INTERVISTA – A La Controra di Musicultura il “Progetto Infinito” di Gianmaria Coccoluto

Artista romano, classe ’94, figlio dello storico dj Claudio Coccoluto, sin da giovanissimo Gianmaria decide di seguire le impronte del padre esibendosi come dj e sviluppando rapidamente una grande passione ed un particolare talento per la musica elettronica. I suoi mix e le sue produzioni racchiudono svariati stili che viaggiano dalla musica house alla techno. A La Controra di Musicultura presenta un lavoro dedicato al padre chiamato Progetto Infinito, una sorta di “archivio Coccoluto”. “L’obiettivo – spiega Gianmaria – è quello di pubblicare tutta la musica che mio padre non è riuscito a divulgare”. In quest’intervista, racconta il suo percorso artistico e il suo desiderio di mettersi in gioco in maniera consapevole con la musica.

Nel tuo caso possiamo realmente parlare di genetica musicale: quando hai cominciato a capire che il mondo dei piatti e del mixer sarebbe stato la tua strada?

Ho iniziato a mixare musica per piacere, ma anche per necessità. All’inizio ero il dj delle feste di compleanno dei miei amici. Col tempo ho sentito il bisogno di avere la libertà di poter scegliere brani diversi consequenzialmente l’uno all’altro per poter produrre emozioni diverse; quando ho iniziato a sentire quella libertà, ovvero la capacità di suscitare delle emozioni, prima che negli altri in me stesso, con la musica che mi piaceva, ho compreso che questa era veramente la mia passione.

Negli ultimi anni, prima dello stop dettato dalla pandemia, ti sei esibito in molti club, sia in Italia che all’estero; quali similitudini e/o differenze hai riscontrato tra il pubblico del bel Paese e quello estero quanto a gusti musicali?

Ogni nazione ha il suo sound rappresentato dalla tendenza di quel momento; solitamente si tratta di macro generi facilmente catalogabili che ruotano attorno alla musica elettronica e ai posti in cui prende luce. La differenza più grande tra l’Italia e l’estero, e più in generale tra tutte le nazioni, è il modo di fruire la musica e il ballo. Per esempio, in Germania i club non hanno necessità di chiudere, possono restare aperti e mettere musica per una settimana continuativa; questo dà sicuramente l’idea di un tipo d’intrattenimento differente da quello dell’Italia, ancora abituata al clubbing relativo ad una sola notte, quindi con una durata limitata. Cambia anche il modo di divertirsi delle persone ed è molto interessante notare questi dettagli.

Gianmaria Coccoluto

Oltre a gestire la storica etichetta The Dub fondata da tuo padre, nel 2015 hai lanciato la Tête Records; come è nata l’esigenza di realizzare la tua label e qual è l’obiettivo che questo giovane progetto si prefigge di raggiungere?

Nel 2015 avevo voglia di iniziare a pubblicare musica composta da me e volevo fare di questa etichetta discografica un contenitore appunto della mia musica e della mia figura come producer, in modo che potessi sperimentare e commettere errori; è stata una sorta di playground ma adesso è ferma, “congelata”, perché ho raggiunto nel tempo un’altra consapevolezza musicale. Attualmente sto per cominciare un nuovo progetto con una nuova etichetta discografica che rappresenta artisticamente un me stesso più maturo rispetto a quegli anni. Adesso ho 27 anni, in confronto a quel periodo sento di mettermi in gioco in una maniera più profonda e più completa.

Ho letto che possiedi circa quattromila vinili. Considerando che oggi la musica si ascolta principalmente attraverso altri tipi di supporti, pensi sia possibile una sorta di rieducazione all’ascolto musicale di qualità, in particolare per le nuove generazioni?

In realtà i vinili sono molti di più, all’incirca tra i sessantamila e gli ottantamila. In tanti mi pongono questa domanda perché ora sono anche custode della collezione di mio padre. Spero davvero che avvenga qualcosa per rieducare l’ascolto musicale, chiaramente cambiato grazie ai servizi streaming. Al giorno d’oggi la fruibilità della musica è eccezionale, possiamo riascoltare un brano tutte le volte che vogliamo, in tutti i supporti e in una qualsiasi situazione. Un’educazione all’ascolto analogico come quella del vinile è un’educazione in cui l’ascoltatore è costretto a stare fermo in un posto, concentrato. Ultimamente c’è un ritorno al vinile e diverse persone si sono ricordate il feeling di comprare un disco, di guardare la copertina, di mettere e togliere il disco; è sempre un gesto molto affascinante che ti permette di toccare qualcosa di emozionante. Personalmente fruisco della musica in entrambi i modi, mi sento abbastanza completo dal punto di vista sia dell’educazione che della fruizione musicale e spero che anche le nuove generazioni possano avere l’opportunità di nutrire un legame con l’alta fedeltà.

È un conclamato divoratore di dischi, quindi la sua presenza qui a Musicultura stimola la mia curiosità riguardo al tema del cantautorato: c’è, appunto, qualche cantautore italiano a cui è particolarmente affezionato?

Tutti. Amo il cantautorato e la maggior parte dei cantautori italiani, che fanno parte della mia visione del mondo e della musica. L’album che sto ascoltando di più in questi ultimi giorni è “Il nostro caro angelo” di Battisti.

INTERVISTA – Venticinque anni di carriera sul palco dello Sferisterio: i Subsonica a Musicultura

Hanno accompagnato intere generazioni con le loro note, facendole scatenare al ritmo di grandi successi; hanno saputo creare un sound tutto loro, ritagliandosi un posto di diritto nella hall of fame della scena alternativa italiana; ora, in occasione del loro venticinquesimo anno di attività, il palco di Musicultura inaugura il tour dell’estate 2021. Sì, stiamo parlando proprio dei Subsonica. E sì, ovviamente li abbiamo intervistati. Così con Boosta abbiamo ripercorso quel quarto di secolo di carriera.

Venticinque anni di carriera alle spalle. Vi era mai capitato di stare lontani dal palco per così tanto tempo? Quanto siete carichi all’idea di poter finalmente tornare a esibirvi dal vivo dopo un anno come quello appena passato?

Sicuramente è la prima volta che rimaniamo così tanto fermi per un motivo così grave e per una finestra così drammatica che ha minato tante delle certezze che abbiamo sempre avuto. In realtà ogni volta che finisce un tour ci prendiamo del tempo per noi, quindi siamo abituati a stare l’uno lontano dall’altro. Certo è che il rientro sul palco insieme, dopo questo stop dovuto alla pandemia, il cui inizio tra l’altro è coinciso con la partenza del nostro tour, significa per noi ricucire il filo che si era spezzato un anno e mezzo fa.

Ad aprile dello scorso anno è uscito Mentale Strumentale, un album registrato nel 2004 ma pubblicato ben sedici anni dopo. All’epoca fu ritenuto troppo sperimentale e addirittura ancora oggi suona come un disco venuto dal futuro. Qual è il segreto dei Subsonica per anticipare i tempi?

Non c’è un segreto particolare. Credo che ci siano invece una serie di strumenti che sono fatti di urgenza, di amore e passione per quello che facciamo. Abbiamo sempre lavorato a tutto quello che abbiamo scritto con grande voglia di suonare ciò che ci piace. Finché rimane quell’assunto direi che va tutto bene. Non ci sono ricette particolari, anche perché la musica è davvero un’alchimia curiosa.

Il vostro essere all’avanguardia è testimoniato anche dal successo registrato da Microchip Temporale, la riedizione a 20 anni di distanza di quello che probabilmente è stato il disco più iconico dei Subsonica: Microchip Emozionale. Oltre a comprendere le collaborazioni con alcuni degli artisti più influenti dell’attuale panorama musicale italiano, il disco è stato completamente riarrangiato rispetto all’originale del 1999. Quanto è stato difficile riadattare le sonorità di allora alla contemporaneità e alle corde dei vari artisti con cui avete collaborato?

Ci ha lasciato una grande libertà perché buona parte del lavoro è stata fatta insieme agli altri artisti. L’elemento più affascinante è stato vedere come, per un disco scritto venti anni prima, sia stata molto consonante l’urgenza che avevamo all’epoca con l’urgenza dei musicisti contemporanei. Anche se sono passate generazioni di musicisti in mezzo, noi abbiamo scelto anche anagraficamente musicisti che avessero adesso la stessa età che noi avevamo allora. Vuol dire che una sorta di vibrazione c’è e rimane uguale nel tempo e passa orizzontale. Per risponderti dunque ti dico che non è stato complicato ma è stato bello. La musica ha questo grande privilegio di poter essere sempre plasmabile in base alla sensibilità dell’artista del momento.

Avete da sempre dimostrato grande attaccamento alla città che ha dato i natali ai Subsonica: Torino. Il capoluogo piemontese, definito anche “La Hollywood italiana”, ha sempre voluto porre l’accento sull’aspetto culturale del proprio territorio, dando ampio spazio non solo al cinema, ma anche ad alcuni degli eventi musicali più importanti d’Italia e d’Europa. Quanto è importante dunque il contesto di provenienza affinché un artista possa esprimere al meglio le proprie potenzialità?

Non posso dirti quanto sia importante per gli altri. Posso invece dirti quanto sia stato importante per noi rispondendoti che probabilmente i Subsonica non sarebbero stati i Subsonica senza la città di Torino. Ma non tanto la città in sé quanto la città nel momento storico in cui siamo nati e l’abbiamo vissuta. Anche lì c’è appunto stata una serie di ingredienti che si sono mescolati nel modo giusto.

Qual è il consiglio che i Subsonica si sentono di dare agli 8 artisti in concorso a Musicultura che si contendono il titolo di vincitore assoluto?

Ricordarsi sempre che la musica dovrebbe essere fatta quando hai urgenza e necessità di farla, perché è solo così che diventa indispensabile. Se poi è indispensabile per te inevitabilmente sarà indispensabile per qualcun altro.

INTERVISTA – “La sensibilità umana è una, anche al di là delle definizioni”: Antonella Ruggiero a La Controra di Musicultura 2021

Ospite de La Controra, Antonella Ruggiero inebria Piazza Vittorio Veneto, a Macerata, con la sua voce inconfondibile.
Una lunga carriera dalle diverse sfumature, dalla musica elettropop e pop con lo storico gruppo dei Matia Bazar alle sperimentazioni musicali dei suoi album da solista – Libera, Amore lontanissimo, Contemporanea Tango – a Cattedrali, disco di musica sacra.
A caratterizzare la sua figura è un profondo senso di libertà e bellezza. Così si racconta in un’intervista alla redazione Sciuscià.

La sua carriera è cominciata da solista con lo pseudonimo di Matìa, da cui deriva anche il nome dei Matia Bazar, gruppo con il quale ha prodotto brani di successo che hanno accompagnato diverse generazioni. Ci parla del suo debutto?

Sono salita su un palco senza alcuna prova, senza alcuna volontà di fare ciò che faccio tuttora dopo tanti anni. La mia idea era quella di occuparmi di arti visive, invece con i ragazzi che ho conosciuto ai tempi, e che sono diventati parte del gruppo, siamo partiti all’avventura e non ci siamo fermati per quattordici anni fino a quando ho deciso, per sette anni, non tanto di smettere di occuparmi della musica ̶ perché quella l’ho sempre frequentata e amata ̶ quanto di allontanarmi da quel tipo di mondo, per poi riprendere nel ’96 con altri significati che ho voluto dare alla musica.

La musica lirica ha accompagnato la sua attività musicale per diverso tempo, rendendola protagonista, nei primi anni del 2000, di spettacoli all’interno di importanti teatri d’Italia. Qual è il suo rapporto con la scena?

La scena in fondo è il luogo del mio lavoro, della mia espressività. Ogni settore ha il suo lavoro e questo è il mio ambito naturale e inevitabile. Devo dire che non sono mai stata malata di palcoscenico, semplicemente è il mio luogo di lavoro.

Antonella Ruggiero

Il suo nome è associato a diversi generi musicali, dalle melodie medievali al pop, dal progressive rock al rhythm and blues, fino ad arrivare, lo abbiamo detto poco fa, alla lirica. Immagino quindi che “curiosità” e “sperimentazione” siano due parole a cui è molto affezionata. Ecco, quali sono le altre parole a cui Antonella Ruggiero tiene particolarmente, sia dal punto di vista professionale che da quello umano?

Sicuramente “libertà” – di pensiero, di espressione – e “sincerità”, cose per me necessarie nei rapporti con le persone con cui collaboro. Diciamo che frequento un’umanità che mi piace, proprio perché ha queste caratteristiche. E poi “impegno”: le persone – soprattutto i giovani – devono pensare che bisogna impegnarsi nel proprio lavoro, qualsiasi esso sia, e non pensare che prendendo delle strade facili, delle scorciatoie, si possa raggiungere una lunga carriera. Se vuoi lavorare in certi ambiti, in tempi lunghi, ti devi impegnare, come è sempre stato. Le scorciatoie servono a poco.

La sua carriera è costellata di diverse sfumature artistiche, che comprendono – pensiamo ad esempio al film documentario Un’avventura romantica, del 2016 – anche il cinema. Qual è il fil rouge che unisce queste forme di espressione?

È la bellezza delle cose, può trattarsi di cinema, teatro, danza, pittura, scrittura o musica, basta che ci sia quello che ognuno di noi vede come bellezza. Quello che piace a me può non piacere assolutamente a te e viceversa; ognuno nella sua mente ha le sue preferenze. Il mondo è veramente pieno di input e sollecitazioni, basta aver voglia di trovare quella che più si avvicina alla tua personalità, al tuo sentire le cose.

La sua voce è come cristallizzata, sembra resistere immutata agli anni che scorrono. C’è una cosa però che inevitabilmente, di concerto in concerto, cambia: i volti di chi assiste agli spettacoli. Ecco, qual è il suo rapporto con quei visi? Qual è il suo rapporto con il suo pubblico?

È vero che ogni persona ha delle caratteristiche ben precise ma per me c’è l’essere umano davanti e non la moltitudine. La sensibilità umana è una, quindi va bene anche al di là delle definizioni. La libertà è proprio quella di esprimere se stessi in ogni modo, possibilmente senza paura, anche se questa società può essere molto pericolosa per chi agisce con libertà. Non siamo così evoluti da accettare le caratteristiche umane per come sono, evitando quelle negative ovviamente. Evitando le persone negative e cattive dentro che fanno e hanno sempre fatto cose orrende nel mondo.

INTERVISTA – “Non sono un corridore che scrive ma uno scrittore che corre”: Mauro Covacich ospite a La Controra di Musicultura

Nel pomeriggio della quarta giornata de La Controra, in collaborazione con Overtime Festival, Musicultura ospita lo scrittore Mauro Covacich. Collaboratore de Il Corriere della Sera e ideatore di documentari radiofonici, nel 2017 Covacich riceve il «Premio Selezione Campiello» e il «Premio Brancati» grazie al romanzo La città interiore. Numerose le sue opere di successo, tra cui ricordiamo A perdifiato, Prima di sparire,  A nome tuo e il recente Di chi è questo cuore. Dopo la presentazione al pubblico maceratese del suo ultimissimo romanzo Sulla corsa, pubblicato da La Nave di Teseo nel 2021, l’autore triestino si è raccontato così alla redazione di Sciuscià.

Musicultura è un salotto che ospita ogni anno decine di menti, personalità e storie. Attraverso la propria arte, ogni ospite del Festival ci racconta in qualche maniera un pezzetto della propria storia. Come approccia uno scrittore e giornalista, che è abituato a raccontare le storie altrui, a uno spazio del genere?

Sono un po’ abituato; in realtà non sono un giornalista, non lo sono mai stato non avendo la tessera giornalistica, ma collaboro con il Corriere. Oggigiorno, i festival sono una boccata d’ossigeno per chiunque scriva o faccia musica. È un modo per riprendere a parlare e a respirare, insomma, a incontrare i lettori. È una cosa che a me ha sempre fatto molto piacere, e ora dopo il Covid a maggior ragione.

Restiamo in tema di racconto. Anzi, parliamone proprio con un suo lavoro. La città interiore – libro col quale ha vinto il «Premio Selezione Campiello» e il «Premio Brancati» – è un romanzo in cui la memoria ha la meglio. In che modo raccontarsi, e raccontare al passato, può incidere sul futuro?

In termini di consapevolezza forse. In una certa fase della mia vita ho capito di dover scrivere quel libro perché era il giusto riconoscimento dei debiti che avevo non soltanto verso le persone, ma anche rispetto agli autori e ai luoghi. Quel romanzo è una specie di topografia della mia mente: la città interiore del libro non è Trieste, come tanti potrebbero pensare, ma è proprio la mia mente, nella quale ricostruisco i rapporti con le persone che ho amato di più e, allo stesso tempo, anche con i grandi autori come Joyce e Svevo. È un modo forse per essere consapevoli verso il futuro.

Torniamo al presente. Siamo ormai immersi nell’era digitale e i rapporti umani non sono necessariamente cementati da incontri fisici. La cosa sembra discostarsi molto dalla sua visione del mondo. Qual è il suo punto di vista a riguardo?

Indubbiamente, mi ritengo un “residuo novecentesco”. Internet e le piattaforme digitali evolvono, però ho una certa resistenza rispetto a queste forme di amicizia che, secondo me, sono palliative: non ho nulla contro chi riesce a creare un’amicizia su Facebook, ma io non ci riesco; ho bisogno ci sia un investimento di responsabilità personale. Quando decido di non essere amico di qualcuno, ho bisogno di incontrarmi con lui e poter dire “guarda non siamo più amici” e litigare. Su Facebook basta togliere l’amicizia. Questo è un esempio abbastanza sintomatico dei miei rapporti con la vita digitale. In questo anno e mezzo ovviamente ho fatto tante cose via Zoom: lezioni all’università, interviste e presentazioni. Non ho pregiudizi a riguardo, ma è il mio modo differente di comunicare; non poter parlare davanti a uno spritz ma solo attraverso le storie su Instagram non fa per me.

Parliamo di musica: che tipo di ascoltatore è Mauro Covacich? Lo incuriosiscono generi differenti o ce n’è uno a cui è particolarmente affezionato?

Ho avuto tante stagioni. C’è stato un periodo in cui pensavo di aver scoperto per primo i Radiohead, nei primi anni Novanta; ho sofferto molto quando sono diventati un gruppo planetario, sembrava mi avessero tradito. Ho ascoltato tanta musica, adesso forse più colta: mi piaccciono  Philip Glass e Steve Reich, musica di questo genere. Anche i Coma_Cose mi piacciono da impazzire per il loro lavoro sul linguaggio, per il modo in cui hanno saputo creare un dialogo di coppia, in cui sono entrambi autenticamente artisti e nessuno sottrae spazio all’altro. È figa lei, è figo lui: sono bravi insieme.

Proviamo a rispondere così, a bruciapelo, alla domanda che dà il titolo all’evento de La Controra di cui è protagonista oggi: lo sport è un sentimento?

Lo sport non è un sentimento, ma una pratica di cui ci si appassiona. Se non c’è l’innamoramento per uno sport, non me ne occupo. Proprio perchè è la mia esperienza autobiografica, nel libro Sulla corsa tratto della pratica sportiva a cui ci si dedica solo se si è pienamente innamorati; per questo si diventa anche un po’ fanatici, un po’ pazzi.

INTERVISTA – “Musicultura per aprire la mente ad altre voci, culture e alla creatività come ragione di vita”: Francesco Adornato a La Controra del Festival

Anche quest’anno Musicultura e l’Università di Macerata rinnovano la propria partnership dando la possibilità agli studenti di essere protagonisti del Festival, entrando a far parte della redazione giornalistica di “Sciuscià” o della giuria universitaria.  Ma quest’anno protagonista è stato anche Francesco Adornato, che per un pomeriggio, nell’ambito degli eventi de La Controra, ha svestito i panni di Rettore dell’ateneo per indossare quelli di grande appassionato di Bruno Lauzi. Così, proprio la redazione di “Sciuscià” ha approfittato per parlare un po’ con lui, tra le altre cose, del rapporto tra Università e Musicultura e del modo in cui il Festival può rappresentare una marcia in più nel percorso formativo degli studenti che vi partecipano.

Magnifico Rettore, a molti studenti capita spesso e volentieri di incontrarla per le vie del centro e scambiare con lei un saluto. Questo punto di contatto le è mancato durante il delicato periodo di lockdown?

Decisamente. Al centro dell’università e nel cuore del rettore sono installati gli studenti. L’università è fatta per loro, non per i professori. Questi ultimi sono al servizio dei primi, per formarli professionalmente ed educarli alla cittadinanza e ai valori culturali e ideali della democrazia.

La pandemia ha sicuramente causato molte difficoltà per gli atenei. Come ha reagito l’Università di Macerata alle sfide poste dalla didattica a distanza?

Abbiamo cercato di porre rimedio con una serie di iniziative che non riguardano solo la didattica a distanza. Ritengo che quest’ultima sia un qualcosa di arido, che prosciuga le relazioni e i contatti diretti fra studenti e professori. Adesso, infatti, l’obiettivo principale è riprendere stabilmente in presenza.

 

Musicultura dà la possibilità agli studenti delle Università di Macerata e Camerino di far parte della giuria universitaria e della redazione giornalistica del festival. In che modo queste esperienze possono a suo avviso risultare un punto di forza per il percorso formativo degli studenti che scelgono di intraprenderle?

Il percorso formativo degli studenti, soprattutto nella realtà odierna, così complessa e competitiva, è fatto non solo di contenuti curriculari, ma anche di quelli extracurriculari. Proprio questi ultimi hanno secondo me un significato molto profondo. Musicultura ad esempio avvicina i giovani e gli studenti a un mondo che sembra apparentemente distante. È un’esperienza che aiuta a essere più responsabili, a lavorare in gruppo e a sviluppare nuove idee.

Quanto e in che modo il confronto con grandi scrittori, cantanti e artisti che nei giorni de La Controra affollano i luoghi più caratteristici di Macerata aiuta l’ambiente universitario?

Aiuta intanto ad aprire la mente ad altre voci, culture, linguaggi, ad altri modi di essere e alla creatività come ragione di vita. Lo scrittore infatti costruisce dal nulla una storia e il risultato, per quanto essa sia stata inesistente ed inventata, viene reso verosimile, fino a emozionare e commuovere il lettore.

Partecipa a La Controra di Musicultura nell’ambito di un dibattito sulla storia e sui versi di Bruno Lauzi. Da dove nasce la sua passione per la poetica del grande cantautore e compositore italiano?

Sono cresciuto, da adolescente, nella stagione dei cosiddetti “anni felici”, gli anni ‘60. E quella stagione era caratterizzata da quell’insieme di cultura musicale in cui oltre a Bruno Lauzi figuravano anche grandi artisti come Sergio Endrigo, Umberto Bindi, Gino Paoli. Proprio quell’insieme ha accompagnato le mie emozioni e il mio immaginario sentimentale. Quando Ezio Nannipieri (il direttore artistico di Musicultura, ndr) mi ha invitato a parlarne qui a La Controra non ho esitato un istante. Ritornerai è stata la prima canzone che ha dato forma al mio disagio giovanile esistenziale e vi sono da sempre molto legato. Poi ho seguito Lauzi in tutta la sua carriera, in quanto personaggio eccezionale, poliedrico, anticonformista e uomo libero. Credo che per i più giovani questo tipo di testimonianze possano essere molto educative.

INTERVISTA – “Per fare giornalismo serve far innamorare i giovani dell’informazione di qualità”: Benedetta Rinaldi a La Controra di Musicultura

Giornalista, conduttrice radiofonica e televisiva, dopo la laurea in scienze politiche Benedetta Rinaldi ha debuttato a Radio Meridiano 12, prima di approdare a Radio Vaticana con il programma Stop! Precedenza a chi pensa. Grazie alla sua collaborazione con Rai Radio 2, inizia la sua carriera sul piccolo schermo con i programmi A sua Immagine, Uno Mattina e La Vita in Diretta Estate. Ospite a La Controra durante la settimana della finalissima di Musicultura, la giornalista romana, volto simbolo di Elisir su Rai3, si racconta così alla redazione Sciuscià.

Benedetta Rinaldi, giornalista, conduttrice televisiva e radiofonica, volto per diversi anni del programma Uno mattina e, dallo scorso anno, di Elisir. Quando si portano in televisione temi d’attualità c’è dietro un impegno professionale continuo e totalizzante, soprattutto se si considerano i tempi “veloci” del mezzo televisivo. Ecco, quanto il lavoro del giornalista, poi, si riversa nella sfera privata e personale della sua vita?

Nel caso di Uno Mattina non c’era proprio vita privata, nonostante avessi già un figlio e la famiglia sia sempre stata una delle mie priorità. L’informazione accade, a prescindere da tutti i nostri piani: Uno Mattina era un continuo di lavoro e di studio. Spesso gli ultimi copioni arrivavano a mezzanotte e difficilmente erano quelli definitivi. Per essere più precisi possibile è necessario rimanere sempre connessi.

Nelle interviste che ha rilasciato in passato ha parlato sempre di quanto conoscere l’italiano ed essere curiosi siano le colonne portanti del mestiere. Cos’altro è fondamentale per la formazione e la preparazione al mondo giornalistico?

Innanzitutto, dipende molto da che tipo di giornalismo intendiamo: sicuramente, l’italiano è la base, ma si dovrebbe conoscere anche l’inglese. Se l’estero è una delle opzioni, bisogna conoscere le lingue. Quando invece il giornalismo è d’inchiesta, è fondamentale non aver paura del sacrificio. Basta vedere Federica Angeli, che vive blindata con suo marito e i suoi bambini: hanno accettato il prezzo di non piegare la schiena. Altri invece, comePaolo Borrometi, non hanno intenzione per il momento di farsi una famiglia e danno priorità alla carriera. Per il giornalismo di divulgazione, vale a dire per il mio settore, ciò che conta è l’onestà intellettuale, la capacità di farsi e fare  le giuste domande. È un servizio: non conta l’autorefenzialità, nonostante il lavoro possa dare una discreta popolarità; serve la curiosità, anche quella più “spicciola”.

Chi si occupa di informazione ha anche la responsabilità di sensibilizzare l’opinione pubblica su determinate tematiche. Lei, ad esempio, ha raccontato la vita degli italiani emigrati all’estero cercando nuove opportunità di lavoro. Cosa, secondo lei, potrebbero e dovrebbero fare le istituzioni per sostenere i giovani che si affacciano al mondo del lavoro?

Sicuramente si dovrebbe investire nei gradi primari dell’istruzione: i più piccoli vanno avvicinati alla lettura e alla scrittura. Si dovrebbe lavorare di più per far innamorare i ragazzi della cultura. Camminando per Macerata ho visto delle librerie meravigliose per bambini: bisogna educare anche alla bellezza dell’informarsi, del farsi le giuste domande e del sapersi esprimere correttamente. Non basta accontentarsi di uno Stato che offre di che mangiare, dovremmo imparare a procurarcelo da soli. Come? Con un’educazione che sia corrispondente ai bisogni del mercato e del mondo del lavoro. In più, bisognerebbe anche rendere giustizia al lavoro degli insegnanti.

È mamma di due splendidi bambini. Quanto è difficile oggi per le donne conciliare carriera e figli? Si parla spesso di uguaglianza tra generi eppure le discrepanze sono ancora molte…

Bisogna vedere cosa si intende per uguaglianza: una donna non sarà mai uguale a un uomo, così come un uomo non sarà mai uguale a una donna. Ad esempio, nel fenomeno del multitasking, una donna con dei figli ha una capacità di concentrazione equa tra famiglia e lavoro. In genere, un uomo – perlomeno nei casi che conosco personalmente – affronta un problema alla volta. Quello che dovremmo ottenere è la parità di retribuzione. È una richiesta persino anacronistica: dovrebbe essere un assunto che se un uomo e una donna lavorano nello stesso settore e alla stessa scrivania non possono essere pagati diversamente. Mancano ancora dei sussidi anche dal punto di vista aziendale; quanto farebbero comodo scuole e asili nido in loco? Per non parlare dei colloqui di lavoro in cui domandano alle donne se hanno intenzione di fare figli per decidere se assumerle o meno – domanda, in teoria, perseguibile penalmente. Se una donna ha interesse ad avere una famiglia è naturale che accada. Con i miei due figli riesco a portare a casa la mia giornata lavorativa e il mio stipendio, credo di fare bene e spero che anche altre donne possano riuscirci, nonostante le diverse esigenze di ciascuna.

Qual è il suo rapporto con la musica? C’è un genere che preferisce o è un’ascoltatrice onnivora? Qual è il suo artista preferito?

Ho studiato pianoforte e chitarra, ma ho capito subito che quella non è la mia strada; a dirla tutta, non sono neppure dotata di una grande voce. Per questo mi piacciono tanto le cantanti con un’estensione vocale invidiabile, come Giorgia o Laura Pausini. In genere sono molto pop. Il mio rapporto con la musica è stupendo: seppure non necessariamente a parole, credo sia la forma d’arte più espressiva che io conosca. I brani che mi facevano piangere o sorridere a 15 anni mi fanno ancora emozionare.

 

INTERVISTA – “La musica ha gli stessi stilemi della letteratura”: Enrico Pandiani a La Controra di Musicultura

Enrico Pandiani inizia la sua carriera nel mondo editoriale curando l’infografica del quotidiano La Stampa. Segue poi un apprendistato di narratore, sceneggiando e scrivendo fumetti presso le riviste Il Mago e Orient Express.
L’anno del suo esordio come scrittore è il 2009, con Les Italiens, a cui seguiranno altri romanzi per la saga del commissario Jean-Pierre Mordenti. Pandiani è tra i fondatori dell’associazione Torinoir e la sua carriera l’ha reso uno dei migliori autori italiani di romanzi polizieschi. Ospite de La Controra, si racconta così alla redazione di Sciuscià.

“Un giorno di festa”, “Lezioni di tenebra”, “Les italiens” sono solo alcuni dei suoi romanzi gialli più famosi. In questo genere letterario la suspance e l’effetto sorpresa sono fondamentali. Quanto vale anche per la musica il saper costruire una trama che incolli l’ascoltatore alla canzone o all’album?

Penso che sia esattamente la stessa cosa perché un brano musicale, come un libro, è una storia; quindi più la storia è interessante e va a colpire chi l’ascolta, facendo scattare certe cose, più viene apprezzata. Per questo ci sono canzoni più belle e canzoni più brutte. A volte è il testo, a volte è la musica. Vedevo l’altro giorno un film che si chiama La corsa della lepre, un film francese degli anni ‘70 in cui c’è la scena iniziale senza suono, con un treno che arriva in stazione e questo zingaro che suona una melodia con un flauto. Quella melodia lì ha reso il tutto affascinante. Secondo me la musica ha gli stessi stilemi della letteratura. Le note sono quello che colpisce chi la ascolta.

La nostra vita, soprattutto durante la pandemia, è diventata sempre più digitalizzata; anche la lettura, grazie ad audiolibri ed ebook, sembra seguire questa strada. Come vede questo cambiamento?

Io penso che in Italia il problema non sia tanto che cosa legge la gente, ma proprio il fatto che la gente non legge. Solamente il 20% delle persone legge più di un libro all’anno e questo per me è drammatico. Si rispecchia in tutto quello che succede nel nostro Paese: nell’intolleranza e nell’ignoranza. Alla fine l’importante è leggere, se volete leggere sugli e-book, leggete pure lì. Ma soprattutto, comprate i libri dai librai e non su Amazon.

Ha lavorato a lungo come grafico editoriale, illustratore e sceneggiatore di storie a fumetti. L’immagine oggi è tutto. E se non è tutto, è decisamente molto. Quanto secondo lei questo discorso vale anche per la musica? Dalla copertina del singolo o dell’album, all’architettura del palco o all’estetica dell’artista, quant’è importante quel che vedono i nostri occhi?

Senz’altro è molto importante. Io, nella mia vita, ho spesso comprato libri e dischi anche solo per le loro copertine e poi finiva che magari nemmeno mi piacevano per il loro contenuto. Quanto alla musica, mentre l’ascolti ti crea delle immagini, quindi è suggestione. E più la musica è capace di suggestionare e di far passare per la testa di una persona una serie di immagini, più è efficace, idem per i libri. Per esempio, odio le copertine dove c’è un viso riconoscibile perché la grandissima forza della letteratura è che se in dieci leggiamo lo stesso libro, probabilmente ci immaginiamo dieci personaggi principali diversi. Se invece metto la stessa faccia sulla copertina, tutta questa magia decade. Quindi l’immagine è importante perché è forse giustamente la prima cosa che si vede.

Nella scrittura di un romanzo spesso si arriva a quelle che lei ha definito “storie collaterali”. Quanto sono importanti, per lei che è un autore, le interpretazioni e, appunto, le storie collaterali che fanno emergere i suoi lettori?

Diciamo che le storie collaterali sono l’anima vera di un romanzo, perché sono un po’ come la struttura che tira su tutto quanto. I protagonisti hanno un ruolo principale ma senza tutto il resto la storia finisce lì; invece le storie collaterali, i rapporti e le relazioni che si creano, sono la vera struttura che copre un romanzo.
Più riesci a convincere un lettore di quello che hai scritto e a coinvolgerlo, più sei riuscito nel tuo lavoro. Ogni tanto ti capita di incontrare qualcuno che ti parla dei personaggi come se li avesse incontrati dieci minuti prima e questo mi lascia a bocca aperta perché vuol dire che se prima non esistevano, adesso invece esistono, anche se sono personaggi di fantasia; è così che la gente può viverli come se fossero veri.
È una magia, magari non sempre ti riesce, però la insegui in continuazione. 

Si parla sempre più del “politicamente corretto”, anzi in molti si lamentano del fatto che non si possa dire niente senza urtare la sensibilità di qualcuno. Per lei che è uno scrittore, quanto sono importanti e quanto pesano effettivamente le parole? Fino a che punto ci si può spingere senza oltrepassare il limite?

Io sono contrario al politically correct. Sono abbastanza refrattario e penso che ci si debba comportare come si preferisce. Se una donna mi chiede di chiamarla “avvocata”, la chiamo così. Non lo scriverei mai su un mio romanzo visto che non mi piace l’ipocrisia. Penso che alla fine questo politically correct sia un’ipocrisia perché continuiamo a pensare come prima ma diciamo la cosa in maniera diversa perché pensiamo che non offenda nessuno. Ad esempio, sappiamo che “l’operatore ecologico” è in realtà uno spazzino, per cui non è che se lo chiamiamo “operatore ecologico” non è più uno spazzino, infatti continuiamo a considerarlo come tale. Questa è per me un’ipocrisia che andrebbe sempre evitata.

INTERVISTA – “Guardare avanti senza mai dimenticare le nostre radici”: Lorella Cuccarini a La Controra di Musicultura

C’è solo un volto che viene in mente quando qualcuno dice “la più amata dagli italiani”: quello di Lorella Cuccarini. Ballerina, cantante, attrice, conduttrice televisiva e radiofonica, la sua è una carriera ricca di successi, iniziata con Pippo Baudo negli anni ottanta, nel varietà Rai Fantastico. L’abbiamo vista a Paperissima, Buona Domenica, La vita in diretta, Domenica In e, più recentemente, ad Amici 2021 di Maria De Filippi in veste d’insegnante di danza.

Ospite de La Controra di Musicultura, nella bellissima cornice del Palazzo Buonaccorsi, l’artista si è raccontata anche alla redazione di Sciuscià.

Si è da poco conclusa ledizione 2021 di Amici, nellambito della quale lei è stata professoressa di ballo. Il percorso dei ragazzi che partecipano al programma è costellato di prove a cui fanno seguito giudizi spesso discordanti. Cosa rende costruttivi un giudizio o una critica? E qual è il miglior modo, invece, per affrontare, un riscontro negativo?

Le critiche sono costruttive quando riferite a qualcosa che non viene svolto nel modo più giusto, per cui un insegnante dovrebbe cercare di accompagnare gli allievi, evitando di fare errori già fatti. Diverso quando vengono usate delle parole che possono essere fraintese o quando si scende sul personale. In questi casi si deve avere anche la forza di opporsi. I ragazzi oggi mi sembrano più maturi, più in grado di affrontare una figura autorevole, quasi intoccabile. Nessuno è intoccabile, le cose devono essere fatte nel modo giusto da parte di chiunque, insegnante e allievo.

Nel mondo dello spettacolo – ma anche in quello dei social, grazie soprattutto a TikTok  – sempre più spesso vediamo affermarsi performer che uniscono due discipline: canto e danza. Quanto è importante dare al pubblico unesibizione a 360°? Soprattutto, come rendere durevole un successo che spesso declina molto velocemente?

Dipende molto dalla passione, fin da quando avevo tre o quattro anni volevo fare spettacolo nella vita. È chiaro che la danza è stato il mio primo amore, ma dopo ho avuto fame di fare altro. Secondo me, un personaggio di spettacolo dovrebbe aver voglia di mettersi in gioco in tutti i campi, senza sentirlo come obbligo. Ci sono dei ballerini che hanno una grandissima passione per la danza in senso accademico, quindi è giusto che si dedichino unicamente a questo e che lo facciano al meglio.

A proposito di 360°: lei vanta una carriera da conduttrice televisiva e radiofonica, ballerina, attrice, cantante. La notte vola”, Magic”, Un altro amore no”, Io ballerò” sono solo alcune delle canzoni che hanno fatto innamorare gli italiani. Qual è il segreto per scrivere un pezzo che diventi senza tempo?

Bisogna sempre guardare avanti, al futuro, senza mai dimenticare le nostre radici.
Basta pensare che oggi il mondo della musica ha veramente saccheggiato tutto quello che c’era di grande negli anni ottanta: quella voglia di vivere, quell’energia e quell’entusiasmo, tanto nei suoni che nei testi. Allora, forse il giusto mezzo è questo, a metà strada tra passato e futuro.
Dove c’è equilibrio, c’è anche la capacità di parlare ai giovani.

Restiamo in ambito musicale: ci racconta dei suoi gusti? C’è un artista che ama più degli altri? Qual è la sua canzone preferita, quella che più la rappresenta, e perché?

Io sono cresciuta con la grande musica italiana degli anni settanta e ottanta e con i grandi cantautori. Sono stata una sorcina, per me Renato Zero è sempre stato un poeta di riferimento. Poi, con il tempo, ho apprezzato anche la musica soul e la disco.
Credo che le canzoni raccontino un pezzo della tua storia; questa è la loro grande forza.
Grazie alla mia professione sono sempre stata estremamente curiosa, ad esempio negli spettacoli di musical ho portato perfino brani tratti da arie dell’opera. Secondo me è bello avere una cultura a 360°, ti permette di dar vita a contaminazioni, cosa che amo particolarmente nella danza.

Abbandoniamoci a uno sliding doors”: se non fosse stata una performer a tutto tondo, chi sarebbe stata Lorella Cuccarini? Cosa avrebbe fatto nella vita?

Da bambina, per un po’, ho immaginato di fare la parrucchiera o il pompiere, ma, in fondo, ho sempre voluto fare solo spettacolo.
Faccio anche la mamma, che è il mestiere più bello del mondo, quindi chissà, forse mi sarei dedicata più a questo.

INTERVISTA – “La poesia ci fa sentire partecipi dello stesso destino”: Maria Grazia Calandrone a La Controra di Musicultura

Maria Grazia Calandrone è poetessa, scrittrice, drammaturga e conduttrice radiofonica. Il suo ultimo libro, Splendi come vita, è candidato al Premio Strega 2021. In prosa e poesia racconta la sua vita che, seppur difficile, l’ha resa la donna che è oggi. Il suo amore per le parole viene tradotto in spagnolo e francese, anche se da sempre è affascinata dalla cultura giapponese, elegante ed essenziale, come le sue poesie. Quella giapponese è anche una cultura che ha potuto conoscere più da vicino, visitando, grazie al Premio Italiano Haiku, città come Tokyo e Kyoto. Ospite durante la settimana de La Controra maceratese, si è raccontata alla redazione di Sciuscià.

Spesso si dice che una canzone è una poesia in musica. Per lei che è una poetessa, una scrittrice e una conduttrice radiofonica, quanto è importante la musicalità delle parole? E come si sviluppa il suo processo creativo?

La musicalità delle parole è fondamentale, al punto che io dico che il mio romanzo Splendi come vita è una prosa musicale, non solo un’opera di narrativa. È fondamentale il ritmo. Dentro questo libro ci sono moltissimi endecasillabi e settenari, moltissimi espedienti metrici camuffati; è come per la grammatica: ad un certo punto tutto ti viene spontaneo e solo poi, nella rilettura, senti come suona.
Senza dubbio la musica è fondamentale, anche se in realtà la poesia non avrebbe bisogno di altro che di se stessa. Non c’è necessità di musicare le parole.

Splendi come vita, appunto. Il libro, candidato al Premio Strega 2021, racconta la sua vita unendo stili diversi quali prosa e poesia. Cosa ha provato nel raccontarsi? E cosa prova ora sapendo che anche in questo momento c’è qualcuno che sta leggendo la sua storia? 

Spero che serva. È un libro che può essere letto da chiunque abbia una madre, o che l’abbia o non l’abbia, perché funziona anche per assenza. Racconta di questa relazione con un genitore, per cui spero serva magari ad altre madri adottive che, come la mia, sprecano tempo della loro vita a causa di questo sentimento di inadeguatezza.

Chi scrive si ritrova inesorabilmente davanti al bianco della pagina che – muovendo tra due eccessi – può comportare il “blocco dello scrittore” o, al contrario, l’arrivo simultaneo di milioni di idee. Qual è la sua strategia per affrontare entrambe le situazioni? Che consigli si sente di dare a chi vorrebbe scrivere ma non sa da dove iniziare?

Leggere. La prima cosa è leggere, leggere tanto perché tutto quello che noi leggiamo lo assumiamo anche inconsapevolmente. Sapere quello che si fa nella nostra vita e nel mondo, quindi leggere anche molta letteratura contemporanea, oltre i grandi classici. In genere il bianco non mi ha mai spaventata, se non ho nulla da scrivere non mi ci metto proprio di fronte al foglio. Se invece c’è una sovrabbondanza di parole, vado in bicicletta.

Quando ascoltiamo una canzone associamo immediatamente il testo alle nostre esperienze, come quando leggiamo un libro e sottolineiamo le frasi che più ci rappresentano. Come avviene questa magia del ritrovarsi nelle parole che ha scritto un’altra persona? Quanto un libro o una poesia riescono ad avvicinare le persone?

Io penso che la poesia ci porti in un luogo dove, dalla radice, funzioniamo tutti con gli stessi meccanismi. In questo senso, credo che abbia la potenza straordinaria di farci avere compassione gli uni degli altri; siamo talmente tanto delle povere creature abbandonate in un naufragio cosmico… Io penso che questo sia il senso e il segreto della poesia: farci sentire partecipi dello stesso destino.

Lei è un’attivista della parola: organizza incontri di lettura e laboratori di scrittura creativa nelle carceri, nei DSM, con i malati di Alzheimer e con i migranti. Quanto è terapeutica la scrittura?

Lo è molto e la conferma sono i detenuti che hanno cominciato a scrivere in carcere, esprimendo addirittura la propria vocazione per i figli in versi. È un modo per sentire vicino chi è lontano, ed è anche un modo per conoscersi, per decifrare prima se stessi e poi gli altri. Quando si è particolarmente fortunati da riuscire a rimanere nella poesia così a lungo, da poterla usare come strumento per l’indagine della realtà: quello è uno degli scopi migliori che possa avere.

INTERVISTA – «Se fosse un’intervista a parlare per noi»: Colapesce e Dimartino a La Controra di Musicultura

Senza dubbio tra gli ospiti più attesi della settimana di eventi de La Controra, Colapesce e Dimartino hanno fatto tappa a Macerata per raccontare, guidati da John Vignola, “la meravigliosa leggerezza di essere Franco Battiato”. Intervistati dalla Redazione Sciuscià, i due cantautori siciliani hanno parlato anche della loro ultima e fortunata esperienza al Festival di Sanremo, al quale hanno partecipato con il brano Musica Leggerissima. Dopo il debutto sul grande schermo come “consulenti musicali” a Propaganda Live, i due hanno colto anche l’occasione per dispensare consigli utili agli 8 vincitori di Musicultura.

Disco di platino, brano più trasmesso dalle radio italiane, premio della sala stampa a Sanremo e un imminente futuro da canzone dell’estate: Musica Leggerissima ha riscosso un successo a dir poco incredibile, ma è stata soprattutto una boccata di spensieratezza per molti italiani durante un periodo decisamente complicato. Quanto vi rende orgogliosi questo speciale riconoscimento?

Colapesce: Siamo molto contenti del successo ottenuto con il brano. Musica Leggerissima è riuscita a diventare popolare nel vero senso del termine, ovvero è arrivata un po’ a tutti.

Dimartino: Esatto. Musica Leggerissima è un brano molto trasversale. Il fatto che lo cantino i bambini così come gli anziani ci rende orgogliosi perché non succede spesso con le canzoni.

Musica Leggerissima, appunto, si inserisce nella riedizione de I Mortali, una raccolta che, oltre ai pezzi scritti a  quattro mani contenuti nella prima versione dell’album, contempla anche alcuni dei vostri successi da solisti. Ecco, in che modo i vostri percorsi musicali si mescolano in questo disco – e inevitabilmente in quello che lo ha preceduto? Soprattutto, com’è stato scrivere a quattro mani?

Dimartino: Quando ci siamo messi a scrivere I Mortali il nostro obiettivo era fare un disco quasi da band: ecco perché ci hanno lavorato diversi produttori. L’idea che volevamo dare era che il leader fosse una terza persona, né Colapesce, né Dimartino ma Colapesce – Dimartino. Siamo contenti che questa cosa sia arrivata al pubblico, non più essere visti come un duo ma come una band.

I Mortali² si chiude con la vostra versione di Povera Patria, uno speciale tributo a Franco Battiato, venuto a mancare poco meno di un mese fa. Fra i tanti capolavori che figurano nel suo repertorio, perché avete scelto proprio questo per omaggiarlo?

Colapesce: Povera Patria è sempre, ma anche purtroppo, giusta in ogni momento storico. Cantarla però durante il delicato periodo pandemico, attraverso una cassa di risonanza grande quanto il Festival di Sanremo, ci sembrava l’occasione più appropriata per permettere all’ascoltatore di coglierne il vero significato. Alla fine credo che il messaggio sia arrivato a destinazione.

 Sempre a proposito della vostra esperienza a Sanremo, avete tratto tutto il possibile da essa, consacrandovi come due fra gli artisti più interessanti della scena musicale italiana. C’è un consiglio che vi sentite di dare agli 8 vincitori di Musicultura che cercano di emergere proprio in quella stessa scena?

Colapesce: Guardate sempre la sezione “lavoro” dei vari siti Internet, Dimartino può consigliarvene alcuni in particolare (ndr. ridono). Scherzi a parte, concentratevi solo sulla vostra musica, mettendo da parte tutto il resto. La musica può anche semplicemente rimanere una passione e non per forza deve diventare un lavoro.