come quando suonai all’Avenida Paulista, o cinquanta, dieci, due persone, l’importante è metterci passione e umiltà, e le emozioni vengono da sé.


 

Il Concerto dei 16 finalisti di Musicultura 2023

È di nuovo Musicultura. È di nuovo concerto dei finalisti. Per questo secondo appuntamento, sono altri otto gli artisti che si esibiscono. A fare gli onori di casa sul palco del Teatro Persiani di Recanati è John Vignola; in collegamento dallo studio-bar ci sono invece Marcella Sullo e Duccio Pasqua. A condurre la serata, insomma, sono tre voci di Rai Radio 1, che trasmette l’evento in diretta.

Rompono il ghiaccio i Santamarea, con il brano omonimo del gruppo. “Qualcosa nel mare ci parla”, dichiarano dopo la loro esibizione. E in effetti, basta chiudere gli occhi per lasciarsi trasportare direttamente nelle acque della loro Palermo grazie alle note fluide del pezzo, nate da un flusso di coscienza di Stefano, il frontman, e diventato corale grazie alla perfetta sintonia dei componenti della band.

La seconda a proporre la sua performance è Cristiana Verardo, che si presenta al pubblico con un look da pugile, guantoni compresi. Nella sfida che combatte sulle note di Ho finito le canzoni l’avversario è proprio se stessa: la cantautrice fa del poetico confronto con il suo io interiore l’occasione per un’attenta presa di coscienza e per una rinascita.

È poi la volta di Simone Matteuzzi con la sua Ipersensibile. “Ma questa spiccata sensibilità – domanda Marcella Sullo – è un’arma o un punto debole?”. Il giovane artista fuga ogni dubbio: “È entrambe le cose”, risponde. Ed è il punto di partenza per la sua creatività. “Contaminazione” – di accordi, sonorità e stili diversi- è la sua parola totem.

Segue Lamante, che si abbandona a una performance che John Vignola definisce “felicemente caotica” con il brano L’ultimo piano. La cantautrice trova nella dimensione live del teatro lo spazio adatto ad accogliere il suo mix di sonorità nordiche, ritmi tribali e tante influenze differenti. E infatti, “amo non mettermi limiti e lasciare che la sonorità prenda il suo spazio”, dichiara alla fine della sua esibizione.

Con un “trittico di canzoni tristi”, come le presenta ironicamente lui stesso, è la volta di Dente, primo ospite della serata. Propone al pubblico La vita fino a qui e Allegria del tempo che passa; saluta con il brano Invece tu, del 2014, manifesto di uno dei tratti distintivi della sua musica: testi intrisi di giochi di parole che accompagnano l’ascoltatore, ogni volta, in un piccolo viaggio semantico e intimo. Malinconico e ironico, appunto, allo stesso tempo.

Si torna poi alle esibizioni degli artisti in concorso. Sul palco c’è il marchigiano Caponetti con la sua Maionese. Slot machine, treni di notte, piatti da lavare e bollette: il testo è simpaticamente costruito su una serie di immagini quotidiane che diventano un mezzo per parlare di vulnerabilità. È quest’ultima, del resto, “lo strumento più forte, il motore per scrivere le canzoni”, ammette il cantautore.

A seguire, AMarti, busker ferrarese, cantante, musicista e pittrice. Il fil rouge che lega tutte queste attività? L’amore. Un amore, spiega l’artista, inteso “in senso di liberazione, di possibilità di trasformare il dolore in qualcosa che ci fa stare bene grazie alle capacità del nostro cuore”. C’è tutto questo nelle sonorità oniriche del suo brano Pietra.

Settimo a proporre la sua musica è Nervi, che alle spalle ha già la partecipazione al concertone del Primo Maggio e la vittoria del Premio Buscaglione. Questa sera porta con sé il brano Sapessi che cos’ho, che anticipa il suo primo disco da solista, prossimamente in uscita. Prossimamente quando? Senza fretta: dichiara di voler lavorare così, “con lentezza, in un mondo estremamente veloce”.

Ultima finalista è Mira. “La musica è un viaggio all’interno di se stessi e delle proprie emozioni”, spiega. Ed è proprio questo percorso introspettivo a farla da padrone in Morire con te, brano caratterizzato da ritmi vivaci e da un testo che palesa la necessità di raccontarsi. E di comprendersi, anche. Non a caso, confida a John Vignola: “Scrivo musica perché ne ho bisogno; è nella musica che mi capisco”.

La serata non è ancora conclusa. I saluti spettano a un’altra ospite. Sul palco sale Mafalda Minnozzi, accompagnata dal suo ormai storico partner artistico, il chitarrista Paul Ricci. La cantante si esibisce in due brani rigorosamente arrangiati in chiave latin jazz. Culla il pubblico sulle note di Oh che sarà (A Flor da Pele), eseguito alternando italiano e portoghese, e di Arrivederci. Nulla di più appropriato, no?

Arrivederci a presto, allora. Perché è presto che scopriremo chi sono gli 8 artisti vincitori di Musicultura 2023 che a giugno si esibiranno allo Sferisterio di Macerata in occasione delle serate conclusive del Festival. Uno solo, poi, sarà il vincitore assoluto, al quale verrà consegnato il Premio Banca Macerata del valore di 20.000 euro.


 

A tu per tu con Dente

Un trittico di canzoni tra passato e presente, tra ironia e malinconia: Giuseppe Peveri, in arte Dente, si è esibito sul palco di Musicultura – al Teatro Persiani di Recanati, in occasione del Concerto dei sedici Finalisti del Festival – con tre dei suoi brani: Invece tu, La vita fino a qui e Allegria del tempo che passa. Reduce dall’uscita – lo scorso 7 aprile – del suo nuovo album, Hotel Souvenir, il cantautore fidentino ci ha raccontato di come sia cambiato il suo rapporto con lo scorrere del tempo e di come quest’ultimo possa svelare le contraddizioni dell’animo umano. Siamo poi passati a parlare di musica, di artisti e di come non si dovrebbe mai perdere la propria unicità lungo la strada. Così, nell’intima atmosfera di un palchetto, ha risposto alle nostre domande.

In altre interviste hai descritto il tuo nuovo album, Hotel Souvenir, come “il disco della consapevolezza” e uno dei suoi temi centrali è il tempo. Ecco, com’è cambiata la tua consapevolezza rispetto all’inevitabile scorrere di quest’ultimo?

Il mio rapporto col tempo che passa è sempre stato abbastanza tragico, però a oggi lo vivo sicuramente con meno malinconia: anni fa, ripensando al passato, provavo solamente la nostalgia di qualcosa che si era perso, qualcosa di irrimediabilmente irrecuperabile, e ciò suscitava in me il desiderio di tornare a riviverlo. Pian piano questa nostalgia è sfumata, è andata ad attenuarsi sempre più, lasciando spazio a una visione più positiva, che mi ha dato la possibilità di concentrarmi meglio sul presente. E adesso vedo il passato come un percorso che mi ha portato a essere quello che sono oggi.

In uno dei versi di Allegria del tempo che passa nomini “la stupida paura di stare bene”; da cosa deriva questa “malattia” e, se esiste, qual è la cura per spegnerla?

Eh, a saperlo! (ride ndr).
Sì, la tratto come una malattia. Credo sia una caratteristica innata che abbiamo in tanti: pensiamo di temere solo le cose brutte e invece ci spaventano anche quelle belle. Per questo a volte ci auto-sabotiamo, per colpa di una paura che, magari, nemmeno riconosciamo; paura di avere successo, di riuscire nei nostri obiettivi, di stare bene, di mettere dei punti a capo. Queste cose ci spaventano molto e non dovrebbero, ecco.

Nel 2013 hai curato la rubrica radiofonica Perla Nascosta Hip Hip Hurrà, nell’ambito della quale proponevi all’attenzione degli ascoltatori un brano italiano ormai dimenticato o poco conosciuto. Spesso si tende a sottolineare la differenza tra musica mainstream e musica meno commerciale, ma di maggior qualità; pensi che questa distinzione sia ancora attuale o si può considerarla ormai superata?

Il discorso è molto ampio. Sicuramente ci saranno sempre, per fortuna, artisti che non puntano esclusivamente al mainstream. Purtroppo in questo periodo storico sono una rarità. Sembra che il percorso musicale debba essere uguale per tutti. Invece ognuno deve intraprendere la propria strada, lungo la quale far emergere la propria unicità. Infatti gli artisti sono belli perché sono vari. Alcuni abbracciano un pubblico più vasto e sono più popolari, altri meno. Ma non è un fallimento. Secondo me è come una biodiversità: è utile all’ecosistema. E invece, negli ultimi anni, sembra che questa specie di musicisti noncurante del mainstream sia in via di estinzione. Non voglio fare l’anziano che brontola “era meglio prima” poiché non è vero. Però credo che nella testa degli artisti si sia assottigliato il concetto “faccio la mia strada, vado dove vado” e che ora sia “voglio fare la mia strada per arrivare lì”. È molto diverso.

Le tue esperienze di scrittura non si limitano solo a quella delle tue canzoni; infatti, fra le altre cose, nel 2015 hai pubblicato il tuo primo libro, Favole per bambini molto stanchi. Come ti sei trovato a scrivere qualcosa non destinato a essere messo in musica? Quali sono le differenze fra i due processi creativi?

Sono due processi molto diversi. La differenza principale sta nel suono. A volte alcune parole messe in  musica suonano bene, non solo per il significato che hanno, ma anche per come si legano con le note. Nel caso della musica il suono è sempre esplicito, sia quando la si compone, sia ovviamente quando la si ascolta. Nel caso del libro, invece, il testo viene scritto in silenzio per essere letto allo stesso modo. Ma la musicalità c’è comunque, si tratta semplicemente di un suono interiore, che è nella testa di chi legge.

Musicultura è il Festival della musica popolare e d’autore. Quanto credi sia importante valorizzare la canzone italiana?

Ovviamente molto, sarebbe sciocco dire il contrario. È giusto e bello che ci siano eventi come Musicultura. Ora forse ce n’è anche la necessità. Infatti in passato era più facile esibirsi di fronte a un pubblico, visto che nei locali si tendeva a dare fiducia anche a cantanti e gruppi sconosciuti. Ecco, penso che questo tipo di apertura verso gli artisti emergenti oggi ci sia un po’ meno. Credo che realtà come Musicultura siano una cosa preziosa, di cui il mondo musicale ha fortemente bisogno per poter continuare a crescere e ad arricchirsi.

Sei un appassionato di fotografia e hai un profilo social dove pubblichi i tuoi scatti. Inoltre la tua discografia rivela una cura nel dettaglio di copertine e video musicali. Che nesso c’è per te tra la musica e l’immagine?

Il nesso tra la musica e l’immagine secondo me è molto forte. Ciò che vediamo influenza notevolmente il modo in cui ascoltiamo una canzone. È decisamente diverso compiere questa azione giovevole in riva al mare, oppure su un treno regionale senza aria condizionata: cambia la percezione di quello che si vive in quel momento e di quello che si ascolta. In questo senso, anche l’immagine delle copertine dei dischi è molto importante.  A volte diventano più famose degli album stessi. Per esempio la mucca dei Pink Floyd: è la foto di una mucca che però è passata alla storia. Sicuramente ci saranno più persone che hanno visto la copertina rispetto a quelle che hanno ascoltato il disco. Allineare immagine e musica crea una bella alchimia. E se il nesso tra le due, che ha senso nella testa dell’artista, è comprensibile anche per gli ascoltatori, abbiamo fatto bingo!


 

Musicultura torna a Recanati!

Che Musicultura sarebbe senza Recanati? Anche quest’anno il Festival della Canzone Popolare e d’Autore fa tappa al Teatro Persiani con un doppio appuntamento. Protagonisti della serata di ieri – condotta da John Vignola, Marcella Sullo e Duccio Pasqua, storiche voci di Rai Radio 1, che ha trasmesso in diretta l’evento – otto dei sedici finalisti di questa XXXIV edizione, «una delle più belle in termini di contenuti e di personalità» secondo il direttore artistico Ezio Nannipieri.

A rompere il ghiaccio sul palco, però, è un ospite speciale, un artista che di strada ne ha già fatta tanta: Mario Venuti. La sua è una performance intima, raccolta – solo chitarra e voce – sulle note di Crudele e di Una carezza in un pugno di Adriano Celentano, brano che, come racconta lo stessoVenuti al termine dell’esibizione, fa parte del progetto Tropitalia, una rilettura della canzone italiana con un taglio un po’ tropicale, ispirato alla cultura musicale e ritmica brasiliana, al jazz e alla ricerca di un tono vocale più confidenziale.

La prima finalista a esibirsi è Lilo con il suo Gospel 121, un pezzo sperimentale che al contempo affonda le radici nella passione della cantautrice per la vocalità virtuosistica in generale. La sua parola totem – dice rispondendo alla domanda a bruciapelo di John Vignola– è «curiosità, perché ti permette di superare i limiti o cercare il perché delle cose, muove la musica e anche la vita».

È il momento di Zic, cantautore fiorentino che si definisce «appassionato di laboratorio», del lavoro in studio e del mondo cinematografico. Non passa inosservato il contrasto tra il look molto grunge anni Novanta, come nota Marcella Sullo, e la sua canzone vagamente sanremese, Futuro stupendo. Per lui la musica è accoglienza e sperimentazione, purché non ci si pongano limiti di genere.

Dall’ultima periferia a sud di Roma arriva Ilaria Argiolas col brano Vorrei guaritte io. La commistione tra dialetto, rock e tradizione popolare è proprio la cifra distintiva della cantautrice, ma anche ciò che rende davvero spontanea la sua musica. Un’artista di certo coraggiosa, come puntualizzano gli amici di Rai Radio 1, vista la scelta recente di pubblicare un album solo in formato fisico.

Spazio poi a Rosewood. Il cantautore ternano, classe 1996, porta alla finale il sound definito e ultra-contaminato di Sigarette: pop, punk, rock, trap, emo e persino heavy metal, in una performance fatta di opposti che, secondo Duccio Pasqua, «ci dimostra come parlare oggi di generi musicali non abbia molto senso».

La serata prosegue con un’altra incursione sul palco di Mario Venuti, che per salutare il pubblico del Persiani sceglie due dei suoi maggiori successi, Fortuna e Caduto dalle stelle, e una versione in acustico de Il mondo di Jimmy Fontana.

Deja è la proposta dei Frenesi, gruppo piemontese formatosi lo scorso anno fra le strade di una città piena di underground e artisti emergenti come Torino. Il segreto per far parte di una band, dice la frontwoman, è essere meno gelosi dei propri pezzi, aprirsi per accogliere altre menti e per modificare il proprio sound. «Il nome del gruppo – continua – significa fermarsi prima della frenesia, perché l’estremismo è sempre un guasto».

Da San Giustino di Perugia arriva il giovanissimo Michele Braganti, paroliere, studente di lettere all’università e anche polistrumentista. Ma l’arrangiamento de La migliore soluzione ha un’unica protagonista, la chitarra: «È lei – dice – la mia parola totem. È indispensabile, oltre che molto pratica». Lo stile melodico della sua performance crea un contrasto immediato con quella del penultimo finalista.

Mattia Ferretti, in arte solo Ferretti, fa confluire nella sua esibizione tre ingredienti principali: rap, rock e contraddizione, o meglio fastidio, la parola con cui ama descriversi, «perché è utile alla creatività e anche se a volte fa male, ogni tanto è una terapia». E in effetti Sorgono, il brano con cui il cantautore di Mogliano (Macerata) si presenta al pubblico recanatese, ha tutte le carte in regola per essere definito viscerale.

Caos e soul melanconico sono i tratti distintivi dell’ultima finalista della serata. cecilia arriva da Pisa e presenta al pubblico uno dei brani che fanno parte del suo prossimo progetto musicale: Lacrime di piombo da tenere con le mani, dice poco prima di lasciare il palco, «è il tentativo di dare il giusto ordine alle cose confuse nel mio cervello».

Il primo appuntamento recanatese di questa XXXIV edizione del Festival non può che concludersi con una foto di gruppo da aggiungere all’album dei ricordi di Musicultura.


 

A tu per tu con Mario Venuti

È stato Mario Venuti ad aprire la prima serata del concerto di presentazione dei finalisti di Musicultura 2023, portando sul palco del Teatro Persiani di Recanati la sua voce e una chitarra acustica. Un set intimo, raccolto; una testimonianza, anche, del rapporto di stima e collaborazione che unisce l’artista siciliano e Musicultura, grazie a un’amicizia nata tanti anni fa che continua nel tempo a regalare splendidi momenti di condivisione. Così, quello proposto ieri sera al pubblico del festival è stato un breve viaggio tra le mille possibilità della musica. Quelle stesse possibilità che confluiscono in questa intervista rilasciata alla Redazione di Sciuscià.

Sei un artista eclettico, autentico e di grande sensibilità. La tua visione dell’arte non segue le mode del momento, ma risponde a un’esigenza di verità e originalità di musica e parole. Quanto credi sia importante per chi partecipa a un concorso come Musicultura trovare la propria dimensione e portare sul palco la propria autenticità?

Avere personalità è sempre stato importante e continua a esserlo. Viviamo in un mondo in cui fare musica è diventato molto più democratico perché i mezzi tecnici a disposizione ci permettono più facilmente di registrare e diffondere la musica anche attraverso Internet. Per distinguersi nell’iperproduzione del panorama musicale contemporaneo, caratteristiche come la personalità e l’autenticità sono ancor di più elementi essenziali.

Hai viaggiato molto in America del Sud alla scoperta di mondi, musiche e culture lontane. Da queste esperienze, nel 2022 prende vita l’album Tropitalia, una reinterpretazione di grandi successi della musica italiana in chiave tropicalista. In che modo questo movimento musicale e culturale ha contribuito alla tua formazione artistica e personale?

Nei primi anni Novanta ho scoperto l’universo della cultura brasiliana e sono rimasto affascinato dalla musica di grandi personalità come Caetano Veloso e Gilberto Gil, autori di una generazione precedente alla mia, sostenitori di una grande rivoluzione musicale alla fine degli anni Sessanta. Mi sono subito ritrovato in questo linguaggio “onnivoro” che gioca con il passato e con il futuro attingendo da culture differenti. La maniera di cantare dei brasiliani è molto più confidenziale rispetto alla grande melodia italiana che risente ancora tanto di un retaggio melodrammatico. La musica è più intima e sembra togliere retorica alle canzoni. In Tropitalia ho cercato di coniugare gli aspetti migliori delle culture di questi due paesi solo apparentemente distanti. È stata una bella avventura rivestire la canzone popolare italiana di ritmi brasiliani e armonie sofisticate.

Sempre nel 2022, al Taormina Film Festival è stato presentato il docufilm Qualcosa brucia ancora, il racconto della tua vita dall’infanzia agli esordi nel mondo della musica, passando per l’esperienza con i Denovo fino alla carriera da solista. Com’è stato ripercorrere e soprattutto condividere con il pubblico tutta quella strada?

È stato come una seduta psicanalitica, un viaggio nel tempo, una liberazione quasi proustiana “alla ricerca del tempo perduto”. Di cose da raccontare ne avevo tante; non tutte sono riuscito a tirarle fuori.
È stato come fare un po’ il punto della situazione di tanti anni di musica, tante esperienze, tanti incontri con altri artisti con cui è stato bello collaborare e di questo mio vagare così inquieto nelle possibilità che la musica può dare. Spaziando tra vari generi, ho cercato di proporre sempre qualcosa di diverso al pubblico.

Ami condividere sui social i tuoi progetti artistici e musicali. Proprio dal tuo profilo Instagram hai annunciato che è in corso la preparazione di un nuovo album. Cosa dobbiamo aspettarci e quando potremo ascoltarlo?

È un disco complesso, stratificato con canzoni inedite scritte da me, Kaballà e altri autori. Una prosecuzione del discorso di Tropitalia, un’evoluzione del progetto che vede un ritorno graduale verso il pop e l’elettronica senza dimenticare la componente brasiliana. Il 19 di maggio uscirà il primo singolo a cui poi seguirà l’album completo.


 

Svelati i nomi dei finalisti di Musicultura 2023

Musicultura annuncia oggi i nomi dei 16 finalisti della XXXIV edizione del concorso che dal 1990 scopre, premia e valorizza giovani artisti in grado di contribuire all’evoluzione stilistica e al ricambio generazionale della canzone italiana di qualità.

Ecco i finalisti della XXXIV edizione del Festival:

Lamante Schio (Vicenza) – L’ultimo piano; Zic Firenze – Futuro stupendo; Lilo Busto Arsizio (Varese)- Gospel 121; Santamarea Palermo –Santamarea; cecilia Pisa – Lacrime di piombo da tenere con le mani; Caponetti Osimo (Ancona) – Maionese; Ilaria Argiolas Roma – Vorrei guaritte io; Michele Braganti San Giustino (Perugia) – La migliore  soluzione; Frenesi Torino –Deja; Nervi Firenze – Sapessi che cos’ho; Ferretti Mogliano (Macerata) –Sorgono; AMarti Ferrara –Pietra; Mira Casapulla (Caserta) – Morire con te; Rosewood Terni –Sigarette; Cristiana Verardo Lecce – Ho finito le canzoni; Simone Matteuzzi Milano –Ipersensibile.

Sono giovani artisti e artiste – è il commento del Direttore artistico Ezio Nannipieri – che con ispirazione, indipendenza, senso di dignità scardinano le logiche industriali della filiera produttiva della canzone, fanno entrare aria pulita in stanze chiuse, ognuno con una propria, spesso imprevedibile, specificità.

La rosa dei finalisti è frutto di una selezione articolata, iniziata nel novembre scorso con il vaglio delle 2.226 canzonipresentate in concorso dai 1.113 artisti iscritti, nuovo record di partecipazioni per il rinomato Concorso dedicato alla Canzone Popolare e d’Autore.
Fra tutte le proposte, 56 sono state poi convocate a Macerata per partecipare alle
Audizioni Live, di fronte alla commissione d’ascolto e al pubblico che per dieci giorni consecutivi ha gremito il Teatro Lauro Rossi, con dirette streaming che hanno superato il mezzo milione di visualizzazioni.

La presentazione ufficiale dei 16 finalisti di Musicultura 2023 avverrà in anteprima
nazionale il 4 e il 5 maggio a Recanati, la città leopardiana che vide nascere il Festival nel 1990, con Fabrizio De André e Giorgio Caproni primi firmatari del progetto.
Due concerti in programma al Teatro Persiani daranno modo ai giovani protagonisti del concorso – otto di loro nella serata del 4 maggio, i restanti otto in quella seguente – di esibirsi rigorosamente dal vivo con le loro canzoni e di raccontarsi al pubblico.

Le due serate saranno condotte da John Vignola, Marcella Sullo e Duccio Pasqua e trasmesse in diretta da Rai Radio 1, la radio ufficiale di Musicultura.
Non mancheranno anche importanti ospiti, già confermate ad esempio le gradite
partecipazioni di Mario Venuti (4 maggio), Dente e Mafalda Minnozzi (5 maggio). Riunire sullo stesso palco giovani artisti agli inizi delle loro carriere e protagonisti della canzone che hanno già alle spalle esperienze importanti è infatti un modo concreto per alimentare quel sano confronto espressivo intergenerazionale che rientra fra le finalità del progetto Musicultura.

L’evento aprirà anche un’importante finestra internazionale sulla Città dell’Infinito. Sull’onda della media partnership di Musicultura con la Rai arriverà infatti a Recanati una troupe di RAI Italia per seguire da vicino questo importante snodo del concorso. I servizi che verranno realizzati raggiungeranno i due milioni di utenti che l’emittente conta nei cinque continenti.

Le canzoni finaliste andranno a comporre il CD Compilation di Musicultura 2023 e passeranno in mano alla programmazione radiofonica di RaiRadio1.
Otto saranno alla fine i vincitori di Musicultura che si esibiranno con i prestigiosi ospiti italiani ed internazionali nelle serate di spettacolo finali del Festival il 23 e il 24 giugno allo Sferisterio di Macerata.