Intervista: nel mondo onirico di Emiliana Torrini & The Colorist Orchestra

Poteva mancare una grande icona del panorama musicale internazionale alla serata della finalissima di Musicultura? Certo che no! Così abbiamo accolto Emilíana Torrini, cantautrice islandese attiva dal 1994 e conosciuta dal grande pubblico per hit come Jungle Drum e Sunny Road. Ad accompagnarla sul palco c’è stata la The Colorist Orchestra: un ensemble di 8 musicisti belgi che spaziano da strumenti classici come il pianoforte, la viola e il contrabbasso a quelli più ricercati e insoliti come il flapamba, il calabash e le pietre. L’improvvisazione, la sperimentazione e l’entusiasmo di questa collaborazione hanno dato vita all’album The Colorist & Emiliana Torrini (2016): un concentrato di poesia sonora caratterizzato dal multistrumentalismo e dall’inconfondibile vox della Torrini.
Con quest’intervista noi della redazione di “Sciuscià” abbiamo parlato dapprima con Emilíana, passando poi a Kobe Proesmans e Aarich Jespers della The Colorist Orchestra per scoprire qualche curiosità in più sulla loro carriera musicale.

Sei islandese ma hai radici italiane da parte di tuo padre. In occasione del Festival della Canzone popolare e d’autore di Musicultura, la domanda sorge spontanea: ti è stato trasmesso l’amore per qualche brano o artista nostrano che potrebbe essere stato d’ispirazione per la tua carriera?

Non essendo cresciuta in questo paese, per me il concetto di “Italia” è sempre stato solo un’idea. Nella mia carriera ho messo quella che penso sia l’influenza italiana. Sono cresciuta ascoltando una lista di artisti jazz che sì, cantavano musica italiana, ma erano stranieri e i miei unici veri riferimenti sono sempre stati quelli della sfera artistica napoletana perché a mio padre piaceva moltissimo la musica anni Sessanta. Penso sia un’influenza enorme, ma si tratta più che altro di una persona italiana straniera che cerca di trovare le proprie radici.

Ascoltare le tue creazioni musicali è un po’ come catapultarsi in un mondo di atmosfere surreali e rimandi onirici accompagnati da grandiosi cambiamenti stilistici. Pensando al risultato di questo connubio, da dove parti nel processo creativo delle tue canzoni?

Improvvisazione. Con la The Colorist Orchestra è un ritrovarsi insieme, iniziare a suonare e rapidamente avere già l’immagine in testa. Un po’ come vedere il film di quello che si sta facendo prima di iniziare. Inoltre, siamo davvero liberi nella creazione: cominciamo con un tipo di canzone, ma non sappiamo dove andrà a parare. Accade e basta. Per esempio, un giorno ero nella vasca da bagno di un hotel e c’era un rubinetto rotto che ha iniziato a gocciolare dando vita a una sorta di musica jazz e, dopo averlo registrato, sono andata da loro e ho detto: “Penso che possiamo fare qualcosa con questo”. Volevamo suonarlo come se fosse uno strumento, ma non riuscivamo a trovare il ritmo per ricreare quel suono. Oggi, invece, la musica è arrivata a qualcosa di completamente diverso. Puoi iniziare da qualsiasi parte e non sai dove andrà a finire. Pensi di avere il controllo, pensi che le gocce te lo diranno, ma poi sparisce nella stratosfera e quindi devi solo iniziare il processo ed essere aperto mentalmente. Credo che ci siano due creatori: l’artista e l’ingegnere del suono. Quest’ultimo creerà tutto ciò che c’è di immaginabile utilizzando la prospettiva del “No, ma…”, mentre l’altro lavora con l’assenso.
Qualsiasi cosa tu proporrai, l’artista ti dirà: “Sì, proviamoci”. Ecco, si tratta di seguire il flusso e di non ricercare il controllo.

Nella tua vasta carriera internazionale spicca la tua interpretazione di The Gollum’s Song per la colonna sonora del film di Peter Jackson, Il Signore degli Anelli – Le due torri. Quali emozioni ti ha suscitato sentire la tua voce in un film-capolavoro come questo?

Per me è stato molto divertente e allo stesso tempo un esperimento vocale interessante, perché non mi sembrava di poter cantare in modo troppo angelico sapendo di starlo facendo per Gollum. Infatti, per far figurare tutta la tensione di quella scena, e tirare fuori il lato bello e il brutto del personaggio, ho cercato di cantare con un tono bello e brutto allo stesso tempo. Ovviamente i produttori che mi avevano contattato non si aspettavano rendessi il brano più grottesco, però per me è stata un’opportunità per sperimentare qualcosa di diverso.

L’ultimo album di Emilíana (ci rivolgiamo ora ai musicisti della The Colorist Orchestra, ndr) vede la vostra collaborazione. La particolarità sta anche nel fatto che si tratta di un album dal vivo: si rubano l’emozione del momento, i feedback del pubblico e anche l’errore mischiato all’improvvisazione. Indubbiamente un album ben riuscito, ma com’è nata l’idea di lavorare assieme?

Il nostro progetto ha un obiettivo specifico e consiste nell’invitare artisti a lavorare con noi per riarrangiare assieme loro brani, contaminandoli con le nostre sonorità. Diciamo che noi Colorist definiamo il nostro modo di “ricolorare” i brani cercando la linea sottile tra pop, classica e musica underground. Così è stato anche per Emilíana: l’abbiamo invitata a lavorare assieme su suoi brani già usciti e da questo è nata un’altra collaborazione con lei che prevede canzoni composte insieme sin dall’inizio.

Come definireste il vostro modo di suonare gli strumenti musicali?

Ci piace chiamarla “art brut”: se non hai la tecnica per suonare uno strumento allora sei libero di suonarlo come vuoi, come un bambino che gioca con i suoi giocattoli. Insomma, un’arte spontanea senza alcuna pretesa o forzatura. Lo stesso è per uno strumento che non conosci, perché devi prima scoprire il suono e inventarti un modo per usarlo. A noi piacciono le sorprese, non sapere dove andremo a finire, come un esperimento continuo.

Intervista: Ilaria Pilar Patassini torna sul palco di Musicultura

Artista senza frontiere, viaggiatrice e sognatrice, Ilaria Pilar Patassini ha esordito nel 2007 con il suo primo album intitolato Femminile singolare. Da lì la sua musica non si è più fermata, spaziando tra generi e culture, storie e viaggi. Quello stesso anno inebriava lo Sferisterio di Macerata con la sua Gente che resta, la stessa canzone che le ha permesso di vincere il premio finale di quella edizione di Musicultura. Dopo anni è tornata sotto quegli stessi riflettori a emozionare il pubblico, a lasciare messaggi d’amore e a raccontare un po’ di sé a noi della redazione di “Sciuscià”.

Leggendo la tua biografia è evidente che, oltre a un ovvio amore per la musica, una tua grande passione è il viaggio. Da cosa nascono queste tue passioni e cosa, secondo te, le unisce?

Per me la musica e il viaggio sono due cose congiunte. Chi vuole far musica deve per forza avere una vocazione al viaggio come senso dello spostamento, come senso reale di quello che si vive e di quello che si fa. I musicisti sono anche un po’ marinai. Io ogni volta non vedo l’ora di partire. Poi, giunta a destinazione, non vedo l’ora di ripartire per andare a suonare da un’altra parte. Se non viaggi non conosci, non ti distacchi dal posto in cui vivi, quindi non puoi vedere le cose da fuori. E questo è fondamentale per chi canta e per chi interpreta, come nel mio caso. Il distacco dal proprio posto è imprescindibile per poterne parlare, altrimenti si rischia di diventare assolutamente autoreferenziali. Se si parla del posto in cui si vive, della propria vita, non distaccandosene mai, è difficile riuscire a dare alla composizione un carattere universale. Sarà sempre troppo personale, quindi tenderà a parlare a molte meno persone possibili. Chi viaggia, conosce. Il viaggio non è solo un’azione fisica ma una forma di conoscenza. Anche leggere un libro è un viaggio, un atto di conoscenza per scoprire le storie altrui: se un interprete non conosce le storie altrui, come si racconta al pubblico? Per me il viaggio in sé è casa. Aspettare ai gate degli aeroporti o stare su un treno in movimento per me è casa. La considero una “droga legale”, ma alle volte anche una croce.

Sei stata una delle protagoniste di una trasmissione RAI intitolata Femminile Musicale, in un approfondimento dedicato alle problematiche presenti nella discografia italiana per le donne. Qual è il tuo parere a proposito?

Da madre di un bambino molto piccolo, posso dire che la maternità è ancora un handicap per le donne. Questa cosa per me non riguarda la politica ma proprio i diritti umani. Il sessismo e la discriminazione ci sono ancora e sono fortissimi. E io mi rendo sempre più conto del fatto che essere una donna abbia influito tantissimo nella mia vita professionale, umana e artistica. A farsi carico dei figli e del lavoro non retribuito non dovrebbero essere solo le donne. E finché questo non entra nella mente dei maschi, il divario non può essere colmato. Questo problema non si risolve mettendo gli asili nido negli uffici, se poi a portarseli dietro sono sempre e solo le donne. Il carico mentale gigantesco che noi donne abbiamo è da sempre la forma di ingiustizia più grande e scandalosa che esista al mondo. Secondo il libro meraviglioso di una sociologa, il lavoro di cura non retribuito nel mondo è al 75% sulle spalle di noi donne, e questo è un peso che appartiene solo a noi. Tutto questo, ovviamente, si riflette anche nel mondo della musica, come nel mio caso. A volte non riesco a dedicare il mio tempo allo scrivere canzoni perché devo pensare a tutte le faccende che riguardano la casa, mio figlio, eccetera. Alcuni passi avanti sono stati fatti ma non è ancora abbastanza. Se non ci si fa carico a livello comunitario di questo problema, non si risolverà mai. Fino ad arrivare al punto di cedere per stanchezza.

Hai collaborato con moltissimi artisti – per citarne qualcuno: Don Byron, Tosca, Neri Marcoré, Jean-Louis Matinier. In che modo ti hanno aiutato ad ampliare il tuo bagaglio artistico e culturale?

Collaboro in continuazione. Trovo stimolante poter condividere i miei lavori con altri artisti che stimo e che fortunatamente mi stimano. Questo mi fa sicuramente crescere. Adesso ho una collaborazione con Daniele di Bonaventura che è un bandoneonista marchigiano. Faremo uscire insieme un disco molto bello di world music realizzato insieme alla sua band storica. Ho anche una collaborazione con Geoff Westley, un direttore d’orchestra, con cui suono i brani di De André in chiave sinfonica. Spero poi di tornare in Canada per recuperare le collaborazioni che ho lasciato lì. Ci sono sempre delle collaborazioni all’orizzonte. Del resto da soli non si va da nessuna parte. Non siamo isole, al limite possiamo essere arcipelaghi!

Per quanto la cultura musicale contemporanea cerchi di inquadrare gli artisti all’interno di generi ben definiti, sembra che tu combatta proprio per evitare una sorta di inquadramento. Tuttavia, tra i tanti generi che tratti ce n’è uno che prediligi?

La bella musica: questo è il genere che prediligo.

La tua carriera discografica è cominciata nel 2007 e da lì non ti sei più fermata. Se potessi parlare alla Pilar di 15 anni fa, cosa le diresti?

Probabilmente le darei i consigli che mi sono stati dati ma che non ho mai ascoltato. Una mia insegnante, ad esempio, mi diceva di andare altrove, di espatriare, ma io, essendo troppo legata alle mie radici, non le ho dato mai ascolto. Amo troppo il mio paese e amo scrivere nella mia lingua, quindi sarebbe stato molto difficile per me andare lontano. Forse un altro consiglio che le darei è quello di stare attenta alle persone che ha intorno. Sì, un’altra cosa che le direi è proprio questa: “Cara ragazza, smettila di essere così educata e ogni tanto di’ qualche vaffanculo in più.”

RACCONTO: da La Controra ai vincitori assoluti

La sesta e ultima giornata di Musicultura inizia nel migliore dei modi: con un aperitivo. Per l’occasione, a raccontarsi al pubblico, guidati dalla conduzione delle voci di Rai Radio 1 John Vignola, Duccio Pasqua e Marcella Sullo, sono i quattro vincitori del Festival che hanno avuto accesso alla finalissima: i Malvax, THEMORBELLI, Yosh Whale ed Emit.

La Controra continua poi con Storie di straordinaria fonia. A presentare il libro è il suo autore, Rodolfo “Foffo” Bianchi, che nel volume guarda alla musica italiana dalla sua prospettiva, quella di musicista, produttore e ingegnere del suono, raccontandone cinquant’anni di storia con fatti, curiosità e aneddoti.
Spazio poi a L’angelo e la mosca: Commento sul teatro dei grandi mistici. Protagonista dell’evento è Massimiliano Civica, regista teatrale che spiega al pubblico che “Il teatro è una religione mistica che non ha dogmi e che mette al centro l’uomo”.

L’ultimo evento de La Controra? John Vignola è a A tu per tu con Manuel Agnelli. Piazza Cesare Battisti ospita così un grande volto della musica italiana che racconta aneddoti relativi alla sua carriera e dichiara: “È un’arte quella di perdere il controllo, quella di lasciare che la magia faccia accadere le cose”.

E quella stessa magia la ritroviamo sul palco dello Sferisterio, dove proprio Agnelli è tra gli ospiti della finalissima del Festival.
L’arena è gremita e accoglie con affetto Ilaria Pilar Patassini, ex vincitrice del Festival, che si esibisce con il suo brano Lascia ch’io pianga.

È poi la volta di Enrico Ruggeri, conduttore delle serate finali insieme a Veronica Maya, che con La rivoluzione anticipa l’ingresso in scena dei primi due vincitori del concorso.
Tra le poltrone e i palchetti, dalle gradinate alla platea, risuonano così le note di Esci col cane dei Malvax e di Vino di Emit.

È poi Gianluca Grignani a regalare ai presenti tre dei successi della sua carriera artistica – La mia storia tra le dita, Sogni infranti e La fabbrica di plastica – per poi lasciar spazio agli altri due vincitori del concorso: THEMORBELLI con il brano Il giardino dei Finzi Contini e gli Yosh Whale con Inutile.

E protagonista torna a essere lui, Manuel Agnelli, che regala allo Sferisterio, con un’intima performance chitarra e voce, Padania e Non è per sempre.

Ed è subito tempo di riconoscimenti: Il Premio della Critica Piero Cesanelli viene assegnato a Isotta; il Premio NuovoIMAE finisce nelle mani degli Yosh Whale.

A salire di nuovo sul palco, poi, è Ilaria Pilar Patassini, che si esibisce in due pezzi, Luna in ariete e Todo cambia di Julio Numhauser, prima di lasciar spazio a un’altra incredibile voce femminile, quella di Emiliana Torrini. Accompagnata dalla The Colorist Orchestra, l’artista islandese, per questa sua unica tappa italiana, regala a Macerata Jungle Drum, Mikos, Hilton e Blood red.

E infine, il grande annuncio: i vincitori assoluti di Musicultura 2022 sono gli Yosh Whale! Il gruppo salernitano riceve il Premio Banca Macerata di 20.000 € consegnato da Ferdinando Cavallini, Presidente dell’istituto di credito.

 

Intervista: Il “caos etnico” dei DakhaBrakha a Musicultura 2022

Da Kiev, Ucraina, i DakhaBrakha portano il loro “caos etnico” sul palco di Musicultura. Il progetto nasce nel Kyiv Center of Contemporary Art «DAKH», nel 2004, dalla geniale idea del direttore teatrale Vladyslav Troitskyi. Il gruppo è composto da Marko Halanevych, Iryna Kovalenko, Olena Tsybulska e Nina Garenetska. Con la loro musica, tradizione e contemporaneità si incontrano; l’aggiunta di ritmi e strumenti da tutto il mondo crea immagini suggestive ed evocative: ascoltarli è come viaggiare nel tempo e nello spazio.

Nel 2016, pubblicano The Road e si esibiscono in Italia, al Triennale Milano Teatro, nell’ambito della rassegna musicale Music after Music. Nel 2020, tornano con il loro ultimo progetto Alambari, album – dal look eclettico e intrigante – registrato nel 2019, che garantisce al gruppo il premio per la categoria “Musical Arts” nell’ambito dello Shevchenko National Prize del 2020.

Conosciamo meglio questo straordinario ensemble con la nostra intervista a Marko Halanevych.

Come creatori del “caos etnico”, avete unito alla musica folk ucraina i ritmi, le sonorità e gli strumenti tradizionali di diverse nazioni del mondo. Avete intenzione di sperimentare ancora in questo senso?

Siamo sempre pronti a sperimentare, ma per noi nulla è pianificato, non abbiamo strategie. Ci affidiamo al destino: se sentiamo di fare qualcosa, semplicemente lo facciamo.

Il vostro progetto è stato creato originariamente in e per il teatro, ma in seguito avete iniziato a esibirvi anche al di fuori. Quali sono le differenze riscontrate tra i diversi contesti?

Ci sono sicuramente energie diverse. Quando ci esibiamo a teatro è sempre una magnifica esperienza, è di grande impatto e ha forte influenza sulla nostra musica. Al di fuori di esso, percepiamo il contatto diretto con il pubblico, non ci sono muri, l’interazione è immediata. In fin dei conti, però, DakhaBrakha è DakhaBrakha proprio grazie al teatro.

La musica è unione, pace, armonia. Visti i recenti avvenimenti che riguardano il vostro paese e che hanno destato l’attenzione mondiale, quanto è importante per voi far circolare un messaggio di pace attraverso questa forma d’arte?

Certamente la pace in questo momento è il nostro sogno più grande, ma per noi non è il solo obiettivo da raggiungere; vogliamo vincere questa guerra affinché ci siano pene adeguate nei confronti di chi ha invaso un paese calpestando senza pietà i diritti umani di un’intera popolazione. Quindi non è solo una questione di pace, vogliamo giustizia. La luce vince sempre sulle tenebre.

Non è la vostra prima volta in Italia; come vi sentite a tornare nel nostro paese, sul palco di Musicultura, nella cornice dello Sferisterio di Macerata?

Conosciamo il pubblico italiano, amiamo profondamente questo paese e la sua cultura. Tuttavia, non sapevamo cosa aspettarci da questa esperienza, trovarci in un contesto così ampio come quello di Musicultura è stato, per noi, singolare e magnifico.

Il vostro nome, DakhaBrakha, significa “dai/prendi” in ucraino antico; sulla base della vostra lunga esperienza, la musica cosa vi ha fatto dare e ricevere?

La musica ci ha permesso di dare e ricevere energia alle e dalle persone; è uno scambio difficile da spiegare a parole. È questa energia che ci dà la forza di continuare a suonare. Non sappiamo quello che le persone riescono a percepire e ricevere perché noi ci troviamo dall’altra parte del palco, ma spesso ci è stato detto che la nostra musica è un ponte che collega il presente alla tradizione e al passato, evoca un tipo di emozioni mai sentite prima. Questo è di grande ispirazione e ci fa capire che stiamo facendo le cose nel modo giusto.

Intervista ad Angelo Branduardi ospite a Musicultura 2022

Quasi cinquant’anni di carriera e 50 album nel segno della sperimentazione, della ricerca, dell’esplorazione muovendosi tra musica antica, pop, folk. Angelo Branduardi ha scritto e cantato di filosofia, Medioevo e testi sacri e si è lasciato ispirare da Dante, dalla poesia russa e da Donovan e Cat Stevens. Ai microfoni di Musicultura, il Maestro fornisce una spiegazione chiara e illuminante della sua concezione di musica e del senso profondo che nascondono i suoi grandi successi, capi saldi degli ultimi 40 anni di musica italiana.
“Per spiegare cosa è per me la musica, faccio mie – dice – le parole del Maestro Ennio Morricone, che sosteneva che «essendo la musica l’arte più astratta, è la più vicina all’assoluto». Mi viene in mente anche un’altra frase, questa volta di Dante, che dice «Musica è rapimento. Non ha bisogno di spiegazioni» e, io aggiungo, neanche di critici. La musica è una componente fondamentale della vita e diventa terapeutica quando riesce a sconfiggere i dolori e la paura della guerra”.
Con grande partecipazione, ironia e senso dell’umorismo, risponde poi a un paio di domande della redazione di “Sciuscià”.

Quanto crede sia importante per le nuove leve del cantautorato italiano partecipare a concorsi come Musicultura?

Quello di Musicultura è un palcoscenico particolare e come tale può essere d’aiuto soprattutto a chi non fa musica immediata. Faccio un augurio sincero ai vincitori di quest’anno e ricordo loro che per essere riconoscibili all’interno del mondo della musica bisogna avere personalità, originalità, intelligenza e tanto carattere, altrimenti non si va da nessuna parte.

Quest’anno è uscito il libro Confessioni di un malandrino, autobiografia di un cantore del mondo. Che cosa ha significato per lei mettere per iscritto la storia della sua vita e della sua straordinaria carriera?

Più che un libro musicale, di cui non frega niente a nessuno, ho voluto fare un vero e proprio racconto come fosse un piccolo romanzo. Ho avuto una vita molto particolare, dal quartiere dell’Angiporto di Genova ad avventure delle più varie e fuori dall’ordinario; addirittura per un periodo sono stato il Piccolo principe delle prostitute. Ho avuto incontri straordinari, cominciando da Franco Fortini e arrivando a Pasolini, Fellini e a un sacco di altra gente con cui ho lavorato. È stata una vita interessante. Ovviamente data la mia età, non scriverò la seconda parte del libro, che comunque sarebbe stata la più scabrosa.

RACCONTO: da La Controra ai live all’Arena

Macerata si prepara a ospitare la quinta giornata del Festival oramai sempre più ricco di novità: narrazione, podcast, fotografia, scrittura e tanta musica!

Agli esordi delle serate di finalissima allo Sferisterio, nell’aria si sente profumo di novità e l’energia che solo la musica live sa dare. E ancora, tanta curiosità e condivisione agli immancabili eventi proposti da La Controra. La giornata si apre con lo speaker Filippo Ferrari e il conduttore radiofonico John Vignola che, tra scambi di esperienze, raccontano di podcast e di tutto ciò che gira intorno a questa nuova forma di comunicazione uditiva-non-visiva: “Il bello del podcast, soprattutto di quello indipendente, è che è un laboratorio personale, come un libro auto-pubblicato”.

Il pomeriggio tra le vie del centro storico maceratese si arricchisce di incontri: con il format di “Le parole che non ti ho detto”,  Ennio Cavalli intervista il giornalista Andrea Vianello. Un racconto toccante il suo, dal dolore e la fragilità di una malattia al cervello alla rinascita del linguaggio grazie al sostegno degli affetti più cari. Vianello racconta che per tornare a parlare c’è bisogno di amore, tanto amore. “Forse è proprio la carica affettiva, il trasporto insito in questa parola che è l’unico vero motore per vivere”.

La giornata prosegue con un’ulteriore intervista, questa volta alla cantautrice romana conosciuta sotto lo pseudonimo di Ditonellapiaga che si racconta a John Vignola confessando qualche particolare aneddoto della sua carriera artistica, esplosa anche grazie alla partecipazione allo scorso Festival di Sanremo. La giovane cantante si svela al pubblico maceratese: “Sento di avere ancora tanto da sperimentare e da imparare. Amo fare ricerca per la scrittura di un disco”.

È la volta di un altro ospite tanto atteso: il fotografo e critico musicale Guido Harari. Ad accompagnarlo nelle sue rivelazioni sono gli intervistatori Marcella Sullo di Rai Radio 1 e il giornalista de Il Giornale Paolo Giordano. Tra domande e curiosità del pubblico, Harari racconta di mille imprese fotografiche, di incontri mirabolanti con i più grandi miti della storia del panorama musicale, descrivendo il magico connubio che da decenni unisce il mondo della fotografia con quello della musica. Parla dei suoi anni ’90 e della spiccata volontà di creare delle autobiografie reali di memoria fotografica, come quelle dei cantautori Fabrizio De André e Giorgio Gaber.

Sul far del tramonto inizia lo show: tutta l’attenzione sull’Arena Sferisterio, per la finalissima della XXXIII edizione del Festival. È il gruppo ucraino dei DakhaBrahka a dare inizio alle danze, con il pensiero e il cuore rivolto alla propria terra.

Spazio ai giovani protagonisti della canzone italiana: Isotta è la prima finalista a esibirsi sul palco e inaugura gli otto brani concorrenti intonando Palla avvelenata. Seguono Valeria Sturba con Antiamore, THEMORBELLI con Il giardino dei Finzi Contini e Martina Vinci con cielo di Londra.

Tra le novità degli esordienti allo Sferisterio, una pausa con un grande classico della musica nostrana, menestrello della canzone italiana, il cantante genovese Angelo Branduardi. Dopo i brani Confessioni di un malandrino e Il dono del cervo, a sorpresa il maestro propone sul palco dell’Arena una rivisitazione de Alla fiera dell’est con una strofa in ucraino.

Si ritorna alla rosa degli 8 vincitori: i prossimi artisti a esibirsi sono Cassandra Raffaele con La mia anarchia ama te e i Malvax che interpretano Esci col cane. Con Vino, Emit coinvolge il pubblico dello Sferisterio con la sua settima proposta in gara. A terminare la fila degli otto sono gli Yosh Whale, band salernitana che calorosamente canta Inutile.

Ritorna, questa volta in live, la cantante Ditonellapiaga che accende gli animi dello Sferisterio con i brani Per un’ora d’amore e Chimica, cavallo di battaglia che l’ha resa celebre a seguito del Festival di Sanremo.

E poi, quando il rock chiama, i Litfiba rispondono! I brani Vivere il tempo, Il mio nome è mai più che Pelù dedica alle popolazioni dell’Ucraina, di Gaza e di Kabul, Lo spettacolo e El Diablo scatenano letteralmente il pubblico dell’Arena. Mauro Giustozzi e Graziano Leoni consegnano l’onorificenza per Alti Meriti Artistici alla rock band di Piero Pelù.

A seguire, è la volta del trio franco-mongolo-bulgaro de i Violons Barbares che fanno doppietta al Festival con ritmi etnici energici, sonorità  inedite e musiche baltiche che ammaliano il pubblico marchigiano in Arena.

In chiusura di serata, vengono assegnati i premi ai vincitori di Musicultura: il premio Miglior Testo viene consegnato dagli studenti dell’Università di Camerino e di quella di Macerata alla band Yosh Whale; il premio AFI invece viene assegnato a Isotta da Sergio Cerruti, presidente stesso dell’AFI (Associazione Fonografi Italiani). Regalo a sorpresa per la città: one-man show con Enrico Ruggeri e la sua esibizione in Arena.

Ci rivedremo nella seconda serata della kermesse? L’Arena si colora di azzurro con un quartetto tutto al maschile: Emit, THEMORBELLI, Malvax e Yosh Whale sono ufficialmente i quattro protagonisti della finalissima della XXXIII edizione di Musicultura 2022.

Intervista: Riconoscersi nella metamorfosi. Ditonellapiaga ospite a Musicultura 2022

Dalla recitazione alla musica, dalle lunghe tavolate di donne dei suoi ricordi d’infanzia alla copertina di Camouflage, dal palco dell’Ariston a quello dello Sferisterio. Margherita Carducci, in arte Ditonellapiaga, presta la sua voce in maniera fluida e versatile a diversi generi musicali e forme d’arte: pop, soul, r&b, jazz, monologhi teatrali e/o canzoni. Lo esprime bene il suo ultimo album, un ritratto della poliedricità di quest’artista che, come il camaleonte, ama sperimentare, assumere diverse sembianze e adattarsi, colorarsi di tante sfumature musicali quante sono le sue sfaccettature pur mantenendo sempre intatta e riconoscibile la sua identità. Questo il fil rouge che tiene insieme il suo passato da attrice, il suo presente da cantante e un futuro in cui, chissà, questi due lati di lei potrebbero sovrapporsi.
Prima di un’esibizione magnetica, o forse chimica, sotto i riflettori dello Sferisterio, svela in quest’intervista a tu per tu con la redazione di “Sciuscià” gli ingredienti della sua personale soluzione: una miscela composita di autenticità, ricettività e ironia.

Per i bambini esplorare la ferita è un’esperienza sensoriale di conoscenza, sebbene possa comportare anche l’imprevedibile incontro con il dolore. È questo il significato del tuo nome d’arte?

È un’interpretazione bellissima, complimenti. Il senso del mio nome d’arte è la provocazione, l’insistere e punzecchiare, ma sempre in maniera simpatica e bonaria. Però questa interpretazione è molto bella, perché si rifà a un altro aspetto della mia musica meno simpatico e sbruffone e più riflessivo e intimo.

Camouflage (2022) è il titolo del tuo album d’esordio, che oltre a simboleggiare l’eclettismo del camaleonte, è una tecnica di trucco volta a nascondere gli inestetismi. Che rapporto hai con il trucco e con la tua immagine?

La tecnica del camouflage consiste nel nascondersi; nell’accezione del disco, però, non si tratta di nascondersi ma di adattarsi. A me piace molto sperimentare con il trucco. Per tanto tempo, soprattutto al liceo, non ho accettato il mio viso struccato: ero abituata a indossare tanto trucco perché mi divertiva, però a un certo punto questa cosa mi è sfuggita di mano e non riuscivo più a vedermi struccata. Adesso il rapporto con la mia immagine è cambiato: sono molto a mio agio con la me senza trucco, però al tempo stesso trovo che anche questa sia una forma d’arte e mi diverto molto a sperimentare e giocarci.

Il duo con Donatella Rettore sul palco dell’Ariston e la copertina dell’album appena citato, che ti vede circondata da donne meno giovani di te, mostrano una forte impronta femminile intergenerazionale. Che messaggio volevi lanciare con questa scelta?

Non era voluto, ma effettivamente forse è stata una scelta inconscia e spontanea. Io ho dei grandi riferimenti femminili nella mia famiglia, soprattutto da parte di madre sono quasi tutte donne. Mia madre, mia nonna, le amiche di mia nonna: sono tutte donne che vedo fin da quando ero bambina e a cui si legano i miei più bei ricordi d’infanzia. Ho quest’immagine nella mente di loro che stavano a casa e giocavano a carte tutte insieme. Sono da sempre abituata a vedere scene di donne numerose, solidali e unite tra loro. Inevitabilmente anche il mio disco ha una componente femminile così segnata e quindi forse l’ho voluta inconsciamente evocare anche nella copertina.

Sei laureata in teatro al DAMS. Quanto ha inciso la recitazione sulla tua musica? Hai mai pensato, in futuro, di fondere queste due passioni in un’unica forma d’arte?

Il teatro ha inciso molto sulla mia musica, perché prima di finire l’accademia scrivevo male; poi la mia scrittura è maturata con e grazie alla recitazione, risentendo della sua influenza. Molti miei pezzi sono un po’ teatrali, a volte quasi dei monologhi. La recitazione ha inciso molto soprattutto sull’interpretazione e sull’immaginazione, perché fare teatro apre tantissimo l’immaginazione. In futuro mi piacerebbe lavorare di più sui videoclip a livello recitativo, anche se è un esercizio difficile che richiede molto impegno e i videoclip, invece, vanno realizzati in poco tempo. Però, sarebbe bello intraprendere un progetto di questo tipo in futuro.

Osservando il tuo rapporto con i social, mi sembra che per te siano importanti il contatto e l’interscambio di energie tra artista e pubblico. Cosa ti piacerebbe ricevere dal pubblico dello Sferisterio e cosa, invece, vorresti lasciargli?

Mi piacerebbe ricevere “du’ applausetti”! Di base secondo me si tratta sempre di uno scambio di energie: io devo dare energia al pubblico e se il pubblico la percepisce – anche se dipende da che tipo di pubblico sia: ci sono dei pubblici ricettivi e dei pubblici un po’ più rigidi – la assorbe e poi te la restituisce. Di solito più sei energico tu e più la gente percepisce questa cosa e te la ridà indietro. Quindi spero che anche qui allo Sferisterio ci sia uno scambio di good vibes, di energie positive!

Mi sembra che nella vita, oltre che nella musica, stemperi anche le emozioni più profonde con leggerezza e divertimento. Che valore ha per te l’ironia?

L’ironia per me è un po’ uno stile di vita. Per tanto tempo ho avuto un po’ paura delle mie emozioni, quindi, reagivo sminuendole, ridendoci su o non parlandone. Però credo che anche le tragedie, a loro modo, siano comiche. Secondo me, osservandole con distacco e non nel momento in cui si sta soffrendo, ci si rende conto che si può ridere anche delle cose tristi, che non significa sminuirle ma guardarle da un’altra prospettiva. Naturalmente esistono anche delle cose molto serie sulle quali è meglio non scherzare e che bisogna invece affrontare con altrettanta serietà. In generale, l’ironia è un modo un po’ più leggero di vivere la vita, di scherzarci su e reagire positivamente al negativo. Io me la vivo meglio così!

Intervista: Il giro del mondo in musica con i Violons Barbares, ospiti a Musicultura 2022

Che cosa hanno in comune un violinista bulgaro, un cantante mongolo e un percussionista francese? È quello che abbiamo cercato di scoprire in quest’intervista ai Violons Barbares (Dimitar Gougov, Dandarvaanchig Enkhjargal e Fabien Guyot), trio internazionale che porta in giro per l’Europa i “ritmi galoppanti” prodotti dai loro strumenti tradizionali: la gadulka bulgara che assomiglia a una ghironda medievale e il morin khuur, una sorta di viola bicorde che affonda le sue radici nelle società nomadi delle steppe asiatiche. A questi si aggiungono percussioni di ogni tipo – tamburi arabi e mediterranei, scodelle, scatole, bottiglie, gong e bonghi – e le tecniche del canto gutturale. Ma nei loro tre album – Violons Barbares (2010), Saulem Ai (2014) e Wolf’s Cry (2018) – non si trova solo musica tradizionale o popolare: al contrario, emergono il rock, il jazz e perfino il metal, il tutto accompagnato da un ritmo davvero travolgente.

Tre nazionalità, tre culture, tre esperienze musicali diverse. Com’è nato il gruppo? Soprattutto, come avete fatto a trovare il vostro comune denominatore?

Io (Dimitar Gougov, gadulka ndr) abito a Strasburgo dal 2000. Anche il percussionista Fabien abitava a lì, quindi ci conoscevamo già. Qualche anno dopo sono stato invitato in Germania per partecipare a un festival che riuniva tante nazionalità diverse: i colleghi venivano dalla Cina, dalla Mongolia, dall’India, dall’Afghanistan, dall’Iran e dalla Turchia oltre che da tutta Europa. Il progetto si chiamava La via della seta e con questi musicisti abbiamo fatto cinque, sei concerti durante l’estate. In quel gruppo – che in realtà non era un vero gruppo, ma si era unito solo per il progetto – ho incontrato Epi (Dandarvaanchig Enkhjargal, morin khuur ndr). Grazie a lui ho conosciuto per la prima volta la tecnica del canto grave armonico, di cui non avevo mai sentito parlare, e del canto acuto khöömii. In più ascoltando il suo morin khuur, ho notato che suonava nella mia stessa tonalità. Le corde ricordavano molto quelle del mio strumento, però erano più gravi. Così mi sono detto: «Si possono combinare molto bene insieme. Possiamo creare un gruppo».

La musica spesso viene etichettata: gli artisti sono accostati a un genere preciso e il pubblico pensa già a cosa doversi aspettare dalle loro creazioni musicali. Il vostro tratto distintivo, invece, è la contaminazione. Quanto lavoro è dedicato alla ricerca e quanto all’improvvisazione per ottenere questo effetto?

Ognuno di noi ha appreso la musica tradizionale nel proprio paese. Di conseguenza, in Francia e in Germania, io ed Epi siamo automaticamente classificati nella “world music”. Ma è solo il punto di partenza, perché alla fine ci ritroviamo a festival di musica tradizionale o anche di impronta più attuale, ai festival di musica classica, jazz, rock e metal. Ti rendi conto che puoi suonare dolcemente, ma anche trasmettere molta energia ed è questo alla base della nostra voglia di fare. Certo, partiamo dai nostri strumenti tradizionali, ma quando ci riuniamo cerchiamo di creare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo, di andare al di là di ciò che abbiamo già imparato. Non è una vera e propria fusione: facciamo un’altra musica. Io suono la gadulka e ora anche il morin khuur. Adesso cantiamo tutti alla maniera mongola. Ognuno di noi, inoltre, ascolta musica molto diversa e questo aiuta enormemente per il futuro, per avere delle idee e dei pezzi che escono dalla tradizione e da un genere preciso.

In che senso i vostri strumenti sono “barbari”?

Ho chiamato questo gruppo Violons Barbares perché è qualcosa di impossibile. Un violino non è barbaro; un violino è il contrario di barbaro. Lo sapete, è fatto in Italia, a Cremona. Volevo che il nome saltasse all’occhio. Quelli che suoniamo, in realtà, non sono violini, ma i loro antenati. L’aggettivo “barbari”, allora, rimanda al fatto che sono strumenti di altri popoli, anticamente chiamati “barbari”.

Spesso nei vostri brani prevale la musica rispetto al testo. Anche l’utilizzo della voce per creare effetti polifonici suggerisce una propensione ai suoni piuttosto che alle parole. Nei vostri pezzi è più importante il significato o il significante?

Fino a ora, per i primi tre album, non ci siamo preoccupati tanto dei testi: molti venivano dalla tradizione, altri li abbiamo scritti noi. È vero, negli scorsi anni ci siamo soffermati maggiormente sulle sonorità e su tecniche di canto particolarmente espressive, che ci permettevano di evocare determinate sensazioni e di rendere la performance più suggestiva. Attualmente stiamo preparando qualcosa di diverso: sono delle canzoni a tema e tutti i testi ricoprono un ruolo davvero importante. Li abbiamo scritti in bulgaro, mongolo tedesco e inglese; per la prima volta anche in francese. Perché 5 lingue? Volevamo farci capire un po’ di più.

La natura è un tema ricorrente della vostra produzione. La canzone Wolf’s Cry si interroga sull’ambiente e sull’eredità da lasciare alle prossime generazioni; Fabien fa anche parte del progetto Furieuz Casrols, che utilizza percussioni riciclate; il canto gutturale trae origine da un profondo contatto con la natura; nel 2018 vi siete perfino esibiti all’interno delle grotte di Lascaux. In qualche modo la vostra musica aspira a una dimensione primitiva e primordiale?

Il nostro collega mongolo Epi è molto colpito da ciò che sta accadendo nel suo paese. Fino a poco tempo fa lì la gente viveva in armonia con la natura, era nomade e si spostava secondo i ritmi dell’ambiente circostante. Invece negli ultimi anni le persone hanno iniziato a sfruttare indiscriminatamente le risorse della terra: Epi vede ciò e prova una grande tristezza, così ha voluto inserire questo tema nelle canzoni. Aspirare a una dimensione primordiale? È da vedere, perché comunque anche i temi dei brani cambiano e non posso dire che siamo un gruppo impegnato sulle questioni dell’ecologia. Anche noi ce ne siamo occupati, certo, ma credo ci siano altri che lo fanno molto meglio di noi.

RACCONTO: il giovedì targato La Controra 2022

La Controra di Musicultura continua e il primo ospite della giornata di ieri è Ennio Cavalli. Nel cortile del Palazzo Comunale lo scrittore, poeta e giornalista presenta le sue ultime fatiche letterarie: la raccolta di poesia Amore Manifesto e il romanzo Parabola di un filo d’erba. In quest’ultimo, centrale è il tema della vecchiaia, che secondo l’autore “altro non è che l’insieme degli anelli della giovinezza”.

Spazio poi al secondo ospite, il regista e autore televisivo Duccio Forzano. È possibile imparare a incassare i colpi più duri e non smettere di credere, nonostante ciò, nell’occasione della propria vita? La risposta, positiva, è contenuta proprio nel romanzo di Forzano, Come Rocky Balboa. “Nel mio caso – si legge nella quarta di copertina – le delusioni e la sofferenza mi hanno messo a dura prova fin da piccolo, ma in qualche modo sono riuscito a trasformare tutto quel dolore e tutti quegli ostacoli nell’energia positiva che mi serviva per andare avanti e per raggiungere obiettivi che chiunque avrebbe considerato irraggiungibili”.  È la storia della sua vita, insomma, quella che il regista racconta tra le pagine e al pubblico di Musicultura in compagnia del conduttore radiofonico John Vignola; è una storia portatrice di un messaggio di rivincita che vale esclusivamente a una condizione: “è possibile concretizzare i propri sogni solo se ci si crede davvero.”

Per la serata protagonista torna a essere la musica con il concerto dei Violons Barbares. Con l’esibizione del gruppo Macerata si trasforma nella Ulan Bator del XVIII secolo; o magari nella Parigi dell’epoca degli Impressionisti; o forse nella Bulgaria di fine Ottocento. Insomma, grazie alla performance della band il tempo e lo spazio si annullano. E per un attimo tutto è “qui e ora”, “hic et nunc”, grazie alla gadulka, i violini, le percussioni, il canto armonico.

Ma non è tutto qui. Perché nel frattempo, nel cortile di Palazzo Buonaccorsi, uno dei più grandi discografici della musica italiana viene omaggiato con la proiezione di un docufilm di Roberto Manfredi, Nanni Ricordi, l’uomo che inventò i dischi. E che produsse i lavori, solo per citarne alcuni, di artisti del calibro di Umberto Bindi, Gino Paoli, Luigi Tenco, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Sergio Endrigo e Ornella Vanoni, scrivendo la storia del cantautorato nostrano.